La scuola sociologica francese
Per comprendere a pieno il percorso intellettuale di Emile Durkheim (1858-1917), è necessario contestualizzare la sua sociologia all'interno del particolare momento storico nel quale operò. Le forti tensioni politico-sociali della Francia di fine '800, unite ad una crescita economica contrassegnata da forti contraddizioni interne, lo spinsero ad occuparsi del problema sociale, all'interno del quale trovò spazio la nascita del suo apparato teorico-concettuale, riguardante in particolar modo la funzione delle normative sociali e lo sviluppo di una nuova forma di morale laica e scientifica. Durkheim, come è possibile analizzare leggendo le sue quattro opere principali, cercò di sviluppare un numero limitato di idee, che formarono le basi teoriche per la costruzione di un'imponente sovrastruttura sociologica. Sia la lettura della sua prima opera di rilievo, La divisione sociale del lavoro (1893), che il suo ultimo grande lavoro, Le forme elementari della vita religiosa (1912), ci informa di come le tematiche affrontate siano funzionali alla descrizione di poche idee fondamentali. Durkheim scrisse e si impegnò in varie direzioni, politica, pedagogia, etica, pubblicò un trattato di sociologia ed uno sul suicidio, eppure in tutti i suoi lavori è possibile rintracciare un nucleo fondamentale, il rapporto individuo-società. Fin dal suo primo lavoro importante, è possibile delineare quel sistema teorico che sarà sviluppato nel corso della sua vita di studioso. Durkheim si batté sempre per donare autonomia alla nascente sociologia, tentando di renderla autonoma dalla filosofia, e che fosse, inoltre, retta esclusivamente da basi scientifiche. L'osservazione empirica dei fenomeni studiati, e l'eliminazione di tutte quelle pre-nozioni che erano state la causa di enormi fraintendimenti riguardante la conoscenza della società e delle leggi che ne governavano il funzionamento, sono da considerare come i due capisaldi teorici da cui partirono tutti gli esponenti che fecero parte della corrente. La caratteristica principale della metodologia della scuola sociologica francese fu quella di considerare i fenomeni sociali (dalla famiglia alla parentela, dalla religione all'economia) come "cose" aventi una vita propria, la cui esistenza sarebbe stata garantita indipendentemente dall'apporto delle singole coscienze, e capaci, per questo, di esercitare una pressione costante sugli individui del gruppo. L'intera gamma dei fatti era da studiare con l'ausilio del metodo dell'osservazione empirica, al fine di garantire scientificità ad ogni fase dello studio. Durkheim era convinto che la società fosse da intendere come un entità sui generis, ossia un sistema avente una vita propria, indipendentemente dall'apporto delle coscienze singole. La società dettava le sue regole dall'alto, ed attraverso un processo coercitivo costante, costringeva i suoi membri a conformarsi a tali regole. Attraverso l'uso di esempi tratti dalla chimica e dalla biologia, Durkheim fornirà una chiara idea del suo concetto di società, all'interno della quale ogni individuo verrà considerato in analogia con le singole cellule di un organismo vivente. Scrive a proposito "La durezza del bronzo non si trova né nel rame né nello stagno che sono serviti a formarlo, e che sono corpi molli o flessibili; essa si trova nella loro mescolanza". La società non doveva quindi essere considerata come la semplice risultante delle singole coscienze, quanto rappresentare una sintesi operata dalla loro fusione. Compresa l'idea di aggregato sociale, Durkheim tentò di definire il tipo di solidarietà, ossia il grado di coesione esistente che vige presso i gruppi umani, rintracciandone due tipi: la solidarietà meccanica, derivante dalla indifferenziazione tra gli individui, tipica delle società "primitive", e organica, in cui ogni singolo membro assolve ad una particolare funzione, tipica delle società complesse in cui vige una marcata divisione delle attività lavorative. Quale che fosse la sua origine, ogni società era caratterizzata dall'esistenza di una coscienza collettiva, ossia quell'insieme di credenze, norme e sentimenti comuni alla media dei membri che la costituiscono. La coscienza collettiva (termine