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Accademia dei Lincei riminesi

TRA ERUDIZIONE E NUOVA SCIENZA
I LINCEI RIMINESI DI GIOVANNI BIANCHI (1745)


Versione definitiva aggiornata, 19.05.2004
ALLE NOTE DI QUESTO TESTO.

1. All’origine dell’Accademia planchiana

L’Accademia dei Lincei di Federico Cesi, attiva tra 1603 e 1630, rinasce a Rimini nel 1745 per iniziativa del medico, scienziato e poligrafo Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), già allora ben noto negli ambienti colti italiani anche grazie all’autobiografia latina pubblicata tre anni prima, come opera di «autore anonimo», nei Memorabi-lia Italorum eruditione praestan-tium curati da Giovanni Lami a Firenze 1. Bianchi da poco era rientrato in patria da Siena, dove aveva insegnato Anatomia umana presso quell’Università, dalla quale era stato chiamato il 24 luglio 1741: «senza alcun suo maneggio», preciserà più tardi per sottolineare come la scelta fosse stata dovuta soltanto a chiara fama 2. Egli si era laureato presso la Facoltà di Medicina e Filosofia dell’ateneo bolognese il 7 luglio 1719, seguendo un veloce cursus studiorum iniziato soltanto nel novembre 1717, dopo una giovinezza tormentata da problemi economici conseguenti alla prematura scomparsa del padre, avvenuta quando Planco aveva soltanto otto anni; e dopo una carriera scolastica alquanto irregolare e prevalentemente da autodidatta 3. A Bologna avviene, sempre nel 1719, il suo duplice debutto pubblico: il 27 settembre, «in occasione di una straordinaria, e frettolosa raggunanza fatta per compiacere alcuni canonici forestieri» 4; ed il 19 ottobre, con un’orazione tenuta per l’inaugurazione dell’anno accademico 5. Bianchi non era nuovo ad esperienze culturali di questa specie: già nel 1715 aveva cominciato a viverle nell’Accademia «di scienze, e d’erudizione» 6, voluta dal vescovo di Rimini, Giovanni Antonio Davìa 7, un bolognese che era stato allievo di Marcello Malpighi e di Geminiano Montanari. In essa, Planco aveva recitato quattro dissertazioni sulle Odi di Pindaro 8, oltre a compendiare quelle altrui in qualità di segretario del consesso 9.
La chiamata alla cattedra senese significò per Bianchi non soltanto soddisfare la sua ambizione, ma anche affrontare un’esperienza resa difficile dalle polemiche che egli suscitò nell’ambiente accademico sia con le accuse di ignoranza indirizzate ai colleghi universitari 10, sia con le vanterie contenute nell’autobiografia latina. L’ostilità e la diffidenza che nacquero attorno alla sua persona, lo convinsero a ritornare 11 nella natìa Rimini alla fine del novembre 1744, dopo aver pubblicato a Firenze il Fitobasano di Fabio Colonna 12, a cui premise la Notitia sull’Accademia dei Lincei (sua prima storia a stampa), della quale Colonna aveva fatto parte 13. Bianchi motiva il suo rientro in patria con l’accettazione di una duplice offerta fattagli dalla comunità di Rimini: la concessione della «cittadinanza nobile, e lo stipendio di scudi 200 annui per la sola permanenza» 14. In realtà, allo stipendio doveva corrispondere un preciso impegno di lavoro con l’incarico di «medico primario condotto della città» 15.
Per quanto ben remunerata ed illustrata con le lusinghe di un titolo nobiliare (oltremodo gradito alla sua vanità), la carica assunta da Planco era di nessun valore rispetto al prestigio derivantegli da una cattedra universitaria: la situazione dovette turbarlo parecchio, e spingerlo a ricercare una rivalsa psicologica ed intellettuale, con lo scopo di poter continuare a primeggiare e di non farsi dimenticare da colleghi ed avversari, due categorie destinate spesso a coincidere ed a fondersi in una sola, e non sempre per colpa sua. Lo strumento con cui realizzare questo scopo, Bianchi lo individua nel rimettere «in piedi l’antica accademia filosofica, ed erudita de’ Lincei, avedoci rifatte le leggi, ed avendoci aggregate non solamente le persone più dotte della città di Rimino, ma di altri paesi ancora» 16. Planco non rinuncia però, negli anni successivi, all’idea di tornare ad occupare una cattedra di Anatomia, come si ricava da una lettera di Giovanni Bottari 17 a lui diretta.


2. Il progetto culturale di Bianchi

La rifondazione dell’Accademia di Cesi, dai documenti esistenti nella biblioteca civica Gambalunghiana di Rimini 18, risulta come momento iniziale di un progetto di più ampio respiro che avrebbe dovuto articolarsi anche nell’impianto di una stamperia con iniziative editoriali sotto l’insegna della «Lince» 19. Alla base di questo progetto «geniale, quanto poi sfortunato», probabilmente non c’è soltanto la necessità di avere a disposizione strumenti mancanti in una città di provincia come Rimini, sprovvista ad esempio di «librai che rileghino, o che acconcino libri» 20, ma anche il desiderio di imitare, se non superare, i risultati di altre imprese culturali, quali le fiorentine «Novelle letterarie» 21 di Giovanni Lami 22, l’editore della sua autobiografia latina. Pure il concittadino Giuseppe Malatesta Garuffi poteva rappresentare per Bianchi un modello da emulare 23. Garuffi fu sacerdote e direttore della Gamba-lunghiana dal 1678 al 1694. Tra l’altro, Garuffi compilò una storia delle accademie italiane, L’Italia Accademica (il cui primo ed unico volume a stampa 24, non piacque a Ludovico Antonio Muratori), ed a Forlì nel 1705 animò il «Genio de’ letterati»25. Garuffi aveva avviato un ampio programma 26, sotto il titolo di Bibbioteca Manuale degli Eruditi 27, con accademia e stamperia, a cui sembra rimandare quello analogo di Bianchi. Di Garuffi, Planco avrebbe voluto scrivere una biografia per i Memorabilia di Lami 28.
Bianchi, per il fallimento del suo tentativo avrebbe potuto accusare, come già aveva fatto nel 1735 a proposito della gestione della civica biblioteca di Rimini, l’insensibilità dei pubblici amministratori che «non curano libri e librerie perché sono tutti ignoranti e vigliacchi» 29. Ma la municipalità allora era troppo occupata a gestire una complessa situazione economica, causata da continue emergenze militari, carestie e necessità collettive 30, per poter pensare al finanziamento di iniziative editoriali private, per quanto importanti esse fossero.
Accanto al quadro locale, va considerato altresì quello generale dello Stato della Chiesa che, ovviamente, si ripercuote in ambito cittadino e sulla vicenda personale di Planco, come dimostra la rapida ed «improvvisa» (così la chiama Giuseppe Garampi), condanna all’Indice emessa il 4 luglio 1752 contro la sua dissertazione accademica sull’Arte comica. Anzitutto dobbiamo ricordare che, nei confronti dello stesso nome dei Lincei, c’è una posizione pregiudiziale di ostilità, storicamente radicata e motivata, da parte della Chiesa, come emerge dalla parole di Maylender:

La Congregazione dell’Indice era stata anche troppo indulgente verso la scientifica assemblea. Il Duca d’Acquasparta, nipote del Cardinale Bartolomeo Cesi, aveva intime relazioni ed amicizie cogli uomini i più influenti della Corte pontificia. Certi riguardi bisognava perciò usare di fronte a sì illustre e considerato personaggio. Ma alla sua morte [di Federico Cesi, 2 agosto 1630, n.d.r.] il Sant’Uffizio si sarà probabilmente adoperato affine l’Accademia non si risvegliasse 31.

Per risultare gradita ‘alli superiori’, inoltre, l’iniziativa di Bianchi aveva caratteri troppo avanzati, sotto molti profili, rispetto a quelli della cultura ufficiale romana, che era in prevalenza improntata all’«erudizione storica ed antiquaria» 32, ed era condizionata da un ferreo rispetto dell’ortodossia, e quindi si dimostrava del tutto diffidente verso i nuovi orientamenti scientifici (dei quali Planco è un sostenitore) e, soprattutto, verso la nuova Filosofia. Locke, ad esempio, è messo all’Indice il 19 giugno 1734. Già nel 1722 a Rimini il vescovo Davìa nella propria diocesi aveva avversato la diffusione del pensiero di Locke. In tempi successivi egli avrebbe presieduto la Congregazione dell’Indice 33 svolgendo un ruolo fondamentale nella condanna del 1734 di quest’autore che dodici anni prima egli aveva considerato «cento volte più pericoloso del Machiavelli» 34. Ciononostante Planco riconosce al vescovo Davìa di aver di aver introdotto da noi «puriorem philosophiam», cioè quell’«ottima filo-sofia» che Davìa aveva studiato a Bologna, e che egli fece insegnare a Rimini. Per questo fatto Bianchi attribuisce a Davìa il merito di aver tolto Rimini «dalla barbarie, nella quale ci avevano tenuto quei che prima della sua venuta qui d’amaestrare la gioventù professarono» 35.
Secondo Planco, Davìa è uno spirito innovatore per aver chiamato ad insegnare nel seminario riminese alcuni «valenti professori» 36, tra i quali ricorda due medici, Felice Palese («morto primario professore del Collegio Borbonico di Palermo» nel 1740) e monsignor Antonio Leprotti 37, divenuto in seguito archiatro pontifico. Leprotti aveva convinto il giovane Bianchi ad intraprendere il corso studi nel quale si laureò 38. L’attenzione dimostrata dal vescovo Davìa verso la Medicina, è un fatto significativo nel contesto ecclesiastico del tempo, rispetto al divieto di esercitarla, imposto dal Diritto canonico a tutte «le Persone consagrate all’amministrazione de’ Sagri Misteri» 39, e rispetto alla opinione che stava alla base dello stesso divieto, e che è bene illustrata da un anonimo scritto riminese 40 in cui, della professione sanitaria, si dà un’immagine degradata al punto da chiamarla «arte di toccagione della persona», la quale oltretutto obbliga a visitare il cesso degli infermi «per riconoscere gli escrementi», ed a fare «crestieri a uomini, donne e fanciulle», per cui non poteva essere svolta dal clero senza profanare «la santità del ministero» e prostituire «il regal Sacerdozio».
L’ostilità della gerarchia ecclesiastica verso il nuovo pensiero è ricordata da Planco nell’autobiografia latina (pp. 354-355), quando scrive che ad un padre dei Minimi riminesi, Giovanni Bernardo Calabro, fu imposto dal suo generale di rientrare «nell’accampamento dei Peripatetici». Le «ciarlatanerie dei Peripatetici», scrive Aurelio De’ Giorgi Bertòla nell’Elogio di Don Giacinto Martinelli (1781), «non avevano migliore asilo (la verità è dura, ma pur troppo incontrastabile) che la più parte delle case religiose d’Italia» (p. 7). E padre Martinelli, «appena andava egli penetrando nei profondi ripostigli della buona Filosofia» (p. 9), fu «indietro richiamato»: siamo attorno al 1740, cioè vicinissimi al tempo in cui prende forma il progetto planchiano dei Lincei riminesi.
Davanti allo scontro tra l’aristotelismo interpretato in una chiave esclusivamente dogmatica, e la ventata rivoluzionaria portata dalla rilettura di Epicuro attraverso Gassendi, Planco sposa la causa delle innovazioni introdotte dalla fisica di quest’ultimo 41, assumendo una posizione eretica, della quale non dovettero successivamente dimenticarsi i suoi avversari in campo ecclesiastico. Ma l’opposizione tra la cultura peripatetica e la nuova Scienza torna pure, in maniera diretta ed in forma non risolta, anzi con tutto il senso di un’insanabile contraddizione, proprio nelle leggi lincee elaborate da Bianchi e contenute nel Codex accademico 42, laddove si sostiene che «niente è migliore e più utile che diligentemente indagare su quanto, per un dato argomento, hanno espresso i dottissimi filosofi e gli uomini eruditissimi: tuttavia, ai loro pareri, e l’investigazione della stessa natura, e le proprie osservazioni, e il confronto su tutte le cose, e l’uso di discutere singolarmente su quella parte che sia più vera, aggiungano anche il [nostro] giudizio». Dunque: prima vengono i pareri dei «dottissimi filosofi», poi «l’investigazione della stessa natura». Si accantona così, nella maniera più semplice ed evidente, il metodo della «sensata esperienza», originando un’altra divergenza totale, tra la pratica scientifica ed un modus operandi intellettuale il quale nega i presupposti della stessa pratica scientifica. Il sapere di cui si parla nelle leggi accademiche è più tolemaico che copernicano; più incatenato all’ipse dixit del moderno aristotelismo, che aperto ai temi pre-illuministici.
Per Planco ciò significa conflitto tra la sua funzione di scienziato (che, in quanto tale, deve attribuire all’osservazione diretta un primato assoluto), e quella di reggitore di un’accademia la quale, come detta la sua prima legge, dev’essere «aristocratica» 43. Dietro questa enunciazione c’è un particolare modo di intendere la cultura come riservato dominio dell’uomo dotto, il quale gode del privilegio di sentenziare soltanto grazie al suo ruolo di maestro, ed indipendentemente dalla validità scientifica dei risultati a cui perviene, intesa quest’ultima secondo i canoni galileiani 44. A tali canoni si richiamò Aurelio De’ Giorgi Bertòla quando, scrivendo un polemico necrologio per Planco 45, sottolineò che questi era stato «osservatore giudizioso della Natura, ma poco amico di quella massima legge: Niun esperimento dee farsi una sol volta». Bertòla, accusato 46 di essere caduto, scrivendo quelle parole, in una «contraddizione chiara, e madornale ma compatibile in un Giovane Scrittore» ed in «un Poeta pasciuto di notturni sogni» 47, fu difeso da chi 48 rincarò la dose contro lo scienziato riminese:

In fatti Giano fu Filosofo, ed osservò con giudizio la Natura, ma poi all’incontro, non poté mai soggettare il suo fervido ingegno a ripetere più, e più volte gli esperimenti, poiché egli amava per carattere la varietà, quindi ne nacque, che quelle cose, che potevano osservarsi con sollecitudine erano dal Signor Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non era questo lavoro per lui, e ne abbandonava l’impresa, o se pure voleva seguirla il facea con lentezza, ed il più delle volte con infelice successo.

