Un americano a Baghdad
Un americano a Baghdad
(passando per Teheran)
Sono un cronista agricolo. Nella
primavera del 1980 fui invitato a visitare l’agricoltura americana, e iniziai
la mia visita da Washington, dove partecipai, nella prima settimana di maggio,
ad una conferenza stampa del segretario di Stato
all’agricoltura del governo Carter, Bob Bergland, e potei intervistare i suoi
due collaboratori più diretti, i sottosegretari Starky e Webster, oltre ad una
serie di responsabili delle organizzazioni professionali dell’agricoltura.
Erano tempi crudi per la prima
potenza agraria del Globo, che produceva troppo mais e troppa soia rispetto
alle esigenze degli acquirenti, ma erano tempi crudeli anche per la politica
estera americana: il ricordo del Vietnam era tragicamente incombente, la
nazione si sentiva ancora sconfitta, i mullah di Teheran tenevano in ostaggio
il personale dell’ambasciata, e una missione militare per liberarli si era
risolta in una catastrofe.
Tra un’intervista e un incontro di
lavoro, un pomeriggio, sul Mall, il grande parco che
unisce il Campidoglio alla serie di ministeri che si susseguono fino alla casa
Bianca, ebbi l’occasione di assistere al raduno di un milione di americani,
giunti dagli stati più lontani della Confederazione, in torpedoni, treni e
aerei, per pregare insieme l’Onnipotente che proteggesse la Patria sconfitta.
Era un popolo immenso, commosso,
commovente, devoto e vitale insieme, un popolo che ispirava sentimenti di pace,
di fratellanza, di rispetto. Scattai un rotolo di fotografie, che mi sono
tornate tra le mani in questi giorni, riordinando il mio archivio, producendo
in me un effetto straordinario mentre siamo sommersi dalle immagini dei carri
armati Usa vittoriosi, che impongono al mondo il
timore della sola potenza che il mondo dichiara, occupando Baghdad, di voler
dominare, l’America di Gorge W. Bush.
Gorge Bush junior non combattè in
Vietnam, fece finta di fare il soldato restando, come gli permetteva il reddito
del padre, comodamente a casa, né si occupava, allora di politica: pare lo
interessassero, allora, solo le donne ed il wisky, che gli risparmiarono la
sensazione frustrante della sconfitta. E quando un milione di
americani sciamò a Washington a piangere e pregare per l’umiliazione di
Teheran era troppo occupato, in Texas, a diventare importante, con gli affari
finanziari e quelli politici. Della sconfitta della Nazione non ebbe,
probabilmente, alcun sentore.
Giunto a Washington con la corona di
presidente è erede del Vietnam senza sapere cosa sia successo
all’America in Vietnam, è successore di Carter senza sapere che Carter fu
umiliato da cento ayatollah. Si è convinto che l’affronto delle due torri debba
essere fatto pagare a tutto l’Islam, e tutto l’Islam, col suo miliardo di uomini, ha deciso di umiliare. Dimostrando la potenza del
primo impero globale della storia.
I saggi greci insegnavano a fuggire
un peccato come il più temibile tra tutti, quello della tracotanza. Chi detenesse ricchezza e potere doveva evitare di offendere,
con la propria irosa presunzione , il Cielo, perché il Cielo non permette
all’uomo la tracotanza, che attende il momento di punire, e punisce, dissoltisi
i pretesti della presunzione, con speciale severità, con severità crudele.
Confermando il convincimento greco, la Bibbia ribadisce
che Dio deriderà chi ha respinto la voce della coscienza, che suggerisce
moderazione e ragionevolezza.
Gorge Bush junior sfida
il Pianeta, sfidando il Pianeta sfida il Cielo:
il Pianeta
oggi non è in grado di umiliarne l’arroganza, il Cielo non ha l’urgenza di
reprimere oggi l’offesa che può attendere, secondo computi che sfuggono alla
ragione umana, di punire domani. Riflettendo su un vecchio rotolo di fotografie
ritrovo la conferma che i tempi della storia seguono una logica che ha sempre
smentito la presunzione degli arbitri degli imperi.
Antonio Saltini