che Durkheim modificherà nel tempo con "rappresentazioni collettive") è ciò che determina la condotta dell'individuo in società, che ispira i suoi comportamenti, in modo che ogni azione, conforme allo statuto di una società, possa generare consenso sociale. Da ciò si può concludere che l'individuo è un prodotto della società, e non viceversa, perché questa è irriducibile dalla somma dei singoli, e mantiene una vita propria. Ogni azione che si compie in società è, dunque, frutto di una coscienza che ci è superiore, e dalla quale dipendiamo. Nel Suicidio (1897) Durkheim tenterà di applicare i suoi enunciati teorici ad un fenomeno empirico di rilievo. Mettendo in evidenza il fatto che i tassi di suicidio mantengono, a livello statistico, valori costanti nel tempo e nei luoghi, Durkheim arriva alla conclusione che il suicido va inteso essenzialmente come un fatto sociale, in cui nulla è l'importanza della volontà del singolo. Grazie all'utilizzo di tabelle statistiche, si deduce, a livello di teorizzazione generale, che il suicidio varia in modo inversamente proporzionale al grado di socialità che l'individuo riesce a sviluppare, presentandosi, quindi, come un fenomeno che, prescindendo dalla psicologia individuale, va analizzato come indicatore del livello di coesione di un gruppo. Questo vuol dire, sostanzialmente, che più un individuo è inserito all'interno del gruppo, meno ha probabilità di suicidarsi. Durkheim arrivò a definire tre diversi tipi di suicidi, alla cui base agivano differenti motivazioni. Il primo era il suicidio egoistico, riscontrabile nelle società sviluppate, e si riferiva a quei casi in cui vi era una scarsa integrazione sociale. Il secondo tipo venne chiamato anomico, dovuto, al contrario, allo spaesamento dell'individuo causato da temporanee disfunzioni tra le varie parti costituenti una struttura sociale. Queste fasi anomiche erano tipiche di periodi di forti stress sociali, come ad esempio una pronunciata accelerazione economica, o un periodo di forte depressione, come ad esempio fu il 1929 in America. Senza più regole che ne dettassero il comportamento e ne limitassero i desideri, l'individuo si trovava solo con se stesso, e questo poteva essere una causa di elevati tassi di suicidi. L'ultima forma trattata fu quella che prese il nome di suicidio altruistico, tipico delle sole società "primitive". La caratteristica principale, al contrario degli altri due, è il forte senso di appartenenza e attaccamento a valori comuni espressi da un gruppo, ponendosi, per genesi e per causa scatenante, all'opposto rispetto alle altre due forme precedentemente trattate. L'esempio che riporta Durkheim è quello dell'anziano che, una volta divenuto un peso per il suo gruppo d'appartenenza, in ragione dell'impossibilità di contribuire ai normali processi produttivi interni, preferisce lasciarsi morire di fame piuttosto che subire l'umiliazione morale di sentirsi socialmente inutile. La scuola sociologica francese si avvalse, nel tempo, di eccellenti studiosi, che contribuirono, attraverso le loro opere, allo sviluppo delle idee del maestro. Se i concetti sui quali verteranno tali studi rimarranno, infatti, sostanzialmente i medesimi, si amplieranno il campo conoscitivo e le tematiche affrontate, con aperture sempre maggiori verso gli studi etnografici ed antropologici. L'opera di Robert Hertz (1881-1915) si colloca in stretta analogia con le idee sociologiche di Durkheim, dal quale riprenderà soprattutto la nozione relativa alla divisione oppositiva tra sacro e profano, e la problematica riguardante i meccanismi che consentono il funzionamento della società, attraverso quelle normative sociali che garantiscono il ripristino dell'equilibrio interno, una volta che questo è stato turbato da forze potenzialmente destrutturanti. La pratica della doppia sepoltura (1907), che Hertz aveva studiato a partire dal materiale etnografico riguardante i Dayak del Borneo, acquisiva importanza proprio in funzione del ruolo che tale pratica aveva nel permettere il superamento di momenti considerati socialmente pericolosi. La morte di un individuo, visto nella doppia accezione di essere sociale e biologico, doveva quindi essere superata attraverso lo svolgersi di complessi