Bertòla non era stato educato alla scuola di Planco, ma da un allievo del medico riminese, quel Francesco Maria Pasini che nel 1745 è accademico dei rinnovati Lincei e poi vescovo di Todi 49.
Nella carriera del medico Bianchi c’è un episodio che rivela una contaminazione con la sua condotta da rifondatore dei Lincei, e che vede la sua attività scientifica soggiacere all’atteggiamento culturale del «dotto». L’episodio riguarda la polemica sull’innesto del vaiolo, in cui Planco interviene nel 1759 con parere negativo, a fianco di un altro medico, il conte Francesco Roncalli Parolino 50, il quale fu accademico dei Lincei riminesi. Al proposito, sul Caffè Pietro Verri ebbe ad osservare che «al fondamento delle opposizioni del signor dottor Bianchi è questo ch’ei chiama effatum philosophicum, cioè che quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur» 51. L’«enunciato filosofico» di cui parla Planco, trasferisce nel campo medico una concezione già di per sé opinabile in quello gnoseologico; e rimanda a teorie messe in ombra dalle nuove idee del sensismo alla Condillac, con le quali si rovescia l’impostazione presente in Planco, sostenendo che «l’uomo è soltanto ciò che ha acquisito», e non che le cose sono ciò che l’uomo conosce di esse 52.
Per un fenomeno riguardante la Medicina, Bianchi usa un tipo d’indagine che su di essa non può operare perché non ricorre alla metodologia idonea alla materia sulla quale interviene. Questo errore epistemologico ci è confermato da una sua lettera indirizzata a Giovanni Lami 53, dove egli inserisce «la quistione dell’innoculazione» tra le «cose letterarie» da discutere, magari nel «miglior latino», con il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli [...] e tutte le altre ragioni sofistiche de’ fautori dell’innoculazione, giacché tutti costoro non sono filosofi e meno medici, ma sono sfaccendati [...]». Planco tuttavia (e lo apprendiamo dal suo grande allievo Giovanni Cristofano Amaduzzi), cede «in appresso all’evidenza del buon esito» dell’innesto del vaiolo, «con quel candore, e coraggio, che suole ispirare l’amore della verità nei cuori degli uomini grandi» 54. L’errore epistemologico di Bianchi, d’altro canto, rispecchia l’esperienza culturale del primo Settecento quando, ad esempio, nella studiatissima fisica cartesiana, il ragionamento matematico ha «una funzione prevalentemente retorica» 55; e quando si considera tutta l’esperienza scientifica soltanto sub specie philosophiae, andando alla ricerca di un principio unificante dell’attività conoscitiva 56, senza distinguere tra i singoli territori (e strumenti) di Scienza e Filosofia, come invece faranno gli «enciclopedisti», rivolti a sistemare 57 le conoscenze differenziandole tra loro, pur conservando un presupposto d’identità di «Filosofia o Scienza», ma con la volontà di sostituire il secondo termine al primo, per cui essi parlano di «Scienza di Dio, dell’uomo e della natura», a sua volta distinta, quest’ultima, in Fisica e Matematica. Dalla tripartizione dipendono a grappolo tutte le altre materie. Così, ad esempio, nel «sistema figurato delle conoscenze umane», dalla Fisica particolare deriva la Zoologia dalla quale ‘scendono’ poi l’Anatomia e la Medicina 58.
Grazie a Locke l’«Europa éclairée» conosce quella che Sergio Moravia chiama la «liberalizzazione epistemologica», la quale approda a molteplici opzioni metodologiche grazie alla lezione dell’empirismo, che sostituisce «tutta una serie di categorie o di strumenti di indagine con altri strumenti e categorie» 59.


3. Filosofia, Anatomia e Medicina

Poche volte Bianchi usa il termine «Scienze», preferendogli di gran lunga quello di «Filosofia», accompagnato dagli attributi di «sperimentale» e «naturale». Egli considera l’Anatomia «come il fondamento della Filosofia naturale, siccome lo è per certo della Medicina e della Cirurgia», secondo quanto leggiamo in un prologo accademico 60 del 1751, in cui spiega di aver «restituito» i Lincei con lo scopo di «promuovere l’accrescimento dello studio della Scienza e delle belle Arti, non escludendo le cose ancora di sola Erudizione», appartenenti alle Letteratura greca e latina. Nel pensiero planchiano, la Filosofia è qualcosa di diverso da ciò che dovrebbe essere (un’indagine che trovi in sé stessa gli strumenti con cui operare, e gli orizzonti entro cui muoversi). Per Bianchi, la Filosofia, anziché ancilla della Teologia, lo è delle Scienze mediche e naturali. E’ il procedimento opposto a quello delineato dagli Enciclopedisti, per i quali in principio c’è la Ragione, da cui derivano «Filosofia o Scienza». In altro prologo accademico 61 dello stesso 1751, troviamo scritto che la «Filosofia sperimentale» ed «altre cose di fatto» sono «il fondamento della vera Medicina Prattica, la quale in queste cose di fatto consiste principalmente» 62.
Quindi, la «Filosofia naturale» fondata sull’Anatomia assume i contorni della Scienza. Ma pure la stessa «Filosofia sperimentale» (intesa come «fondamento della vera Medicina Prattica»), ha tutti i caratteri per identificarsi degnamente con la Scienza. Tra queste affermazioni di Planco si crea non un circuito logico, ma una concatenazione retorica in cui si perdono di vista i collegamenti razionali tra le discipline, e li si sostituisce con un erudito gioco linguistico, che, mutando gli aggettivi, crede di poter determinare diversi campi gnoseologici e differenti criteri epistemologici. Alla fine, la «Filosofia naturale» e quella «sperimentale» si presentano come due realtà differenti, con altrettante diverse funzioni, mentre il loro significato teorico è lo stesso, in base al dato di fatto che la Scienza nuova è, allo stesso tempo, Natura ed esperimento. Ciò che Galileo ha unito, Bianchi divide.
Sul medico riminese, nella sua maturità, agiscono i ricordi delle esperienze giovanili, documentabili attraverso due pagine autobiografiche in cui Planco parla dell’attività presso l’Accademia vescovile del cardinale Davìa, e dove usa come intercambiabili i termini di erudizione e di Filosofia, all’interno dello stesso contesto e della medesima definizione 63. Bianchi non avverte minimamente che la «Filosofia sperimentale», in virtù della propria forza innovativa ed «in aperta contrapposizione con l’esprit de géometrie», vede nascere le grandi discipline di quella che sarebbe stata la seconda rivoluzione scientifica 64. E che essa approda «ad un volto e un assetto diverso all’intera enciclopedia delle scienze» 65. Per riassumere la questione con una formula, di per sé approssimativa, possiamo dire che Planco appare come un «galileiano a metà» non soltanto per i motivi fin qui esposti, ma anche perché egli, se fu un assiduo lettore di testi filosofici, mai approfondì i problemi teorici con una necessaria analisi completa ed accurata 66. Per questo motivo, Amaduzzi, nel de-scrivere l’attività intellettuale di Bianchi, fece un’osservazione pun-gente: «Mancò di un certo criterio, per il che fu sog-getto talvolta a qual-che paralogismo», cioè a sillogismi falsi con ap-parenza di verità 67.
Nel pensiero di Bianchi il primato che egli attribuisce alla Filosofia, come si è già detto, riflette indubbiamente lo spirito del suo tempo, che passa attraverso una complessa trasformazione, e che è ben rappresentato da una pagina di Garuffi, il quale naviga tra vecchio e nuovo, con derivazioni dalla linea Epicuro-Gassendi, dalla Filosofia sperimentale ma pure da quella aristotelico-scolastica (inevitabile in un sacerdote), quando scrive che la Filosofia è «una Scienza che s’appoggia a’ sensi, che prova con ragioni, che investiga le cause delle cose, e i loro principj; che insegna la natura degl’elementi, e la loro unione, e discordia, per cui ne nasce l’origine de’ misti», aggiungendo subito dopo che la Filosofia sperimentale «è quella, in cui il nostro secolo ad occhi aperti si esercita dopo d’essersi per l’addietro lungamente perduto ad occhi chiusi in quelle vane, e inutili Questioni, che noi qui arrecheremo, conforme abbiam detto, per iscopo di risa de’ moderni Filosofi» 68.


4. Per una cultura «aristocratica»

L’atteggiamento di Bianchi, che abbiamo fin qui esaminato, richiama un passo del celebre Discours preliminaire dell’Encyclopédie di d’Alembert: «Non c’è dotto che non ponga volentieri al centro di tutte le scienze quella della quale egli stesso si occupa, press’a poco come i primi uomini si ponevano al centro del mondo, convinti che l’universo fosse fatto per loro» 69. Su questa linea si situa la prima legge lincea che, attribuendo all’Accademia planchiana la qualifica di «aristocratica», corrisponde al «carattere esclusivista» del rifondatore ed alla «tendenza, del resto già evidente nella scelta dei “suoi” Lincei e nelle vicende del sodalizio, a contenere nella sua cerchia illustre, ma assai ristretta» 70 ogni collaborazione. L’intrinseca suggestione della figura del dotto ha stretta correlazione, in Planco, con questa sua psicologia «esclusivista». In tale contesto, il termine «aristocratico» finisce per essere tout court sinonimo di «dogmatico», riducendo l’orizzonte scientifico a quello personale del rifondatore.
Un’inedita ed incompleta carta planchiana, intitolata Discorso sopra il problema dell’Accademia 71, pone il quesito «Se un giovane desideroso della virtù in mancanza di maestro debba, o non debba intraprendere da sé qualche letterario esercizio». Bianchi espone soltanto la «parte negativa» della risposta, lasciandoci con la sospensione di un «ma» che potrebbe indicare, oltre al desiderio di trovare argomentazioni per il lato positivo, pure le difficoltà incontrate nel giustificarle. E ciò porterebbe ad un forte contrasto rispetto all’esaltazione che Planco fa, nell’autobiografia latina, della propria esperienza giovanile di autodidatta, ribellatosi all’insegnamento retorico ed antiquato impartito nel collegio dei Loyoliti frequentato a Rimini 72. La necessità di un «maestro» proclamata da Bianchi in questi fogli, ci rimanda alla lunga esperienza di docente da lui svolta nella sua scuola privata riminese, iniziata nel 1720 e ripresa dopo il soggiorno senese: egli vi teneva corsi di Filosofia, Medicina 73, Geometria e Lingua greca. Una scuola che Giovanni Paolo Giovenardi definisce «pubblica Università» 74. Ad essa si affiancava «un Museo non meno di cose naturali, che di Medaglie, d’Idoli, d’Iscrizioni, e d’altre cose antiche copioso» 75.
Nel 1751, anno in cui è proposto ma non nominato 76 «Lettore pubblico di Logica», Planco conta più di venticinque scolari fra cui ci sono «alcuni cospicui di ordine religioso, ed altri forestieri delle circonvicine città, che sono venuti a studiare sotto di lui» 77. Anche a Siena Bianchi aveva realizzato un’iniziativa simile 78, seguito addirittura da un allievo riminese, il già ricordato Francesco Maria Pasini.


5. Gli Accademici lincei

Il nucleo originario dei Lincei comprende dieci componenti, come ricaviamo da un articolo apparso sul periodico di Giovanni Lami79. Oltre a Planco, «Restitutor perpetuus», ci sono: Stefano Galli, «Scriba perpetuus»; Francesco Maria Pasini, «Censor»; Giovanni Paolo Giovenardi, anch’egli «Censor»; Mattia Giovenardi, Giovanni Antonio Battarra, il conte Giuseppe Garampi, Gregorio Barbette, Lorenzo Antonio Santini e Giovanni Maria Cella.
Nello stesso articolo delle «Novelle letterarie», sono contenute brevi notizie biografiche dei componenti il nucleo originario. Di Planco, si scrive che è patrizio riminese, dottore di Filosofia e Medicina, e medico primario della città di Rimini. Di Stefano Galli, che è «probibliothecarius publicus» 80. Di Francesco Maria Pasini, che è dottore di Legge e canonico della cattedrale riminese. Di Giovanni Paolo Giovenardi, che è dottore di Filosofia, materia della quale è stato nominato pubblico professore a Santarcangelo 81. Di Mattia Giovenardi, che è professore di Lettere umane al seminario di Bertinoro 82. Per Giovanni Antonio Battarra, si precisa la qualifica di «Publicus Philosophiae Exprofessor» a Savignano 83. Per il conte Giuseppe Garampi, destinato a diventare un protagonista della cultura e della politica del suo tempo ricoprendo prestigiosi incarichi, nulla si aggiunge alla notizia che egli era «Patricius Ariminensis». Forse Bianchi intravedeva in lui la capacità di conquistare una fama destinata ad oscurare quella del maestro, e quasi colpito da una specie di precoce gelosia od invidia (absit iniuria verbis), non elencava altre qualità o qualifiche dell’allievo, nell’articolo trasmesso a Lami 84. Nato nel 1725, Garampi a sedici anni era stato già «vicecustode» della biblioteca Gambalunghiana 85, prima di girare l’Italia per conoscere biblioteche e letterati 86, in un tirocinio intellettuale che si aggiungeva alle esperienze fatte alla ‘corte’ pedagogica di Planco.
Sono qualificati medici Gregorio Barbette e Lorenzo Antonio Santini 87: entrambi esercitano la professione a Rimini, il primo come chirurgo primario 88, il secondo quale «Medico dei Poveri». Per Giovanni Maria Cella si scrive soltanto che era riminese. Da altro scritto planchiano apprendiamo trattarsi di un matematico 89. A questo nucleo originario di dieci componenti, in seguito si aggiungono altri undici accademici, che elenchiamo per ora in ordine alfabetico: Lucantonio Cenni, Lodovico Coltellini, Giovanni Lami, Daniele Colonna, Giacomo Fornari, Giuliano Genghini, Francesco Fabbri, Luigi Masi, Francesco Roncalli Parolino, Gaspare Adeodato Zamponi e Giuseppe Zinanni. Sul totale dei ventuno accademici che presentiamo qui, se ne conoscevano finora soltanto venti: quello cui non era mai stato finora fatto il nome, è il ravennate Giuseppe Zinanni (o Ginanni), autore di un volume intitolato Delle uova e dei nidi degli uccelli 90. Circa le date di nomina degli undici accademici aggiunti al primo elenco, se ne possono precisare soltanto nove. Nel 1750 sono ammessi Lucantonio Cenni 91, Lodovico Coltellini, Giovanni Lami e Daniele Colonna. L’anno successivo, Giacomo Fornari, Giuliano Genghini, Francesco Fabbri, Gaspare Deodato Zamponi. Nel 1765, Luigi Masi 92. Non sappiamo nulla circa Francesco Roncalli Parolino, per cui esiste la minuta del diploma (ms. 1183, cit.). Per Giuseppe Zinanni, l’unica testimonianza rintracciata è nella sua lettera a Bianchi del 22 marzo 1746 (FGLB, ad vocem), dove parla dell’offerta ricevuta da Planco di aggregazione «a così universo Congresso».
Sono ex allievi di Bianchi, Lucantonio Cenni, il medico friulano Daniele Colonna, i sacerdoti Francesco Fabbri 93 e Giacomo Fornari 94, ed il giurista Giuliano Genghini, un poeta dal «carattere faceto e irriverente» 95. Daniele Colonna è definito da Bianchi come «adiutor noster in re anatomica» 96. L’avvocato cortonese Lodovico Coltellini (1720-1810) è un dotto e polemico corrispondente di Planco 97. Giovanni Lami (1697-1770) 98 è figura celebre nella storia della cultura italiana: fu bibliotecario, teologo e professore di Storia ecclesiastica oltre che fondatore e direttore (dal 1740 sino alla morte, avvenuta nel 1770), delle mentovate «Novelle letterarie». La motivazione con cui fu accolto Lami, lo cita come benemerito per aver pubblicato le Leggi dei Lincei riminesi e due scritti planchiani sulla vexata quaestio del Rubicone 99. Complessivamente, sette sono i medici: Bianchi, Barbette, Colonna, Masi, Roncalli, Santini, Zamponi; tre gli scienziati: Battarra 100, Cella, Zinanni 101; tre i giuristi: Coltellini, Genghini e Pasini, quest’ultimo avviatosi poi a carriera ecclesiastica; due i sacerdoti, Fabbri e Fornari; e sei i letterati o filosofi: Cenni, Galli, Garampi, i due Giovenardi e Lami.


6. Le dissertazioni accademiche

Non esiste un elenco completo ed ufficiale delle dissertazioni tenute nei Lincei riminesi. Le notizie che seguono hanno origine da diverse fonti che indicheremo di volta in volta 102. Le adunanze lincee si tenevano di venerdì. L’inaugurazione dell’Accademia avviene il 19 novembre 1745 (Codex, c. 2r).
Dissertazione n. 1, del 26 novembre 1745, di Giovanni Antonio Battarra, De praestantia Scientiae Botanicae, et de natura et viribus plantarum. Di essa esiste il testo ms. integrale, da noi ritrovato fra le preziose carte gambalunghiane in Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Battarra, G. A., I (n. 177), doc. 27.
Dissertazione n. 2, del 3 dicembre 1745, dell’abate Stefano Galli, «sopra l’utilità della lingua greca» 103.
Dissertazione n. 3, del 27 maggio 1746, dell’abate Giuseppe Garampi, Delle Armi gentilizie delle famiglie 104.
Dissertazione n. 4, del giugno 1746, di Planco, De Vescicatorj 105. Il tema trattato esce dall’Accademia e gira fra la gente, per merito del suo allievo Giovanni Paolo Giovenardi 106, appena ne appare un estratto sulle «Novelle» fiorentine 107. Così Giovenardi scrive a Bianchi da Santarcangelo, dove (come si è visto) insegna Filosofia:

Io non ò mancato di leggere nella Scuola, et anche in questo nostro Caffè tutto quello che intorno a ciò nella suddetta novella si riferisce, e di sostenere alla meglio che ò potuto, quel tanto, che in quella sta scritto intorno a Vescicatori. L’ò letta ancora nel caffè, dove concorre ogni sorte di Persone. Giacché ogni sorta di persone è soggetta a poter essere martoriata da certi Medici, o siano Fanfaroni della Marca collo strano, e crudele rimedio de’ Vescicatorj, e perciò quivi ancora ò stimato bene di diffondere que’ Lumi, che in quella sono sparsi a comune vantaggio di tutta la Società, acciocche se per avventura non si volessero astenere i Fanfaroni dal farne uso, imparino almeno i Malati o gli Assistenti a rifiutarli.

Dopo questa dissertazione, il matematico modenese Domenico Vandelli scrive a Bianchi definendolo autore di «imposture e maldicenze» e di «moltissime infedeltà», per cui lo considera «nel numero de’ letterati superficiali, e fra Montambanchi di mala natura, che mordono ad ogni capo» 108.
Dissertazione n. 5. dell’anno 1746 o 1747, di Giuseppe Zinanni. L’argomento è una «diligente osservazione sopra le uova, e sopra la generazione delle Lumache terrestri, ed altre chiocciole fluviali, o d’acqua dolce» 109.
Segue una pausa nell’attività accademica che riprende soltanto nel 1749: da questo momento sino al 1755, essa viene registrata da Bianchi nel Codex, dove troviamo elencate ventisette dissertazioni 110. Le indichiamo nella loro successione cronologica.
Dissertazione n. 6, del 28 febbraio 1749, di Planco: epistola De monstris ac monstrosis quibusdam, poi pubblicata a Venezia in due edizioni, nello stesso anno 111. Essa è indirizzata a monsignor Giuseppe Pozzi, di Bologna, archiatro pontificio straordinario e presidente dell’«Accademia dell’Istituto delle Scienze» di quella città 112. Questo studio, al di là degli aspetti più o meno teoricamente validi ancor oggi sotto il profilo scientifico 113, merita considerazione per una questione che sta alla base della problematica trattata da Bianchi, cioè il concetto di Natura così come emerge attraverso il sistema della classificazione scientifica da lui usato. Planco osserva che i mostri si possono dividere in tre specie: quelli che «in Utero Animantium oriuntur ictu vel casu quodam alio»; quelli che derivano «ex conformatione naturali, sive ex plastica quadam vi naturae, sive a natura ipsa ludente» 114; infine quelli che nascono «ex morbo in Animantibus». Bianchi dà per scontato che la perfezione naturale, presupposta dai filosofi scolastici, sia smentita da questi fenomeni.
L’Encyclopédie, alla voce «monstre (zool.)», spiega che trattasi di «animal qui naît avec une conformation contraire à l’ordre de la nature». In questo «ordre de la nature» è fatto coincidere dalla vecchia Filosofia il presupposto metafisico-teologico capace di spiegare tutta la realtà. Nello stesso «ordre de la nature», il nuovo pensiero scientifico identifica invece le regole generali, ammettendo però che da esse si differenzino le eccezioni dimostrate mediante l’osservazione dei fenomeni. Eccezioni e fenomeni sono tanto evidenti, da non poter essere negati, come spiega questo scritto planchiano, il quale documenta quella che abbiamo definito la scelta eretica di Bianchi a favore della fisica di Gassendi. Forse proprio per questo motivo, tale scritto fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane, alle quali non dovettero essere estranei gli ambienti ecclesiastici riminesi che, date le concezioni scientifiche di Bianchi appena considerate, non potevano gradire troppo il suo modus operandi come gestore dei Lincei. La fretta con cui si giungerà, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell’Indice per l’Arte comica, non può spiegarsi soltanto in relazione al tema controverso in essa trattato, un tema allora importante, tanto da essere al centro di durissime polemiche 115, quindi di stretta attualità, però in definitiva marginale rispetto alle più fondamentali questioni di Filosofia e di interpretazioni teologiche e metafisiche della Natura. Un tema, soprattutto, non sviluppato così duramente da Bianchi sotto il profilo dottrinario, come avrebbe invece dovuto richiedere, quale giustificazione, la stessa condanna romana, per apparire plausibile.
Dissertazione n. 7, del 7 marzo 1749, di Giuseppe Antonio Battarra, De Lithophytorum, ac praesertim de corallorum generatione.
Dissertazione n. 8, del 21 marzo 1749, di Planco, sopra i rimedi per le coliche nefritiche 116.
Dissertazioni n. 9 e n. 10, rispettivamente dell’11 e del 25 aprile 1749, sopra la Beata Chiara da Rimini, entrambe inviate da Giuseppe Garampi dimorante dalla fine del 1746 a Roma 117. La prima dissertazione tratta della Comunione sotto le due specie, ricevuta dalla Beata Chiara l’11 aprile 1749. La seconda parla dei suoi digiuni, toccando un tema che divideva l’ambito ecclesiastico, circa il rigorismo con cui si doveva o meno affrontare la quaresima 118. E che non risultò gradito all’uditorio «propter materiae, et stili ariditatem», al punto che Bianchi concluse la radunanza leggendo versi di un «festivus» autore napoletano, come troviamo scritto nel Codex (c. 12r).
Dissertazione n. 11, dell’8 marzo 1750, di Giovanni Paolo Giovenardi 119, De Rubicone, a proposito della «iscrizione da lui fatta per un cippo sulle sponde del fiume Uso, preteso Rubicone degli antichi e dalla quale prese le mosse una celebre controversia in cui il Bianchi ebbe parte preponderante» 120, come dimostra la dissertazione seguente.
Dissertazione n. 12, del 21 marzo 1750, di Planco, lettera ad un amico fiorentino, De Rubicone 121.
Dissertazione n. 13, del 15 luglio 1750, di Daniele Colonna, De Hydrope Ascite.
Dissertazione n. 14, del 12 marzo 1751, di Giacomo Fornari, An Philosophia et reliquae scientiae et artes versibus pertractari possint, sintque veri poetas qui hasce scientias versibus pertractant an puri versificatores.
Dissertazione n. 15 del 27 marzo 1751, di Giuliano Genghini, De Apollo Pythio.
Dissertazione n. 16 del 2 aprile 1751, di Planco, lettera «circa varias Inscriptiones antiquas Arimini» 122.
Dissertazione n. 17, del 30 aprile 1751, lettura dell’epistola inviata da Lodovico Coltellini sul Dittico queriniano, e di sette lettere di Roberto Malatesti (1479).
Dissertazione n. 18, del 30 aprile 1751, di Gaspare Adeodato Zamponi, De Lumbricis Corporis Humani 123, in cui si sostiene, erroneamente, che i vermi del corpo umano si riproducono per parto e non con uova 124. Monsignor Giuseppe Pozzi in una lettera a Bianchi definisce «ciance» le affermazioni di Zamponi 125. Riserve metodologiche sono avanzate da Giuseppe Zinanni: l’osservazione di Zamponi è stata fatta soltanto una volta, «quando per stabilire un’osservazione vi si richiede di verificarla più decine di volte», per cui augura all’autore della dissertazione «che s’incontri in altri vermi che stiano per partorire» (24 giugno 1752, FGLB, ad vocem).
Nel prologo alla dissertazione di Zamponi e nel relativo verbale del Codex, Bianchi denuncia la negligenza degli accademici i quali intervengono raramente alle radunanze. Nel prologo i toni sono molto forti: gli accademici, sostiene, s’affaticano «solamente per qualche poco per un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche femminuccia» 126.
Dissertazione n. 19: il 7 maggio 1751, il «tiro» Giovanni Battista Brunelli parla brillantemente di un argomento di ostetricia, relativo ai parti difficili 127.
Dissertazione n. 20. Senza data 128, è la lettura di un’epistola di Leonida Malatesti del 1546.
Dissertazione n. 21, del 14 maggio 1751, di Giovanni Antonio Battarra, De origine fontium. «In fine lepide dixit se hanc Dissertationem recitasse, ne videretur negligentiae notatus a Planco, ut suboscure notati sunt alii Academici Ariminenses, qui modo muti facti videntur», commenta Bianchi nel Codex (c. 17r).
Dissertazione n. 22, del 28 maggio 1751: Planco dà lettura dell’esame anatomico riguardante un bambino di nove anni, il contino Giambattista Pilastri di Cesena, morto «ex Apostemate in lobo destro Cerebelli» 129. Quell’esame è pubblicato nello stesso anno nella «Raccolta d’opuscoli»del camaldolese padre Angelo Calogerà, a Venezia (pp. 169-200), con il titolo Storia medica d’una postema nel loro destro del cerebello, aprendo lunghe e «feroci polemiche» 130. Un’anticipazione di questa dissertazione, è fornita da Bianchi, pochi mesi prima in appendice alla seconda edizione del De Monstris 131.
Dissertazione n. 23, del 11 giugno 1751: Pasquale Amati «Causidicus seu Leguleius» tiene una dissertazione «de origine Litterarum», la quale «approbata non fuit a Planco restitutore, et ab omni dotto, qui huic sessione interfuit» 132. Nella successiva riunione (18 giugno 1751), Bianchi «aliquid dixit circa deliramenta Amati in praeterita sessione» 133. Quest’annotazione, nella sua brevità, sottintende parecchie cose sull’atteggiamento di Planco come reggitore dei Lincei e come «uomo dotto».
Dissertazioni n. 24 e n. 25: il 18 giugno 1751, Bianchi tratta di un altro esame anatomico, De structura uteri in gravidis, e legge una lettera di Lodovico Coltellini sulla lingua etrusca, a cui premette una prefazione 134 «de incertitudine studiorum Linguae Etruscae», come leggiamo nel Codex (c. 18v.).
Dissertazione n. 26: l’11 febbraio 1752, «ultimo venerdì di carnovale», l’Accademia tiene un’adunanza straordinaria e «solenne», con musica ed esibizione della «venusta» cantante ed attrice Antonia Cavallucci in Celestini 135: «deinde Plancus maiusculam dissertationem habuit de praestantia Artis comicae, seu comoediae» 136. Il caso che nasce in seguito a questa radunanza di «carnovale», coinvolge in apparenza soltanto la persona di Bianchi, ma finisce per avere conseguenze pure per la sua Accademia. Esso culmina nella già ricordata condanna all’Indice, e si articola in due distinti momenti, che meritano di essere analizzati ai fini della storia dei Lincei riminesi. Inizialmente Planco è attaccato soltanto per l’ospitalità concessa in casa propria ad una cantante che, oltretutto, si esibisce nel corso di una riunione lincea; poi egli è denunciato al Sant’Uffizio per il contenuto della sua dissertazione. I due momenti si tengono strettamente tra loro: entrambi sembrano aver origine in un atteggiamento pregiudiziale nei confronti dell’attività e dei comportamenti scientifici di Bianchi. Atteggiamento che mira a rendergli sempre più difficile l’attività accademica.
E’ già stato ricordato che «quell’esibizione incontrò, nel concerto di polemiche a non finire, anche la disapprovazione di accademici» 137 risentiti e scandalizzati come Lodovico Coltellini, il quale approva la diceria in sé («Lodo, e lodai la sua lezione sull’arte comica»), ma ritiene inopportuno «lodare una bagasciuola, una puttanella dichiarata, che tali sono generalmente queste contrabbandiere, che millantano il nome di virtuose» 138. Non era soltanto Coltellini, a pensarla così a proposito delle attrici. Il celebre padre Daniele Concina, «violento e torrentizio teologo domenicano» 139, le definisce «putidulae meretriculae», leziose puttanelle, in un volume apparso nello stesso 1752, nel quale in tutta fretta, mentre già i torchi erano al lavoro, aggiunge un paragrafo dedicato proprio all’Arte comica del nostro medico, accusato di scrivere da pazzo 140. Il teatino padre Paolo Paciaudi definisce la Cavallucci un’«infame sgualdrina» e «cortigiana svergognata», d’accordo con Giovanni Lami che la definisce semplicemente, alla francese, una «figlia di gioia» 141. Allineati con tutti costoro dovettero essere anche gli ecclesiastici curiali cittadini, se il caso genera quelle che un corrispondente romano di Planco, Giuseppe Giovanardi Bufferli 142, chiama «illustrissime, e Reverendissime insolenze, che mal’a proposito si sono fatte al degnissimo Dottor Bianchi»: della «sua stravaganza in proposito della Signora Antonia Cavallucci si è qui parlato quanto forse non sarassi parlato in Rimino», per merito soprattutto del vescovo della città, Alessandro Guiccioli 143.
I difficili rapporti fra Bianchi e la Chiesa riminese non sono una novità: i primi contrasti risalgono addirittura al 1726, dopo che il vescovo Davìa rinuncia alla carica 144. E di certo non migliorano quando Planco si pone in diretta concorrenza con le istituzioni culturali ecclesiastiche che, come lui stesso ricorda, entrano in crisi dopo la contemporanea partenza da Rimini di Davìa e di Leprotti 145. Questa situazione di contrasto dovette durare a lungo, sino alla morte di Planco, se il vescovo di Rimini nel 1777, il forlivese Francesco Castellini, non voleva che fosse stampato l’elogio funebre di Bianchi, scritto da Giovanni Paolo Giovenardi 146.
Giovanardi Bufferli chiama «lodevole» il contegno assunto da Bianchi «nel rimettere a Bologna 147 con tanta sollecitudine la medesima Signora Antonia», e spiega che attende «con desiderio» la dissertazione sull’Arte comica, «tanto più che un certo Frate Scolopio 148 stamperà tra non molto certo libro, con cui intraprende tra l’altre cose a sostenere che questi Comici furono mai sempre infami». Giovanardi Bufferli aggiunge il 18 marzo:

[...] io sono impaziente di leggere la di lei dotta Dissertazione, al sentimento della quale sarà forse presso che uniforme quello d’un’opera, che ora stassi scrivendo da questo Padre Bianchi famoso Zoccolante Lucchese 149, ed à V. S. Ill.ma molto ben cognito in proposito dell'antico, e moderno teatro 150.