rituali, in grado di garantire continuità al defunto, il quale veniva, di conseguenza, recuperato a livello etico; in tal modo si otteneva il risultato di non indebolire il corpo sociale, e di mantenere coerente il sistema di ruoli e status che proprio la scomparsa dell'individuo poteva mettere in pericolo. Le regole sociali cui era subordinata l'intera pratica della doppia sepoltura, andavano ad inserirsi all'interno del più vasto corpus di normative predisposte al normale funzionamento della società, e creavano un corpo teorico grazie la quale diveniva possibile spiegare in maniera oggettiva i meccanismi funzionali al mantenimento dell'equilibrio interno. In una seconda opera pubblicata due anni dopo, nel 1909, intitolata La preminenza della mano destra, Hertz tenterà di analizzare l'uso quasi universale della mano destra, collegandola, più che a cause fisiologiche, intese come sviluppo maggiore della zona sinistra del cervello, a considerazioni di tipo sociologico. Scrive a proposito Hertz "Non c'è dubbio che una correlazione esista tra la predominanza della mano destra e il superiore sviluppo dell'emisfero sinistro del cervello. Ma, di questi due fenomeni, qual'è la causa e quale l'effetto? Cosa ci impedisce di capovolgere l'affermazione di Broca e dire "Siamo mancini di cervello perché destri di mano?" Con un'argomentazione tipica del suo maestro, Hertz dimostra come l'uso della destra sia, in realtà, il risultato di una serie di rappresentazioni collettive, che gli hanno dato forma dall'esterno e l 'hanno imposta attraverso un processo di coercizione sociale. Riprendendo la divisione primordiale tra sfera sacra e sfera profana esistente presso tutte le società umane, Hertz inserisce la parte destra nella prima, sede di tutte le attività positive, mentre relega la sinistra in quella profana, al contrario, sede di tutti gli aspetti negativi. L'uso della mano destra diventa quindi un ideale cui aspirare, rientrando, per questa ragione, all'interno di una problematica sociologica. Per Hertz, infatti, i lievi vantaggi fisiologici non possono dar conto della differenza qualitativa con cui è vista tale differenziazione, tant'è che studi pedagogici hanno dimostrato la pari funzionalità della sinistra se opportunamente educata nell'infanzia. La differenza tra l'uso delle due mani presenta, perciò, i caratteri di una vera e propria istituzione sociale, nella quale la destra viene collegata ad una serie di sanzioni positive. Successivo a questo saggio fu uno studio riguardante alcuni culti svolti in una località alpina nei pressi di della città di Aosta, San Besso, studi che verranno ad interrompersi all'indomani dello scoppio della prima guerra mondiale, dove Hertz troverà la morte in battaglia nel settembre del 1915. Allievo oltrechè nipote di Durkheim, Marcel Mauss (1872-1950) è da considerare come il padre fondatore dell'etnologia francese. Pur essendo una delle ultime grandi figure di studioso "da tavolino", le sue opere possono essere oggi considerate come i primi tentativi di definizione di nuove branche del sapere antropologico, opere che influenzarono, attraverso il concetto di reciprocità, la nascita dello strutturalismo di Lévi-Strauss. All'interno della sua vastissima opera, che toccò un numero rivelante di problematiche, sono da citare, limitatamente a questa sezione, il Saggio sulle variazioni stagionali delle società eschimesi, pubblicato nel 1904, e il suo capolavoro, il Saggio sul dono, scritto nel 1923. Lo studio sugli eschimesi fu un primo tentativo di applicare il suo oggetto teorico, l'ormai famoso fatto sociale totale, ad un fenomeno empirico, ossia al modo in cui le popolazioni eschimesi si strutturavano fisicamente all'interno del proprio territorio a seconda dei periodi dell'anno. Per fatto sociale totale, Mauss intendeva specifici fatti in grado, da soli, di convogliare una gran quantità di altri fenomeni di natura analoga. In tal modo diventava possibile porre l'attenzione non ad una serie di rappresentazioni collettive, quanto ad un singolo fenomeno, in grado, però, di dar conto del modo in cui veniva strutturata la società da parte dei suoi membri. Il fatto sociale totale doveva configurarsi come un punto di partenza da cui fosse possibile