Appena ricevuta a Roma una copia dell’Arte comica, Giovanardi Bufferli la consegna in lettura «in autorevoli gentilissime mani», e ne chiede altri esemplari «per sodisfare all’erudita curiosità» di alcuni amici 151. Da Bologna monsignor Giuseppe Pozzi 152 ironizza, privilegiando l’aspetto dei rapporti personali di Bianchi con la Cavallucci, rispetto a quello relativo al contenuto del saggio, che ai suoi occhi passa in secondo piano:

Ho letto l’orazion vostra, e ad altri Amici l’ho comunicata. Tutti concludono che facendola eravate innamorato, mà parimenti tutti conchiudono, che siete un valent’uomo, e benche l’Amore nella vostra, e nella mia età non possa far che un nido assai disaggiato, pure merita compatimento, quando ne escono pulcini sì ben covati ... 153.

Bianchi dovette smentire la teoria dell’innamoramento 154, se Pozzi gli rispose:

Che voi foste innamorato, o nò della Cavallucci non avete à rendermene raggione, e qual sia stato l’impegno vostro non cerco, non intendo che vi confessiate ora de’ peccati vostri. Unicamente, io alla buona vi dico che avete gittato il tempo, e che è meglio assai né impegnarsi né per maschij né per femmine 155.

Anche dopo la scomparsa di Bianchi, il suo preteso innamoramento continuò a suscitare polemiche se non scandalo, come dimostra la breve biografia di Planco apparsa ne Il Giornale di Medicina 156 in cui si legge:

Amò stranamente per pochi mesi, mentr’era sessagenario, una Comica Romana, che avea nome Antonia Cavallucci, alla quale compose e fece stampare alcune sue Poesie. Per essa recitò e stampò il suo Discorso sull’Arte Comica, il quale ha poi meritata la indignazione della Sacra Congregazione dell’Indice.

La difesa che fu tentata da mano anonima, sottolineava che «l’Amore in Medicina viene considerato trà le Cagioni Procatartiche della Sanità, se moderato ed onesto» 157. Nel caso specifico, per Bianchi, quell’avventura «anzi che avvilirgli lo spirito, contribuì a suscitargli vieppiù pellegrini soliti frutti della dotta Sua mente», cioè lo portò alla stesura dell’Arte comica.
Nella sua dissertazione, Planco s’avventura in un terreno particolarmente pericoloso. Non gli interessa infatti tracciare soltanto un profilo storico dell’arte teatrale, sottolineandone l’utilità, ma vuole con elegante sottigliezza (quasi più giuridica che letteraria), rimettere in discussione il trattamento riservato dalla Chiesa agli «istrioni», privati ancora allora in Francia dalle leggi canoniche «fino de’ Sagramenti, e dell’Ecclesiastica Sepoltura». Bianchi precisa che le leggi civili non si riferiscono agli attori «in genere», ma a quelli che si esibiscono in «alcuni crudeli, e osceni spettacoli, e specialmente de’ Gladiatori, e de’ Mimi, o Pantomimi» (che ricorrono ad «oscenità» nei loro «sozzi atteggiamenti»), per cui meritatamente sono puniti essi, e sono «scomunicati» quanti vanno a vederli. Tutt’altra cosa, aggiunge, sono «quegl’Istrioni, o Commedianti» i quali rappresentano «Tragedie, o Commedie oneste più atte a correggere piacevolmente il vizio, che ad eccitare spirito di crudeltà, o di libidine nelle persone». A sostegno delle proprie idee, Bianchi cita san Tommaso, il quale ritiene che «l’Officio dell’Arte degli istrioni [...] è ordinato per sollevar l’animo degli uomini, e che coloro che l’esercitano dentro de’ debiti modi, non sono mai in istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede per le loro fatiche». Planco infine si chiede: se la Chiesa permette la lettura delle commedie di Plauto e Terenzio 158, allora non si dovrebbe permettere anche la loro rappresentazione? Perché debbono essere considerati «infami» quei comici che «le rappresentano venalmente», mentre «diventano onesti quei che le rappresentano gratis»? Come risulta da questi passi, lo scandalo che avvolge la radunanza accademica «di carnovale», ha le sue radici, più che nell’esibizione della bella cantante romana, nelle ardite opinioni del «restitutore» dei Lincei: con severo puntiglio padre Concina le esamina minuziosamente, e con durezza le censura nel suo De spectaculis 159. Planco considererà padre Concina il vero ed unico responsabile della sua condanna 160.
Sostenendo retoricamente la nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo sottinteso il bisogno di libertà per la cultura in genere 161, e non soltanto per commedianti od attricette in particolare. A Planco non interessa proporre una riforma del teatro comico come invece, molto prima di lui, aveva fatto Muratori 162, preoccupato per ragioni di ordine morale del fatto che la scena fosse finita «in mano a gente ignorante» la quale poneva «tutta la sua cura in far ridere», ricorrendo ad un genere letterario consistente «non poca parte [...] in atti buffoneschi e in sconci intrecci, anzi viluppi di azioni ridicole, in cui non troviamo un briciolo di quel verisimile che è tanto necessario alla favola». Bianchi rovescia l’impostazione muratoriana, di cui ignora le finalità: egli non vuole un teatro nuovo, ma semplicemente la licenza di rappresentare quello antico, del quale non mette in discussione nulla, consapevole della grandezza letteraria di quegli autori, come Plauto e Terenzio, che lui stesso ricorda nel passo riportato.
I fulmini dell’Indice si abbattono sul capo di Bianchi 163, con il decreto 164 del 4 luglio 1752. Possiamo ricostruire tutti i particolari della vicenda, attraverso le lettere 165 che nel 1752 Giuseppe Garampi e Planco si scambiarono, ed altre epistole di corrispondenti romani di Bianchi 166: l’avvocato Gianfelice Garatoni, monsignor Marcantonio Laurenti e l’abate Costantino Ruggieri. L’Arte comica è stampata in marzo, ed immediatamente a Roma 167 se ne parla male. Il 26 aprile Garampi, dopo averla appena ricevuta, confida a Planco di prevedere che l’opera «potrà incontrare presso varie persone qualche eccezione». I punti controversi sono due, gli spiega il 6 maggio: «quello ch’ella dice della onoratezza dell’arte comica presso i Romani; giacché abbiamo gli antichi Giuristi, che l’annoverano fra’ le infami, e non sò se da un passo di Livio pure si raccolga lo stesso. Ma io non ho avuto il tempo di riscontrarlo». Ed «il vedere, ch’ella contrapponga all’osservanza che praticano i Francesi delle Canoniche Leggi, quanto si fà dalla Chiesa protestante d’Inghilterra». Bianchi nel Discorso (pp. 18-19) sostiene che

l’invitta e gloriosa Nazion Britannica non ha avuto difficoltà di fare seppellire solennemente in Londra nella cattedrale di Westimster, Chiesa, dove si coronano, e dove si sepelliscono i loro Re, la valorosa e ricchissima non men che bella loro Attrice Madamigella d’Oldfield, rendendole in morte per poco i medesimi onori, che poc’anzi renduti aveano all’immortale loro Filosofo Newton 168.

Il 20 maggio l’abate Ruggieri avvisa Planco:

mi dispiace che qui in Roma i vostri nemici ne [h]anno fatto un chiasso straordinario per quel paragone che voi fate fra il rigorismo, come voi dite, della Chiesa di Francia, colla generosità di quella d’Inghilterra nel dar sepoltura magnifica a quella loro famosa Attrice. Veramente la cosa è un poco avanzata, né dovevate voi far questo paragone fra la Chiesa Anglicana Eretica e la Gallicana Cattolica. [...] Insomma [h]anno fatto un baccano grandissimo per tutta Roma in tutti i ceti e ranghi di persone; e vi è stato chi ha detto di denunciarvi al S. Uffizio. Queste cose mi sono dispiaciute in etterno, ed ho fatto, e fò quanto posso per difendervi con dire che questa [è] una cosa fatta in Carnovale, onde non merita tanta dote. Voi sapete che jo vi sono buon e leale amico, e che ho stima infinita de’ fatti vostri; e perciò mi sono indotto a scrivervi tutto questo per vostra Regola.

Il 3 giugno lo stesso Ruggieri suggerisce a Bianchi:

Quanto al vostro Discorso dell’Arte Comica, credo che farete benissimo, ristampandolo, di togliere quel paragone de’ Franzesi, e degl’Inglesi, che non fà buon suono.

L’8 luglio Garampi comunica:

Con mio sommo dispiacere seppi ieri l’altro, che nell’ultima Congregazione dell’Indice, essendo stata riferita la di lei Orazione in lode dell’arte comica, ne fosse da’ Cardinali e Consultori variamente parlato, e che finalmente s’indussero a proibirla. Questa proibizione, benché nulla offenda l’erudizione e la sostanza dell’argomento, ma piuttosto paja cagionata da una cautela di Ecclesiastica economia, nulladimeno, se ne avessi avuto qualche sentore, si poteva facilmente riparare con esibirsi di meglio dichiarare que’ sentimenti, che fossero stati censurati, ò di farne una nuova edizione più corretta. Ma la cosa è stata improvvisa, né io l’ho penetrata, se non dopo fatta già la Congregazione.

Bianchi risponde il 13 luglio:

Anch’io sentii con molto mio dispiacere nell’ordinario scorso che il Signor Abate Garatoni m’accennasse nel fine d’una sua Lettera 169 come il Signor Abate Ruggieri gli veniva allora di dire che nel giorno antecedente era stato proibito dalla S. Congregazione dell’Indice il mio Discorso in lode dell’Arte Comica, il che mi sento confirmato dalla sua gentilissima degli 8 del corrente, che ricevei ieri. Veramente ancor io sarei stato prontissimo di far una Dichiarazione, o di far una nuova Edizione dell’Operetta togliendo via que’ sentimenti, che non piacessero, e di quest’ultimo me n’ero espresso anche col signor Abate Ruggieri; ma ad un Giudizio fatto così alla sordina, cioè indicta caussa, o inaudita parte come dicono; non si può por riparo. Se Ella credesse bene mandar un Memoriale a N. S., o alla medesima S. Congregazione dell’Indice a mio nome, dicendo che io son pronto a far una Dichiarazione de’ sentimenti censurati, o di fare una nuova edizione costì corretta, per impedire che non si pubblichi ora codesto Decreto di Proibizione, o almeno che si moderi con il donec corrigatur mi farebbe un molto favore.

Il 15 luglio Garatoni comunica a Bianchi:

Il perché sia stato proibito il vostro discorso sopra l’arte comica si è fondato principalmente, per essere stato scritto in italiana favella, dicendosi che in tal guisa s’insinuano negli animi di taluni più facilmente alcune massime le quali pareano un po’ troppo avvanzate. Il Padre Abate Monsecrati Lucchese dell’Ordine de’ Scopettini, il quale non volea riferirlo, ma fù costretto a farlo [,] nella Congregazione dell’Indice trattò da Galantuomo, perché mostrò, che non meritava tanta severità, ma non giovò per il riflesso dettovi di sopra. Questo è quello, che io vi posso dire. Se desiderate maggiori notizie, forse ve le darà l’abate Ruggieri, quando lo ricerchiate 170.


Il 25 luglio Garampi precisa:

Il Padre Reverendissimo Richini 171, che si protesta di essere stato necessitato a fare riferire in Congregazione la di lei Orazione, per replicate istanze di Prelati e persone, che dic’Egli di distinzione, crede di non poterle suggerire nelle presenti circostanze migliore partito, che quello di scrivere una lettera di sommissione a N. S., assoggettandosi e riconoscendo la giustizia della censura, e supplicandolo a non volere almeno, che detta proibizione sia pubblicata nel Decreto, ò che non vi comparisca il di lei nome; e ciò a fine di non soggiacere a qualche impertinenza de’ suoi malevoli.
Veramente questa proibizione non dovea farsi nella passata Congregazione, e giacché per l’ordinario si fa riferire il libro censurato in due o tre Congregazioni. Ma sento, che alla relazione allora fatta insorgessero varj Cardinali, acciò il libro fosse proibito, avendone fatta gran specie quel contrapposto della Chiesa Gallicana e Inglese, e quella lunga apostrofe alla Comediante 172. Ma de hoc satis, giacché io di una simil cosa carnevalesca, non pare che se ne dovesse fare tanto caso.

Il 3 agosto parte da Rimini la risposta di Bianchi, improntata a scetticismo:

[...] io non so, se con ciò si ottenesse niente, perché da quello che ella mi scrive vedo che ci è stato molto impegno contro del mio Discorso, pel quale senza sentir ragioni si volle ad ogni costo proscritto. Chi ha quest’impegno per sostentarlo inquieterebbe N. S. e me, onde è meglio a dargliela vinta per non dar occasione d’inquietarsi maggiormente. Se poi qualche mio malevolo scriverà una qualche impertinenza, la trascurerò, come tant’altre. Se bene che con me s’è proceduto con un sommo rigore per una cosa finalmente che è stata stampata in una Città Cattolica con tutte le Licenze de’ Superiori, e che viene generalmente lodata da tutti i Letterati, lasciandosi poi correre liberamente tante impertinenze stampate alla macchia contro di me, e il più con nomi finti, cose in realtà non sono che tanti Libelli famosi 173, come sono appunto quelle cose di quel Prete che sta a Sinigaglia, che s’intitola Omireno Bonodei, quelle di quell’altro Prete di Modena, che s’intitola Ciriaco Sincero, quelle dei quei due Preti di Siena, Valentini, e Carli, e finalmente quelle di questo, che s’intitola Gerunzio Maladucci, e d’altri. Io veramente, come scrissi al Signor Abate Ruggieri avea intenzione di far ristampare quel mio discorso togliendoli via l’esempio di quella Oldfield, e mettendoci in suo luogo quello d’Isabella Andreini detta la Comica gelosa, che fu onorata in Francia, come grande Dama, e che fu sepolta in Lione solennemente con un Epitaffio in bronzo; benché io in quel luogo non faccia alcuna comparazione tra Chiesa, e Chiesa, ma solamente tra Nazione, e Nazione, e poco dopo io soggiunga, ma la nostra Santa Chiesa Cattolica etc., con ché vengo a dire che non sono cattolici, ma eretici gl’Inglesi. Benché non tutte le cose che fanno, e che dicono gli Eretici siano Eresie, come si vede in questa cosa, dove convengono gl’Inglesi con noi, perché anche in Roma si seppelliscono in Chiesa i Comici. Così io volea tor via a quel mio Discorso quell’Apostrofe a quella Comica per miei privati riguardi, ma se io ce l’avessi lasciata non vedo, come quell’Apostrofe avesse meritata proibizione alcuna.
Ché io riconosco maggiormente lo spirito d’impegno, che costì s’ha avuto codesta proibizione, il quale spirito d’impegno peravventura sarà stato fomentato di qua da chi ora non può più per sé stesso fomentarlo, essendo passato tra i più, forse mandatoci prima del tempo da chi egli si serviva per consiglieri nelle sue ingiustizie, e violenze. Io veramente ancora dopo l’ultimo dì di Carnovale non voleva parlar più di queste cose, ma sono stato costretto a parlarne, giacché la persecuzione dura ancora, né la morte l’ha potuta far cessare.

Nella parte conclusiva della lettera, quando parla del proprio accusatore «passato tra i più», Bianchi sembra chiamare in causa un personaggio locale autorevole, lo stesso vescovo di Rimini Alessandro Guiccioli, scomparso da poco, l’8 maggio di quello stesso anno 174. D’altro canto, come si è visto, se Garampi accenna vagamente a «replicate istanze di Prelati e persone, [...] di distinzione», Giovanardi Bufferli parla in modo esplicito di «illustrissime, e Reverendissime insolenze» e del ruolo avuto dal medesimo vescovo Guiccioli nel diffonderle in Roma contro Bianchi, circa la «sua stravaganza in proposito della Signora Antonia Cavallucci». Il 12 agosto c’è una puntualizzazione di Garampi, a conferma che la proibizione del libro è venuta «unicamente per certa ammirazione, che ha data alle pie orecchie, la semplice lettura di alcune poche espressioni o periodi. Almeno così mi pare di avere ricavato da varj soggetti della Congregazione». Il 17 agosto Planco spedisce a Garampi la supplica da «presentare, o far presentare» al papa «da persona a lui grata per vedere, se si può ottenere la grazia» 175, aggiungendo:

Io mi credeva veramente che ci fosse stato dell’impegno per far quella Proibizione; giacché il Signor Avvocato Garatoni m’avea scritto che benché un Padre Abate Scoppettino, cui era stato commesso d’esaminare l’Operetta ne avesse data buona Relazione, tanto l’aveano voluta proibire; così ella m’avea scritto che era stata proibita, come improvvisamente, e senza riferirla più volte, come è solito a farsi quando si tratta di fare una proibizione. Se solamente per la Lettura d’alcune poche espressioni, o periodi l’hanno proibita, se io fossi stato avvisato con un Carticino, o due che si fossero fatti si sarebbe potuto rimediare a tutto.

Il 31 agosto Planco, come risulta dall’elenco della sua corrispondenza 176, scrive direttamente a papa Benedetto XIV, con il quale poteva vantare un’antica amicizia 177. Il 10 settembre Bianchi conferma a Garampi che la sua lettera è stata presentata 178 al papa «il quale mi ha fatto rispondere, che egli vedrà di fare quanto io disidero almeno per la seconda parte». Stando alla cit. lettera garampiana del 25 luglio, questa «seconda parte» dovrebbe riguardare la supplica a pubblicare la condanna senza il nome dell’autore dell’opera messa all’Indice. Il papa, aggiunge Bianchi, ha poi promesso «che con quest’altro spaccio avrà la degnazione di rispondermi». Il pontefice non scrive a Bianchi, ma gli fa avere notizie tramite monsignor Laurenti. Dalle lettere che Laurenti indirizza a Planco, possiamo ricavare altri particolari sull’intera vicenda. Il 6 settembre gli scrive:

La hò subito servita coll’umiliare alle mani di N. S. la lettera di V. S. Ill.ma e da lui medesimo hò avuta commissione di scriverLe, che sà essere vero il decreto già emanato dalla Congregazione dell’Indice, e però non può impedire, che la cosa, che è già di fatto, non lo sia, mà che dirà, che quando questo Decreto dovrà propallarsi, si taccia in esso il nome di lei, come autore e lo che, dice il Papa, è almeno desiderato, e chiesto da esso Lei: mi ha poi soggiunto, che giovedì prossimo parlarà col Commissario e Segretario del S. Offizio, e che indi responderà alla suddetta Sua 179; e per me prendo la lusinga che N. S. farà il fattibile per indennizzare la di Lei estimazione, e decoro, come cordialmente Le auguro.

Il 16 settembre Laurenti aggiunge:

Circa l’[...] affare non ne hò più sentito parlare, e perché sò che il Papa quando hà detto di fare una cosa, non si scorda di farla, perciò mi lusingo, che già abbia parlato, e forse forse, che abbiale scritto in risposta alla sua da me già presentatale: ma di questi passi a me non è lecito per ora di interrogarlo se pure li hà fatti, o nò: bisogna trovare le opportunità di parlarne, le quali talvolta mi riescono facili, e pronte, e tall’altra nò. In ogni modo Le predìco che non andarà male.

Il 21 ottobre Laurenti spiega:

Questa mattina ho potuto parlare a Monsignor Guglielmi Assessore del S. Offizio; e lo ho interrogato se sà cosa divenisse nella Congregazione di certa dissertazione accademica detta e stampata dal dott. Bianchi di Forlì in lode de Comici, e Ballarini; egli subito mi ha risposto che ben si ricorda, che fu questa proscritta, e che passò al Segretario dell’Indice, il quale poi la fà stampare nel libro de libri proibiti, cioè aggiungere ai già proibiti: ma mi assicurò che tali piccole cose non si proibiscono pubblicamente e con strepito con cedole, che si attaccano per la Città, e come dicesi ad Valuas: e mi soggiunse che ne parlerebbe col Segretario dell’Indice Padre Recchini, che presentemente è fuori di Roma, accioche accennasse l’operetta, ma non l’autore: ed essendo questo Padre mio favorevole, lo pregarò similmente anch’io, subito che tornerà in Città: tutto ciò potrebbe avere già fatto il Papa medesimo e allora me ne chiarirò [...].

Il 25 novembre Laurenti comunica l’esito della vicenda:

Nostro Signore memore della lettera scrittagli tempo fa da V. S. Ill.ma avant’ieri mi disse, che aveva avuta opportunità di vedere, e parlare al Padre Segretario dell’Indice, e inteso da questo che di fatto era emanato il decreto proibitivo della consaputa sua operetta, e che il già registrato non potevasi avere per non registrato, e che in seguito bisognava ò presto ò tardi stampare in un foglio, o in un libro ed allora il Papa gli ordinò che se pure era proscritta la dissertazione, non se le aggiungesse il nome dell’autore, cioè di Lei, e così certamente avverrà: e di questo, mi soggiunse il Papa, ne darete contezza al Signor Bianchi, che servirà per mia risposta alla di lui lettera con cui appunto mi pregava che almeno non fosse enunciato pubblicamente il suo nome: nell’eseguire questo sovrano comando, mi dò l’onore di riverirla [...].

Il 29 novembre Garampi conferma che il papa ha concesso a Bianchi di «tacere» il di lui «nome nella pubblicazione, che si farà in breve del consaputo decreto della Congregazione dell’Indice». Infatti, tale decreto ed il successivo Index recano soltanto il titolo dello scritto planchiano, Discorso (in lode dell’Arte Comica),e non le generalità dell’autore. Ma Bianchi, come lui stesso spiega a Garampi il 3 dicembre, vorrebbe che la sua «Operetta» non «fosse esposta in quegl’Indici, che s’affiggono». Garampi il 16 dicembre 180 gli risponde:

Il Padre Secretario dell’Indice [...] mi dice di non aver arbitrio alcuno per poterla servire in quello ch’Ella gli richiede, senza un nuovo beneplacito del Papa. Non sarebbe male ch’Ella scrivesse a N. S. una lettera di ringraziamento per l’ordine già dato, affinché si taccia il di lei nome, e quando ella pensasse di chiedergli nello stesso tempo questa nuova grazia, ella faccia quel che stimerà più opportuno.

Il 21 dicembre Bianchi confida a Garampi che non gli «dispiace il pensiero» di scrivere «a dirittura» al papa «ringraziandolo, e pregandolo dell’altro favore», ma di non avere, in quel giorno, tempo di comporre la lettera. Di questa lettera non si parla più nel loro carteggio: è facile immaginare che Planco non l’abbia mai voluta scrivere. Per superbia ed arroganza, secondo l’immagine convenzionale che di lui viene accreditata. Ma probabilmente per non subire nuove umiliazioni da un ambiente che gli si era rivelato ostile aldilà di ogni limite ragionevole, e nel quale aveva potuto sperimentare gli effetti concreti delle invidie altrui e delle censure verso le proprie idee.
Tra le carte planchiane 181 abbiamo rinvenuto un sonetto contro papa Benedetto XIV. Non sappiamo nulla sul suo autore, né se esso abbia relazione con la condanna subita, ma soltanto che la grafia è sicuramente di Bianchi:

Ma cazzo! Santo Padre ogni ordinario
ci vengono nuovi guai, nuovi pericoli,
e voi posate quieto il tafanario
grattandovi i santissimi testicoli.

Ci vuol altro che aggiungere al Bollario
Chiose, Brevi, Paragrafi ed Articoli
e studiar la riforma del Breviario
per fare i Santi Grandi uguali a Piccoli.

Tutto ciò Padre mio non vale un pavolo
e forse voi le chiamereste Buggere
in altri tempi, e vi dareste al Diavolo.

Or mentre ce ne andiamo in precipizio
Voi coglionando ci lasciate struggere
per Dio, che ci venite in quel servizio.

Quanto si è finora esposto, dovrebbe bastare per porre in un ambito più dignitoso culturalmente, e storicamente importante, l’elegante saggio planchiano sull’«arte comica», rispetto all’attenzione, tra divertita e scandalizzata, che esso ha quasi sempre ricevuto. Il saggio ha limiti evidenti, determinabili in quella struttura che ne costituisce però nel contempo la cornice di originalità: Bianchi parte infatti da un’esposizione, convenzionale ed erudita, per approdare ad un risultato del tutto inatteso rispetto alle premesse. In questa conclusione c’è una forza innovativa in cui possiamo forse rintracciare echi delle esperienze giovanili compiute nella Bologna dove, a partire dal 1718, aveva operato Pier Jacopo Martello, che lo stesso Bianchi ricorda tra i suoi amici 182.
La dissertazione procura a Bianchi un messaggio ben più significativo della stessa condanna, recante la firma di Voltaire 183: «Vous avez prononcé, Monsieur, l’eloge de l’art dramatique, et je suis tenté de prononcer le votre». Comincia così la lunga lettera di Voltaire, che contiene una difesa del teatro e della sua funzione 184. Come essa conferma, il tema del teatro era allora al centro di un’altra disputa, condotta dai Giansenisti contro la pedagogia dei Gesuiti, i quali usavano nei loro collegi anche il palcoscenico per educare gli allievi 185.
La condanna non ha conseguenze 186 nella successiva carriera pubblica di Bianchi, se nel 1755 egli è nominato «Consultore dell’Inquisizione» e «Medico del Sant’Uffizio» 187, prima di diventare nel 1769 «Archiatro Segreto Onorario», per volere di papa Ganganelli, Clemente XIV, che era stato suo allievo 188.
Per completare la documentazione relativa all’Arte comica ed alla Cavallucci, riproduciamo l’Ode anacreontica composta in suo onore dallo stesso Planco 189:

Ode anacreontica
in lode della Signora Antonia Cavallucci,
detta Celestini, Romana,
Attrice, e virtuosa di Musica,
in occasione, ch’Ella canta graziosissime Ariette nel Pubblico Teatro, e per varie Accademie della Città di Rimino,
offerta al merito singolare dal Nobile Sig. Dottore Giovanni Bianchi Medico Primario della medesima città.
Pesaro MDCCLII nella Stamperia Gavelliana


Fiamme dell’anime,
Gentil Donzella,
Piucché altra amabile,
Se non più bella,
Per poco ascoltami,
Che in dolci modi
Vuo dir tue lodi.

Ascolta un fervido
Inno d’onore
Figlio di candido
Sincero core,
Che non sa fingere,
Che si vergogna
Di vil menzogna.

Di tue bellissime
Nere pupille
Ond’escon fervide
Chiare faville,
O quanto il tremulo
Lume vivace
M’alletta e piace.

Armata Pallade,
E tu, che sei
Piacer degli uomini,
E degli Dei,
Ridente Venere,
Aveste mai
Sì vaghi rai?

Del volto i morbidi
Tersi candori,
Che vezzi spirano,
Spirano amori,
O quanto, amabile
Donzella, ammiro
Qualor ti miro.

Ma gli occhi, il tremulo
Lume vivace,
Che tanto allettami,
Che tanto piace,
Il volto morbido
Non m’incatena,
Non mi dà pena.

Fiamma dell’anime,
Gentile Donzella,
Più raro amabile,
Pregio, che bella
Più ch’altra renditi,
Sol m’incatena,
Sol mi dà pena.

Tua voce armonica,
Ch’or dolce, ora grave,
Ma sempre tenera,
Sempre soave
Dai labbri scioglesi,
E in bei concenti
Tempra gli accenti;

Qualor tra lucide
Notturne scene
L’orecchio docile
A ferir viene,
Con dolce, incognita
Forza d’amore
Mi lega il core.

Qual nuovo insolito,
Stupor, se Orfeo
Al suon di concava
Lira poteo
Trar seco attonite
Le selve, e i pronti
Seguaci monti?

Se là fin d’Erebo
Le disperate
Inesorabili
Furie agitate
L’ascoltan placide,
Se ubbidiente
Cerbero il sente?

Ahi vate misero!
Che valse poi
Aver fin d’Erebo
Co’ modi tuoi
Placate e domite
Le disperate
Furie agitate;

Se al fin, egregio,
Divin Cantore,
Insaziabile
Cieco livore
Lasciar doveati
Di crudo scempio
Funesto esempio!

Ma tu, dell’anime
Fiamme, e desio,
Sorte sì barbara,
Destin sì rio,
S’altrui d’invidia
Oggetto sei,
Temer non dei.

D’un mar che mormora,
Che irato freme,
Che in vasti innalzasi
Flutti, non teme
Nocchier, che a placido
Sicuro porto
Mirasi scorto.

Virtute è il placido
Porto beato,
Che all’onde involati
D’avvero Fato;
L’amico Genio,
Che ti difende,
Per man ti prende.

Seco le torbide
Procelle insorte,
Che in van minacciano
Perigli e morte
Seco que’ tumidi
Rei flutti infidi
Sogguardi, e ridi.