spiegare i differenti aspetti sociali di un gruppo. Scoperto il nocciolo centrale di una struttura, era possibile, per estensione, avvicinarsi alla conoscenza di tutto ciò che esisteva proprio in funzione di esso, compresi i relativi livelli simbolici. Nel saggio, dunque, Mauss studierà il diverso modo che hanno le società eschimesi di strutturarsi sul territorio a seconda delle differenti stagioni dell'anno, viste in stretta dipendenza con l'organizzazione delle attività economiche. Tale forma di organizzazione verrà intesa da Mauss come un fenomeno a partire dal quale sarà possibile gettare uno sguardo sulla diversa intensità sociale del gruppo nei vari periodi. La dispersione in piccoli gruppi tipica delle stagioni calde, in concomitanza con l'inizio delle attività di caccia, e la conseguente riaggregazione nei successivi mesi invernali, poteva dar conto, per Mauss, delle modalità con cui venivano organizzati i diversi livelli del sociale. La progressiva concentrazione umana avrà l'effetto, infatti, di contribuire ad aumentare la coesività del gruppo, periodo nel quale saranno intensificate tutte quelle pratiche collettive (feste, riti, relazioni interpersonali) in grado di eccitare i sentimenti in direzione di valori comuni e di appartenenza ad un'unica totalità, la cui effervescenza era andata diminuendo in corrispondenza della stagione estiva. La natura dicotomica delle relazioni sociali presso gli eschimesi, che ricalca fedelmente la primordiale polarità oppositiva sacro-profano, caratterizzata da periodi di "individualismo" e "collettivismo", faceva sì che le modalità con cui venivano rappresentati gli esseri viventi e le cose si strutturassero in maniera analoga, sempre in riferimento alla morfologia del gruppo. Il principio classificatorio diveniva, perciò, intelligibile nel momento in cui veniva messo in rapporto al modo con cui gli eschimesi si disponevano fisicamente sul territorio, facendo sì che tale disposizione potesse assumere il carattere di un vero e proprio fatto sociale totale, la cui comprensione permettesse, in ultima analisi, un'apertura decisiva verso la conoscenza specifica di un numero considerevole di fenomeni che potevano ritrovarsi all'interno di un gruppo. La teorizzazione del fatto sociale totale, resa maggiormente flessibile dalla conoscenza dei materiali etnografici di Boas e Malinowski, permise, infine, la stesura del suo lavoro più noto, il Saggio sul dono. La teoria attorno alla quale ruota l'intero apparato concettuale del saggio si rifà alla presenza, presso tutte le società "primitive", dell'esistenza della triplice obbligazione morale del dare, ricevere e ricambiare. L'intero fenomeno della circolazione, comprendente oggetti materiali, persone ed apparati simbolici, lungi dall'essere coordinato essenzialmente da fattori utilitaristi, è subordinato e regolato, per Mauss, da questi tre principi morali. Tutti i prodotti immessi nel sistema della circolazione divengono, per tale motivo, semplici doni, capaci di convogliare, nel loro svolgersi, complesse trame di relazioni sociali. Per il sociologo francese, infatti, nell'oggetto scambiato rimaneva presente l'essenza stessa del proprietario, oggettivata dai gruppi Maori, ad esempio, come un potere vago (Hau), in grado di ritorcersi contro coloro i quali contravvenivano alle regole imposte dalla collettività. Per tali proprietà, il fenomeno dello scambio, alla cui base vigevano le tre regole del dare, ricevere e ricambiare, fu inteso da Mauss come un fatto sociale totale, in virtù della complessa rete di rapporti che sottintendeva. Le opere che Mauss scrisse nella sua fase matura riguardarono importanti teorie sul fenomeno dell'inculturazione; in esse il sociologo francese tentò di dimostrare come anche le diverse tecniche del corpo, il camminare, il parlare, il dormire, fossero da intendere come "cose" da studiare a livello empirico, riconoscendogli il carattere di fenomeni sociali. Il processo di inculturazione avrebbe, infatti, determinato nell'individuo quell'insieme di regole sociali riguardanti il modo di utilizzare il corpo, trasformando movimenti essenzialmente meccanici in movimenti ed atteggiamenti "sociali".
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