Dissertazione n. 27, del 18 febbraio 1752, di Nicola Paci, nobile, De praestantia musicae 190.
Dissertazione n. 28, del 4 marzo 1752, di Francesco Fabbri, De praestantia Academiae nostrae. Essa contiene, come apprendiamo dal Codex (c. 19v), molte lodi di Bianchi quale «restitutore» dei Lincei e per la sua attività gratuita di pubblico insegnante di varie Scienze 191.
Dissertazioni n. 29 e n. 30, entrambe del 17 marzo 1752: si tratta della lettura di missive del governo di Firenze inviate ai Malatesti di Rimini (1378-1400), e ricopiate da Lodovico Coltellini da un codice ms. di Coluccio Salutati (1331-1406), esistente presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze; e della trattazione di Bianchi De rebus antiquis 192.
Circa la dissertazione n. 29 (lettura delle missive del governo di Firenze), va detto che la lettera di trasmissione di Coltellini e le sue trascrizioni allegate furono tolte nel corso dell’Ottocento dalla cartella gambalunghiana relativa alle epistole di Coltellini a Bianchi (FGLB), ed inserite nel ms. ora indicato come «C. Salutati, Lettere della repubblica di Firenze ai Malatesti (1376-1400), SC-MS. 414», BGR. Tale fascicolo è definito in una delle «Schede Gambetti», la n. 114, BGR, alla voce Coltellini, L. (e non Salutati, C., come risulta oggi negli spogli dei mss.): «Lettera autografa al Dott. Giovanni Bianchi di Rimini in data 29 Gennaio 1752 con copia di varie lettere della Repubblica Fiorentina ai Signori Malatesta di Rimini. Il Coltellini le copiò dal codice cartaceo della Libreria Riccardiana segnato M II n° 3. La prima è diretta Domino Galeotto de Malatestis. Florentiae die XI Augusti 1378. La seconda è diretta allo stesso. Florentiae die 9 Nov. 1738. La terza è diretta Karolo et Pandolfo de Malatestiis Florentiae die 10 Aprilis 1390. La quarta è diretta Ghaleoto Belfiore Florentiae die 5 Junii VII Ind. 1399. La quinta è diretta Karolo de Malatestiis Florentiae die 5 Junii 1399 VII Ind. La sesta è diretta Karolo, et Fratribus et aliis de Malatestiis. Florentiae due 7 Junii 1399. Mss. Sc. V. 48». Dalla cit. lettera di Coltellini a Bianchi del 29 gennaio 1752 si ricava che anche le precedenti epistole malatestiane lette nei Lincei planchiani, di cui abbiamo detto, gli erano state inviate da Coltellini.
Di quest’ultima radunanza lincea del 17 marzo 1752, sono rimaste due annotazioni di mano di Bianchi relative alla dissertazione n. 29 (fasc. 222, FGMB). Nella prima annotazione è spiegata l’origine delle copie fornite da Coltellini: il codice, «scritto dal celebre Coluccio Salutati», fu poi «posseduto da Pietro Crinito, o sia del Riccio, altro famoso Segretario della medesima Repubblica» fiorentina come lo stesso Salutati. Nella seconda annotazione si legge: «Giacché per incidenza questa sera s’è fatta onorata menzione de’ Signori Malatesta, che erano fautori delle Lettere greche e latine, e d’ogni altra cosa a scienza e ad erudizione appartenente, e massimamente tra questi Carlo Malatesta Signore di questa Città, che fu cognominato il Catone de’ suoi tempi, e Sigismondo, e Malatesta Novello suoi Nipoti, uno Signore di Rimino, e l’altro Signore di Cesena, che favorirono amendue le Lettere in un grado eccellente, come dalle scelte Librerie che fondarono, e dagli uomini illustri in Lettere, che appo ebbero è manifesto, io vi riferirò o graziosi uditori una lettera del Sig. Dott. Lodovico Coltellini di Firenze nostro Accademico Linceo, colla quale egli ci manda un sonetto d’un tal Pandolfo Malatesta ad un tal Messer Andrea lasciando a noi la cura d’investigare chi fosse questo tal Pandolfo giacché moltissimi di questa famiglia Malatesta, e Signori, e non Signori della Città nostra con un tal nome di Pandolfo furono».
La dissertazione n. 30, De rebus antiquis (sempre del 17 marzo 1752), corrisponde alla Lettera ad un amico di Firenze intorno varie cose d’Antichità, pubblicata nelle «Novelle» di Lami (XIII, n. 23, 9 giugno 1752, coll. 360-366; n. 24, 16 giugno, coll. 378-382; n. 25, 23 giugno, coll. 386-390; n. 26, 30 giugno, coll. 404-411). Essa contiene un’accesa polemica di Bianchi contro l’autore (anonimo, in realtà il padre gesuita Francesco Antonio Zaccaria, 1714-1795) della Storia letteraria d’Italia, il cui volume iniziale era apparso nel 1750, con due citazioni critiche sopra scritti archeologici dello stesso Planco. Zaccaria fu successore alla Biblioteca di Modena, dal 1756 al 1767, di L. A. Muratori (in funzione dal 1700 al 1750), subentrando a Francesco Vandelli (1750-1756). Nella prima citazione di Zaccaria, in cui si fa il nome di Bianchi, leggiamo: «Il Signor Bianchi nelle Novelle Letterarie di Firenze ha pur tentato d’illustrare questa iscrizione» (cfr. Storia letteraria d’Italia, I, presso Pietro Bossaglia, Venezia 1750, p. 263). Nella seconda, in riferimento (anonimo) ad altro testo planchiano apparso sulle «Novelle» del 1748 (IX, n. 51, 29 novembre, coll. 801-807), si dichiara (cfr. Storia letteraria d’Italia, I, p. 300) che «un Medico, a cui è saltato in capo di far da antiquario», aveva stampato i due pezzi di un’iscrizione, non accorgendosi «che andavano uniti, e formavano una sola lapida». Zaccaria cita dalla col. 803 delle «Novelle». Bianchi è ricordato pure a p. 135 di questo primo volume della Storia letteraria d’Italia, per il suo cit. De monstris ac monstrosis quibusdam.
Il dottor Bianchi si difese sostenendo che i migliori studiosi d’Antiquaria erano stati proprio dei medici come lui («Novelle», XIII, n. 23, col. 362, cit.). L’autore della Storia letteraria, come si è detto, era il gesuita Zaccaria (1714-1795). Lo sapeva bene anche Bianchi: «Molti attribuiscono questa Storia d’Italia fatta con tanta ignoranza al padre Zaccheria Gesuita». Così leggiamo nella c. 1v del ms. originale della Lettera (fasc. 222, FGMB). Il nome esatto Zaccaria invece appare nel ricordato testo a stampa delle «Novelle» (XIII, n. 23, col. 362, cit.), con correzione ovviamente attuata da Lami. Il giudizio di Bianchi su Zaccaria concorda con quello manifestato da Lami nello stesso tomo XIII (n. 7, 18 febbraio 1752, coll. 104-109), dove leggiamo alla col. 109 che già in precedenza («Novelle», XII, n. 12, 19 marzo 1751, coll. 177-186; n. 13, 26 marzo, coll. 193-199; n. 14, 2 aprile, coll. 209-215), il Novellista fiorentino aveva criticato l’autore della Storia letteraria come «non molto pratico della Storia Ecclesiastica, e degli eccellenti Scrittori, che di quella hanno trattato», e come scarso conoscitore di Greco (in cui «mostrava d’aver poca malizia») e di Latino. L’articolo del 1751 è una lettera di Lami diretta a padre Tommaso Maria Mamachi, domenicano, bibliotecario della Casanatense di Roma. Altri accenni polemici di Lami contro Zaccaria sono nelle «Novelle» dello stesso 1751, alle coll. 675-677 e 686 (n. 43, 22 ottobre), 752 (n. 47, 19 novembre).
Planco nella sua risposta a Zaccaria sostiene che, per fare una storia letteraria, «non ci vuole il solo capitale di quattro ciance volgari» come nell’opera veneziana, «ma bisogna essere versato in tutte le scienze, e in oltre bisogna sapere bene le lingue de’ Dotti, vale a dire la Greca, e la Latina, ed anche le antiche d’Oriente, non meno che molte delle moderne d’Occidente». Infine per poter più liberamente attaccare l’autore della Storia letteraria, Bianchi sostiene che non potevano essere tali né Zaccaria né altro padre gesuita perché nessun seguace di sant’Ignazio avrebbe scritto in quella forma e con «tanta ignoranza», in quanto «i Gesuiti sono persone dotte e colte, che si pregiano più che altro di usare civiltà e gentilezza con ognuno, non che con i Letterati, che non gli hanno mai offesi». Bianchi dichiara di sospettare qualcuno dei suoi soliti «saputelli calunniatori» che avevano agito sempre con nomi finti o anonimi come l’autore della Storia letteraria che in nessun luogo dei primi tre tomi si era mai «arrischiato di svelare il suo vero nome». Planco riconosce che negli ultimi due tomi quell’autore «pare un poco più moderato» verso di lui, anche se dimostra d’avere ancora «una certa rabbietta, ed amarulenza», dato che non parla mai bene di lui se non «a mezza bocca, e quasi per forza». Zaccaria infatti ha non soltanto tralasciato di ricordare le «principali scoperte» di Bianchi in materia d’antichità, e le altre sue cose «in materia filosofica, e medica»; ma ha anche preso lo spunto da un’orazione di Bianchi per le esequie di padre Chiappini, generale della congregazione lateranense, per attaccare il riminese (cfr. Storia letteraria d’Italia, III, Venezia 1752, p. 578). Secondo Zaccaria, Bianchi aveva approfittato dell’occasione più per parlare di se stesso e dei suoi studi, che del prelato defunto. Bianchi nel suo scritto su padre Chiappini, apparso a Faenza nel 1751, dopo esser stato letto a Rimini nella canonica della chiesa di San Marino, scriveva infatti Zaccaria, «anzi che le geste del morto P. Chiappini, sembra aver preteso di celebrare colla sua polita orazione i lodevolissimi studj dell’Antichità, e della Storia Naturale, e modestamente anche in se stesso».
Bianchi risponde: facendo ciò, l’autore della Storia letteraria, oltre a dimostrare «ignoranza e malvagità», aveva palesato di non essere un gesuita, perché se fosse stato tale avrebbe saputo che l’arte retorica permette di elogiare gli studi di una materia per poi «mostrare, quanto era da commendarsi quegli, che in essa era stato versato eccellentemente, il che fu fatto, come ognun sa dottamente anche da Cicerone», nella sua orazione per il poeta Archia. Bianchi definisce l’autore della Storia letteraria come «un miserabile copista» da novelle e giornali, «non veggendo egli mai alcuna cosa nell’originale»: «e crediamo con alcuni, i quali giustamente pensano, che sia meglio esser biasimato da lui, che l’esser lodato». Nell’ultima parte della Lettera, Bianchi spiega dapprima di aver scritto poco di cose antiche negli ultimi tempi, perché tutto preso dagli studi «principali, e più graditi, della Filosofia, della Medicina, e della Storia Naturale, nelle quali cose» aveva mandato fuori qualche sua «produzione». Poi illustra alcuni ritrovamenti archeologici riminesi.
Quando Planco sostiene che Zaccaria aveva riferito di lui con «una certa rabbietta, ed amarulenza», non parlandone mai bene se non «a mezza bocca, e quasi per forza», si riferiva a quanto apparso nella Storia letteraria del 1751. Qui (alle pp. 304-305) Zaccaria riprende dalle «Novelle» dell’anno precedente (XI, n. 5, 30 gennaio 1750, col. 65), la recensione di uno scritto del senese Giovanni Girolamo Carli contro Bianchi, dove si legge che il medico riminese, quando fu professore d’Anatomia a Siena, «non incontrò molto il genio di que’ Cittadini». Per la verità Carli aveva anche aggiunto altre due cose: «Io non voglio entrare in questa controversia, sapendo che il Signor Bianchi sa maneggiare molto bene la spada letteraria, con cui uno suol difendersi in queste tenzoni». Poi aveva scritto in difesa di Bianchi, accusato di sapere soltanto «quattro parole di greco»: «Buono per la nostra Toscana, se ci fossero due dozzine di persone che sapessero di Greco quanto il Signor Dottor Bianchi». Carli esamina la cit. autobiografia latina pubblicata nel 1742 e la successiva Epistola Apologetica pro Jano Planco ad Anony-mum Bono-niensem, firmata da Bianchi con lo pseudonimo di Simone Cosmopolita (Albertini, Rimini 1745), il cui ms. ènel Minutario di Planco, ms. 969 (BGR), a partire dalla c. 428. L'Epistola era rivolta a Girolamo Del Buono, autore di un attacco all'autobiografia latina di Planco, ap-parso a Mo-dena nello stesso 1745. A proposito dello scritto di Carli, Zaccaria osserva che esso era caratterizzato da uno stile «un po’ amaro», aggiungendo: «Noi vorremmo, che gli scrittori cristiani non in parole, ma co’ fatti si mostrassero persuasi della verace carità, che dall’altre sette ne dee più che altra cosa distinguere». Ma di questa regola, lo Zaccaria non è rispettoso proprio con Bianchi, laddove osserva che il gazzettiere fiorentino pubblicava le notizie inviategli da Bianchi per riempire «senza molta sua fatica» i propri fogli (cfr. Storia letteraria d’Italia, III, p. 664).
Dopo la pubblicazione della Lettera ad un amico di Firenze intorno varie cose d’Antichità sulle «Novelle» del 9 giugno 1752, Zaccaria replica indirettamente a Bianchi in una epistola diretta al ricordato Giovanni Girolamo Carli (cfr. Storia letteraria d’Italia, IV, 1753, pp. 438-441), facendo ricorso al solito umore polemico intriso di sarcasmo e toni pungenti. Nel richiamarsi appunto alle «Novelle» del 1752, col. 360, dove si trova la cit. Lettera ad un amicodi Firenze, Zaccaria scrive: «Voi potrete farvi sopra delle Riflessioni assai gioconde, e che daranno gran risalto al merito di quest’Eroe dell’Italica Letteratura». Inoltre Zaccaria ironizza sulla «rara umiltà di Bianchi», e dichiara di non essere abituato, come pensava Planco, ad «attaccare i principali letterati d’Italia». Aggiunge Zaccaria: il medico riminese «stampò due pezzi d’una iscrizione», non accorgendosi «che andavano uniti, e formavano una sola lapida»; e «bisognerà finalmente osservare, che questa lettera del Planco è stata dall’autore letta nell’Accademia dei lincei. Bell’esemplare di Cristiana umiltà, e carità da proporsi ad un’Accademia». In fondo al volume, circa le molte correzioni a cui era stato costretto (pp. 445-473), Zaccaria polemizza con Lami (che aveva già segnalato alcuni errori sulle «Novelle») e di riflesso con Bianchi: il fiorentino «si potrà far’ajutared anche da Giano Planco, il quale già ha cominciato a farci questa carità. Dio gnene rimeriti» (p. 474). Lo stesso umore polemico traspare pure nella recensione di Zaccaria al linceo Discorso sull’arte comica di Bianchi- (cfr. Storia letteraria d’Italia, V, 1754, pp. 67-68):

Noi da questo discorso trascerremo alcune cose, che faranno conoscere l’ingegno, e il giudizio del Ragionatore […]. Il buono è, che a più d’uno metterà scrupolo il libro del P. Concina su Teatri; se nò, qual comico furore non comprenderebbe gli animi de’ Riminesi da tante efficaci ragioni penetrati e vinti? Ma adagio. Ecco lo sforzo d’ingegno del Nostro Autore.

Richiamando il passo del Discorso planchiano dove si parla della sepoltura degli attori («l’invitta e gloriosa Nazion Britannica non ha avuto difficoltà di fare seppellire solennemente in Londra nella cattedrale di Westimster, Chiesa, dove si coronano, e dove si sepelliscono i loro Re, la valorosa e ricchissima non men che bella loro Attrice Madamigella d’Oldfield, rendendole in morte per poco i medesimi onori, che poc’anzi renduti aveano all’immortale loro Filosofo Newton», pp. 18-19), Zaccaria scrive:

O questa niuno se la sarebbe aspettata, che si paragonasse la Chiesa Gallicana all’Anglicana de’ nostri tempi, e che si volesse questa migliore interprete de’ Sacri Canoni, che quella. Ma il Nostro Autore l’ha saputa trovare questa sì bella, e rara risposta.

Nel 1763 Zaccaria entrerà con Bianchi in un cordiale rapporto epistolare, durato sino al giugno 1768. Nella sua ultima lettera, Zaccaria definisce Planco «un letterato sì celebre». Nella prima (del 23 novembre 1763) gli aveva scritto in latino, tanto per cominciar discorso, che pur avendolo qualche volta, ma senza malevolenza, contestato nella Storia letteraria, tuttavia lo aveva sempre considerato uomo dalla dottrina molteplice e di grande valore, non facendo finta di non riconoscerla. E che se lo aveva attaccato era stato soltanto perché Planco era in strettissimo legame con il loro «assai aspro persecutore», cioè il responsabile delle «Novelle» fiorentine Giovanni Lami.
Bianchi rispose, sempre in latino, con spirito di riconciliazione, che era stato amico ma non socio di Lami, aggiungendo per chiudere il discorso: «Litterae in honestis hominibus verum inimicitiam non pariunt» (cfr. Minutario 1761-75, SC-MS. 971, BGR, 29 novembre 1763, c. 170v). Bianchi il 3 dicembre (ibid., c. 172r) propose a Zaccaria di pubblicare le loro due epistole latine «in qualche giornale». Ricevutone un rifiuto, Planco commenta (20 dicembre, ibid., c. 175v) nella sua risposta a Zaccaria che «forse sarà bene a non toccar niente mai di alcune dispute del passato».
Prima di questo rapporto epistolare, Zaccaria nello stesso anno aveva parlato nuovamente di Bianchi nel suo anonimo Supplemento a tre primi volumi della Storia letteraria d’Italia (presso Benedini, Lucca) quasi prendendo le difese di Planco. (Circa la paternità del Supplemento, gliela attribuisce la «scheda Gambetti» n. 133, BGR.) Riferendosi al passo in cui aveva scritto (Storia letteraria, I, cit. p. 300) di quel «Medico, a cui è saltato in capo di far da antiquario», e che aveva stampato i due pezzi di un’iscrizione non accorgendosi «che andavano uniti, e formavano una sola lapida», Zaccaria sosteneva nel Supplemento (pp. 295-301) che la definizione aveva un «tratto di disprezzo, e quasi strapazzo del valoroso Sig. Dottor Bianchi». Del quale dice trattarsi di autore «celebre al mondo per varie sue Opere, nelle quali abbondante saggio ha dato del suo raro talento ed erudizione». Addirittura, Zaccaria arriva a scrivere (p. 296, nota a) che una parte della sua polemica nel volume della Storia letteraria del 1750 contro Bianchi era «una falsissima accusa», dalla quale lo stesso «letterato» riminese avrebbe saputo «abbastanza difendersi per ogni lato».
Riepilogando gli antefatti, Zaccaria ricorda che, per reazione alla sua recensione della Storia letteraria del 1750, «l’oltraggiato Sig. Dottor Bianchi scrisse e recitò nella sua Accademia de’ Lincei una lettera assai rissentita contro lo storico», cioè lo stesso Zaccaria. Lettera che poi fu pubblicata dal «Novellista fiorentino» nel n. 23 del 1752. La conclusione dell’articolo di Zaccaria nel Supplemento è una autodifesa del proprio operato, ispirato a «molta cognizione» ed a «buona critica», al punto di confidare al lettore: «Compatisco poi il Dottor Bianchi» per certe espressioni usate contro l’Anonimo compositore della Storia letteraria, «che so di certo essere in realtà, anzi spacciarsi egli medesimo, per Autore» dell’opera stessa. Circa altre «verità assai lampanti e irrefragabili» offerte da Bianchi, Zaccaria dichiara di doverle sottoscrivere. Ma non è questo l’ultimo accenno del Supplemento a Bianchi, perché altrove, riprendendo il discorso sulla cit. biografia di padre Chiappini composta dal riminese, Zaccaria accusa Planco di non aver rimarcato l’«attaccamento eccessivo» di padre Chiappini «al sistema» dei Gesuiti. A proposito dei Gesuiti, merita di essere ricordato quanto scriveva Bianchi allo stesso padre Zaccaria nella sua seconda lettera (3 dicembre 1763, cfr. SC-MS. 971, cit., cc. 172rv), laddove propone di pubblicare le loro due epistole latine «in qualche giornale»:

Potrei ripulire un poco più la mia, ed accrescerla col mostrare che io non sono mai stato contrario alla Compagnia, benché io sia stato amico del Lami, della cui amicizia io non mi prevaleva che per far riferire quelle coserelle che andava pubblicando, o ritrovando. […] Se io anche fossi stato contrario alla Compagnia, ora io non lo sarei più per non fare da persecutore, non essendo in me mai stato questo spirito di persecuzione, ma quello d’umanità, e di cortesia, solendo io dire […] che umana cosa è l’aver compassione degli afflitti, e aggiungendo che non bisogna mai aggiungere afflizione all’afflitto, essendo questa una crudele ferita; per la qual cosa io non avrei mai speso un soldo in que’ tanti libri che sono usciti, e che escono tutto giorno contro de’ Gesuiti, dicendo con tutti che è una perdita di danaro ed una perdita di tempo il far questo, non contenendo tali libri il più che cose rifritte da cento e più anni sono.

Per restare nel tema relativo ai Gesuiti, ricordiamo che a Giuseppe Garampi, in lettera del 4 gennaio 1768 (SC-MS. 208, cit.), Bianchi ribadisce di non aver voluto unirsi «cogli altri in quella persecuzione» contro di loro.
Dissertazioni n. 31 e n. 32: il 18 aprile 1755, Planco presenta due sue epistole mediche, la prima sull’«urina con sedimento ceruleo» 193, e la seconda sulle polemiche relative al caso Pilastri, già trattato il 28 maggio 1751. Alle due epistole, Bianchi premette una prefazione in italiano in cui spiega che le adunanze dei Lincei non sono frequenti perché molti accademici abitano fuori Rimini, dove esistono poi varie scuole, al posto di quella unica di Planco, che forniva ai Lincei medesimi parecchi relatori 194. Qui finiscono le notizie del Codex.
Tra le carte planchiane conservate in Gambalunghiana (FGMB), ci sono tre fascicoli che rimandano a probabili dissertazioni accademiche. Nel n. 61 si ripropone un testo di carattere religioso già letto in pubblico ben ventidue anni prima, con una premessa di Bianchi sui pregi della vecchiaia e della «cattiva memoria» che reca «grandissimi vantaggi», come il gustare la riproposta di cose antiche che non si ricordano più. Nel n. 65, c’è il Discorso sopra il problema dell’Accademia, che abbiamo già mentovato. Del n. 75, intitolato Congressi letterari della nostra Accademia (1761), diremo invece più avanti.


7. Bianchi e Morgagni

Dal punto di vista scientifico, la dissertazione lincea più importante, è certamente quella planchiana del 28 maggio 1751, n. 21, relativa all’esame anatomico riguardante il contino Pilastri, morto «ex Apostemate in lobo destro Cerebelli». E’ un tema celebre nella storia personale di Bianchi come studioso di Anatomia. Planco qui dimostra

che una lesione del cervelletto provoca una paralisi nel corpo dalla stessa parte del lobo offeso, non in quella opposta come accade per il cervello. Considerata oggi il suo capolavoro scientifico, la Storia non fu allora accolta positivamente dal mondo medico con l’eccezione di Morgagni. I rapporti epistolari tra Bianchi e Morgagni sono comunque anteriori alla pubblicazione della Storia: Morgagni gli aveva già scritto che Antonio Maria Valsalva, proprio maestro, morto nel 1723, aveva sostenuto la diversità tra cervello e cervelletto circa le conseguenze delle ‘offese’ a questi organi, fornendone «la vera dimostrazione anatomica e clinica del fatto» nel De Aure humana tractatus. Ricevuta la Storia, Morgagni nell’aprile 1752 scrive a Bianchi: «A me parve degna di lode la Diligenza di Lei in riosservare attentamente ciò che tanti altri Notomisti osservando, non avevano con pari esattezza descritto [...]». Quel «riosservare» è un ironico accenno, in sintonia con il carattere ilare di Morgagni, ad una ‘scoperta dell’acqua calda’ fatta da Bianchi? Probabilmente Morgagni attribuiva a Planco soltanto il merito di aver messo in ordine notizie già acquisite, ma non da tutti accettate 195.

Alla lettura nel consesso accademico di questa dissertazione sulla malattia del contino Pilastri, Bianchi fa precedere un prologo 196, dove osserva che

due cose principalmente in questa sezione impariamo; una in proposito della Dottrina Pratica nella Medicina, e l’altra in proposito, o per meglio dire, contro della Teorica comunemente nella Filosofia, e nella Medicina ricevuta; per la qual cosa questa sezione meriterà che la pubblica luce vegga, tanto più che sarà corredata da alcune altre mie osservazioni particolari, che feci con diligenza sopra la strottura delle parti che osservai, le quali grossolanamente ne’ Libri sono descritte, e delineate, avendone io fatta fare del nostro diligentissimo Academico Sig. Abb. Battarra 197 la tavola la quale in fine di questa storia vedrassi; e questa storia facilmente io volterò in latino togliendoci da essa alcune cose di contesa, che io ebbi con i Medici di Cesena, giacché queste poco servirebbero al fatto delle mie osservazioni, e delle mie scoperte, ma questa sera io reciterò la storia in lingua Toscana, cioè tale, e quale io la scrissi allora.


8. Sul fine delle Accademie

Nello stesso «prologo Pilastri», Bianchi tratta anche dell’attività dei Lincei riminesi, facendone una specie di bilancio. Egli ricorda che, su suo consiglio, sùbito dopo la fondazione, alcuni degli Accademici «lodarono allora con loro dissertazioni, chi la Filosofia in generale, chi le Matematiche scienze, e chi l’utilità della Lingua Greca» 198. Qualche pagina dopo, esamina il fine per il quale

sembra che le Academie siano principalmente state fondate, cioè o perché cose nuove, per beneficio del Publico si ritrovino, o che le già ritrovate con nuove Osservazioni s’accrescano, e si migliorino, e non perché ci fermiano solamente a lodare in generale le cose, che si fanno, o che rifriggiamo le cose già dette da cent’altri, benché il far questo anche per li meno ammaestrati non sia del tutto disutile, o meglio sia che l’affatto tacersi, e nel vile ozio marcirsi.

Già un mese prima, il 30 aprile 1751 in occasione del «prologo Zamponi», come si è visto, Bianchi aveva messo sotto accusa il disinteresse dimostrato dagli accademici verso le sue radunanze. Nel «prologo Pilastri», il rimprovero che accenna al «vile ozio» è meno severo e polemico, anche soprattutto perché le parole di Bianchi assumono un tono più scientifico, inquadrate come sono all’interno di un tema frequentemente trattato in quel secolo, quello sul fine delle Accademie. Ne aveva parlato nel 1703 Lodovico Antonio Muratori, con i Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia 199; e ne discuterà nel 1776 Amaduzzi, riproponendo l’esempio dei Lincei di Cesi, «la primogenita di tutte le Accademie scientifiche, che fu cuna d’una migliore Filosofia» 200.


9. Le rivoluzione anatomica

Riferendosi ai propri Lincei, nel «prologo Pilastri» Planco scrive inoltre che, pur essendo le «cose di Notomia» state trattate «in queste nostre Raggunanze varie volte», mai però nessuno ha «lo studio della Notomia generalmente commendato». Il rimprovero è attenuato da un’aggiunta: «questo veramente potrebbe sembrare essere stato fatto, perché [...] non avesse mestieri d’alcuna nostra commendazione». In genere nelle «altre Città minori», prosegue Bianchi, questa disciplina era trascurata. Non così è successo a Rimini, grazie al vescovo Davìa il quale aveva chiamato in città il medico Leprotti, «celebre Notomista» che «moltissime sezioni di cadaveri umani qui fece», avendo come allievo lo stesso Planco. Bianchi infine ricorda:

sembra che la Notomia in Arimino mestier non dovesse avere di commendazione alcuna, giacché i buoni studj tutti dovrebbero essere in grande onore avuti, e tra questi la Notomia massimamente, ma pure con mio dispiacere debbo dire, che essa insieme con altri buoni studj, non è in quel grado avuta, che una tanta cosa si dovrebbe avere, essendovi chi per una cosa schifosa, e semplicemente curiosa, e di niun’utile la tengano, e chi altre strane opinioni d’essa [h]anno, che qui non fa luogo a rammentare, ma che danno bensì un grandissimo argomento della Barbarie di quei, che le portano.

Questa appassionata difesa della «necessarissima scienza» dell’Anatomia, oltre agli aspetti autobiografici relativi all’esperienza senese ricordata nello stesso «prologo Pilastri» 201, ed all’attività accademica riminese, ci rimanda pure ad un discorso più generale che richiede un breve accenno, necessario anche per inquadrare gli aspetti personali appena ricordati. In genere, nei confronti dell’Anatomia, in quei momenti si manifestava una sostanziale ostilità per motivi diversi e convergenti nello stesso tempo, molto bene spiegati da Elena Brambilla 202 in una pagina dove si fanno queste tre fondamentali osservazioni: l’Anatomia «metteva in forse la distinzione di rango tra medici e chirurghi, professione liberale ed arte meccanica, nobiltà della teoria e viltà del lavoro manuale»; la sua pratica «vedeva scontrarsi, sul cadavere, la competenza del medico con quella del prete, il rito funebre contrastare il passo all’autopsia» 203; infine, «su quello stesso cadavere la teoria poteva essere smentita dalla pratica, e il paradigma medico, con le sue radici filosofico-teologiche nell’invisibile, essere confutato dall’osservazione visibile». Quest’ultimo aspetto interessa particolarmente il nostro discorso, perché ci permette di cogliere tutta la forza rivoluzionaria che la pratica anatomica porta con sé. Essa infatti rovescia la metodica delle conoscenze: non si parte più dalla pagina scritta per applicare al caso esaminato le indicazioni teoriche consacrate dalla tradizione, ma con l’osservazione diretta attuata mediante la dissezione del cadavere, si inizia il procedimento che vuole concludersi nella descrizione di un rapporto causa-effetto. In tal modo, si demolisce il castello dell’ortodossia scolastico-aristotelica, affermando la necessità di una nuova «base filosofica della medicina pratica», e propugnando un’«emancipazione delle scienze fisiche dalla teologia» 204.
E’ fondamentale notare come la scienza medica, agli inizi del Settecento, sia arretrata rispetto ad altri settori della conoscenza quali quelli frequentati, ad esempio, da Muratori che, nelle Riflessionisopra il buon gusto intorno le scienze e le arti (1708), traccia un itinerario con cui si rovesciano i procedimenti convenzionali, e si permette al filosofo di approdare «col raziocinio» a «verità nuove o pruove e ragioni e notizie non prima udite, non prima osservate, e per avventura correttive de’ dogmi antecedenti» 205. Questa concezione della Filosofia, nel sistema delle relazioni interne che uniscono le varie linee parallele del sapere, si presenta come elemento che, anziché segnare le rispettive differenze, ne sottolinea i denominatori comuni, in quella prospettiva che oggi a noi pare come un rinnovamento radicale delle conoscenze, e che parte dalla grande lezione della Risposta apologetica di Malpighi,il quale annunciava: «l’osservare non è mestiere così facile, come altri pensa», in quanto «vi vogliono grandissime cognizioni per dirigere il metodo, copiosissima serie d’osservazioni per vedere la catena e il filo che unisce il tutto, una mente disappassionata con finezza di giudizio» 206.
Perché la rivoluzione della Nuova Scienza potesse agire nella cultura e nella società, occorreva modificare la ratio studiorum delle facoltà universitarie, passando da un tipo di erudizione come sistema di contenuti, ad un modello di erudizione come «metodo, contrapposto a quello del commento e dell’amplificazione retorica delle auctoritates, da applicare allo studio dei documenti della natura non meno che della scrittura» 207. E’ in fin dei conti quello stesso metodo che Muratori, nelle parole che abbiamo riportato dalle Riflessioni, delinea per il «vero erudito» che «altri non può essere che il filosofo». Su questo sfondo vanno collocate l’esperienza personale e quella lincea di Planco specialista in Notomia, ma nello stesso tempo preoccupato di non tralasciare «altre cose d’erudizione in generale», come leggiamo in un suo testo del 1761, significativamente intitolato Congressi letterari della nostra Accademia (fasc. 75, FGMB). Qui egli si preoccupa di segnare i limiti della propria esperienza di maestro, quando precisa che nelle varie radunanze non si trattano questioni o materie in particolare, perché esse richiedono

che pensiamo gli argomenti da noi medesimi, e che con nostre proprie ragioni ed osservazioni gli confermiamo, il che quanto sia malagevole a farsi, ognuno da se il può comprendere, e la sperienza continova il dimostra, la quale fa vedere che eziandio nelle più copiose Accademie d’Europa, quali sono quelle di Parigi, di Londra, di Pietroburgo, di Berlino, di Bologna, pochissime sono le dissertazioni di quegli accademici sopra cose particolari, e che contengano veramente qualche cosa di nuovo e di particolare.

La limitatezza dell’ambiente riminese da una parte, e dall’altra la pretesa di paragonarsi con istituzioni non soltanto più illustri ma anche di più ampio respiro, costituiscono un’evidente contraddizione che Bianchi in sede ufficiale tralascia. Egli comunque avverte la distanza tra la funzione pedagogica, di grande rilievo storico, che giustamente si attribuisce, ed i risultati concreti i quali, mentre essa si svolge, non possono che essere generalmente ridotti rispetto alle sue aspirazioni.


10. Sulla crisi dei Lincei, 1761

Nei Congressi letterari del 1761 (che attestano un’attività accademica successiva al 18 aprile 1755, in cui furono tenute le due ultime dissertazioni registrate negli atti planchiani), Bianchi riprende il tema della crisi dei Lincei, già accennato in altre due occasioni, come abbiamo visto: nel 1751 con il «prologo Zamponi» 208, a proposito della negligenza degli Accademici che intervenivano raramente alle radunanze; e nel 1755, con la prefazione a due sue epistole mediche 209, sulle adunanze non frequenti perché molti accademici abitavano fuori Rimini. Forse a tale crisi è legata l’accettazione da parte di Planco, nel 1756, della carica di principe dell’accademia modenese dei «Medici Conghietturanti» 210.
«Recherà forse meraviglia», dichiara Bianchi all’inizio dei Congressi letterari, «che dopo due anni io ora torni ad aprire i congressi letterari della nostra accademia, ma i meglio informati non si maraviglieranno punto, considerando che molti de nostri accademici sono in altri luoghi trapassati, ed alcuni anche sin morti, onde solamente qui in due i tre siamo rimasti». Ma costoro, aggiunge Bianchi, sono tutti occupati «in molti affari e di premura», per cui non possono comporre

dissertazioni da recitarsi qui ogni settimana, come quando eravamo molti, una volta si faceva, od in ispazi di tempo più lunghi, come dopo s’incominciò a fare, avendo osservato che sul principio tanto i nostri accademici di Rimino quanto quei di fuori componevano più facilmente loro dissertazioni da recitarsi qui, perché io aveva loro suggeriti argomenti generali per far vedere al Pubblico l’utilità della geometria, o quella della fisica, o della lingua greca, o della poesia, o della musica, o d’altra scienza, o d’altre cose d’erudizione in generale [...].

Sottolineando il rapporto che è sempre esistito fra l’Accademia ed i propri allievi, Planco scrive 211:

ho procurato che i Giovani della nostra Scuola espongano varie Tesi e che le difendano per avvezzarli ad essere atti a tratar cose particolari, quando nell’età saranno più maturi, ed alcuni in questo non piccola disposizione dimostravano animati anche dalla presenza di valorosi uditori, che loro applaudivano, ma essendo mancato anche questa, essi sembra, che si sieno, come raffreddati, onde io non so come anderemo avanti, tanto più che nella Città nostra essendo ora cresciuto il numero delle Scuole, queste vengono a distruggersi l’una coll’altra per la scarsezza degli Uditori, che ha ciascuna, né per avventura possono i Giovani ricevere que’ Lumi, che una volta da una sola copiosamente ricevevano. Ma di questo sia come si voglia, finché io avrò vita non cesserò giammai di animare la Gioventù, che mi frequenterà ai buoni studi, e quando per me si potrà, aprirò i pubblici Congressi della nostra Accademia facendo anche pubbliche le cose particolari, che in essa da me, o da altri si reciteranno.

La missione educativa che Bianchi ha sempre svolto e di cui andava giustamente orgoglioso, lo ha portato a pubblicare nel 1751 un elenco dei propri scolari, dove incontriamo nomi di personaggi divenuti importati a livello nazionale e locale, in ambito religioso, culturale o medico 212. A quell’elenco, dobbiamo aggiungere un altro nome, quello già più volte ricordato di Giovanni Cristofano Amaduzzi 213, protagonista non sempre riconosciuto della scena religiosa e culturale della fine del secolo XVIII, per il suo ruolo tra i cosiddetti giansenisti italiani, e per i tre Discorsi filosofici con cui rovescia le posizioni emergenti dalle leggi accademiche planchiane, e si fa portavoce delle istanze del nuovo pensiero, incontrando pericolose opposizioni, e subendo violenti attacchi da cui lo salva il suo essere romagnolo come il pontefice di allora, il cesenate Pio VI. Fu Amaduzzi, come racconta una minuscola biografia di Planco attribuita a Battarra 214, a far ottenere al proprio maestro da un altro papa romagnolo, Clemente XIV, il raddoppio dello stipendio e la nomina a medico segreto onorario del pontefice 215. A sua volta Bianchi, citando i favori ricevuti da Clemente XIV, inserisce anche i due incarichi attribuiti dal papa ad Amaduzzi: la cattedra di Greco alla Sapienza, e la Soprintendenza della Stamperia di Propaganda Fide 216.
Amaduzzi, per ragioni anagrafiche (è nato nel 1740) appartiene alla generazione successiva a quella degli accademici planchiani, tra cui figura lo stesso Battarra, scienziato degno di citazione, ed il cui nome serve sia per dimostrare gli effetti dell’insegnamento di Bianchi, sia per attestare il superamento dei limiti teorici e dottrinali dei Lincei, così come essi appaiono dalle loro Leggi. Battarra, ad esempio, scopre che la generazione dei funghi avviene «per semenza e non spontaneamente dalla putredine» 217, applicando correttamente il metodo di indagine sperimentale nei confronti di quella Natura che, con i suoi misteri, tanto appassiona Planco. Ha un preciso significato il fatto che la prima dissertazione lincea in assoluto sia quella (sinora sconosciuta) di Battarra, De praestantia Scientiae Botanicae, et de natura et viribus plantarum.
Su come Bianchi intendesse la Natura ed il rapporto che con essa stabilisce lo scienziato, c’è una sua illuminate osservazione nel «prologo Zamponi», dove egli si chiede come facciano i vermi ad entrare nel nostro corpo: «[...] col tempo si verrà in chiaro anche di questa cosa; giacché la Natura pare che ami di far palesi a poco a poco i suoi segreti» 218. E’ una sentenza che, con una formula di apparente perfezione, sembra sigillare tutto il discorso scientifico in una solennità che dovrebbe spingerci a considerare la Natura quale depositaria della Sapienza da essa somministrataci. L’opinione di Planco rimanda al pensiero di Epicuro, secondo cui le cose si rivelano a noi attraverso il «flusso» che esse emettono 219; pensiero che Bianchi aveva conosciuto certamente attraverso Diogene Laerzio: «è per la penetrazione in noi di qualcosa dall’esterno che vediamo le figure delle cose e le facciamo oggetto del nostro pensiero» 220. Quanto l’immagine offertaci da Bianchi sia distante dalle pagine che in quegli anni apparivano nell’Encyclopédie, lo dice il confronto di essa con una semplice citazione da Diderot 221:

Noi disponiamo di tre mezzi principali: l’osservazione della natura, la riflessione e l’esperimento. L’osservazione raccoglie i fatti; la riflessione li combina; l’esperimento verifica il risultato di questa combinazione. Occorre che l’osservazione della natura sia assidua, che la riflessione sia profonda e che l’esperienza sia esatta. Di rado si trovano uniti questi mezzi; ed anche i geni creatori non sono comuni.

Non soltanto per quella condizione di contraddittorietà che sembra segnare ogni umana esperienza, ma anche per la dialettica tra gli opposti che influenza inevitabilmente ogni cammino culturale, Planco da un lato rimanda ad un pensiero antico, più da erudito “alla vecchia maniera” che da vero scienziato moderno; e dall’altro con le sue indagini si oppone a tutti i sistemi superati o tradizionali della Filosofia, soprattutto a quelli aristotelico-tomisti, come abbiamo visto a proposito del De monstris. In quest’ultima opera egli inoltre dimostra essere inaccettabile la visione moderna d’un Leibnitz che teorizzava l’armonia universale in nome del principio che «natura non facit saltus» (Nuovi saggi, IV, 16). I casi che Bianchi presenta, smentiscono senza clamore, ma pericolosamente rispetto all’ortodossia cattolica, ogni presupposto metafisico di quest’armonia. E lo avvicinano al naturalismo al quale Gassendi aveva aperto una nuova strada, con la rivalutazione di Epicuro 222, proprio in contemporanea all’operato di Voltaire il quale nel 1759 in Candide, mediante la figura caricaturale di Pangloss 223, demolisce ogni concezione ottimistica.
Bianchi raggiunge lo stesso risultato procedendo attraverso la ricerca scientifica, con un itinerario sempre oscillante tra linee divergenti, ma senza però interpretare i significati dei risultati a cui perviene sotto l’aspetto filosofico, e forse senza essere del tutto consapevole del carattere eversivo dei suoi studi. Nell’identificare la Filosofia con la Scienza, egli sfugge al dilemma metafisico che la prima comporta, mentre la seconda gli appariva slegata rispetto alla Religione né coinvolgente sul piano teologico. In questo modo, aldilà dei limiti soggettivi che sono conseguenza di quello che abbiamo definito il suo «errore epistemologico», Planco manifesta un comportamento che lo accomuna a tanti altri intellettuali del suo tempo, ben rilevabile da questo passo di Eugenio Garin:

chiaramente si mostra come nei «moderni» fisica cartesiana e movimento epicureo-lucreziano-gassendista tendessero a concorrere a un medesimo punto, per andare ad incontrarsi con l’eredità galileiana e magari ad alimentarsi finalmente delle conclusioni della filosofia della natura di Telesio, Bruno e Campanella. Sì che il Vico riusciva ad istituire un paragone, che era un riavvicinamento, tra Renato ed Epicuro, essendo a suo parere la fisica del primo «macchinata sopra un disegno simile a quello di Epicuro» 224.

La passione erudita non faceva cogliere a Planco l’inconciliabilità tra i contenuti dell’opera di Lucrezio e la dottrina cristiana. Il culto della poesia, così forte in Bianchi, lo portava a tradurre anche quest’autore 225, dove però non poteva trovare né spunto né conferma ai propri studi, come dimostra proprio la questione dei mostri che nel De rerum natura è considerata quale momento iniziale della lenta formazione della specie 226:

Cetera de genere hoc monstra ac portenta creabat,
nequiquam, quoniam natura absterruit actum
nec potuere cupitum aetatis tangere florem
nec reperire cibum nec iungi per Veneris res 227.

Queste dissonanze riflettono i segni di un cammino non soltanto personale, ma più generale della cultura settecentesca, alla cui storia appartiene pure l’avventura dei Lincei riminesi 228. Proprio per questi motivi, essa non va ridotta ad un episodio tra lo stravagante ed il pretenzioso, essendo qualcosa di più che un fenomeno di esibizionismo culturale, come talvolta è stata considerata.


ALLE NOTE DI QUESTO TESTO.

Ringrazio sentitamente per la preziosa collaborazione ricevuta, la dottoressa Paola Delbianco, benemerita responsabile della sezione manoscritti e fondi antichi della BGR; la dottoressa Cecilia Antoni, della stessa BGR; il prof. conte Gian Ludovico Masetti Zannini; il prof. Dino Pieri, segretario della Società di Studi Romagnoli, per avermi suggerito di partecipare al Convegno sulle Accademie romagnole, con una comunicazione da cui è nato questo scritto; lo storico dottor Enzo Pruccoli di Rimini, per il materiale fornitomi; l’Accademia dei Lincei di Roma nelle persone delle dottoresse Ada Baccari, direttore della Segreteria, e Rita Zanatta dell’Archivio; la dottoressa Maria Chiara Roncuzzi, al tempo, della Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone; i servizi di prestito interbibliotecario della BGR, della biblioteca comunale di Faenza, e della biblioteca interdipartimentale di Magistero, Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari (nella persona del dott. Filippo Gurrieri); ed il personale tutto della BGR.
Un ricordo particolare debbo riservare al compianto Accademico dei Lincei prof. Giancarlo Susini, alla cui memoria sono legati miei grati sentimenti per cordiali conversazioni concessemi.
Altre notizie sulla figura di Bianchi, si possono trovare in Internet, nel nostro sito Riministoria, all’indirizzo:
<http://digilander.libero.it/antoniomontanari/>
oppure in quello all’indirizzo:
Iano Planco, <http://digilander.libero.it/ianoplanco/>.
Indirizzo e-mail: <monari@libero.it>.

Antonio Montanari


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912/Riministoria-il Rimino/19.05.2004
Versione aggiornata rispetto al testo a stampa degli Studi romagnoli.
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