Alle origini di Rimini moderna (18). Il passaggio dell'imperatore, il corpo di una donna sepolto a Santa Colomba, la lapide ritrovata a San Martino in Venti e le testimonianze storiche mai pubblicate in sede locale
Se una mappa racconta il declino
Sotto l'anno 1516 Cesare Clementini racconta che "fabbricandosi nella Cattedrale la Capella chiamata l'Incoronata, hora di San Gioseffo, da Gierolamo Utili, Canonico di Rimino, et Originario di Faenza, dentro l'antico muro della Chiesa, fu trovato una Donna morta, e avolta in un regio panno di seta rossa, lungo braccia sei, ripieno di Rosoni d'oro, e di Leoni, fatti a basso rilievo parimente d'oro, che sostengono un gran fiore, attorniato con certi circoli, in mezzo a quali stanno alcune lettere, che per esserne una parte corrosa, altro non si legge, che FRIDERICUS Imp. Aug. MCCXXXI".

Mistero e simbolo
Prosegue la pagina di Clementini (II, 664) con l'ipotesi circa l'identità della "morta Donna". Secondo alcuni era una Baronessa, secondo altri una Nipote di Federico II.
Per Giovanni Andrea Corsucci da Sassocorvaro, già rettore di San Giorgio Antico, autore di un trattato sul vermicello della seta (apparso a Rimini nel 1581), quel corpo era di una figliuola dell'imperatore stesso.
Corsucci annota pure che l'antico panno funebre era ancora fresco e bello, e che se ne serviva il Capitolo della Cattedrale per il cataletto nei mortorii di Vescovi e Canonici, nel portarli alla sepoltura.
Nel 1231 si ha il transito di Federico II a Rimini con elefanti, cammelli ed altri animali mostruosi, ovvero sconosciuti ("Venit Ariminum et secum duxit elephantos, camelos et alia animalia monstruosa"). Ce lo ricorda una lapide ritrovata a San Martino in XX una quarantina d'anni fa, e messa in salvo dall'allora parroco don Lazzaro Raschi, come Angela De Rubeis ha scritto sul Ponte nel 2008 presentando un saggio di Anna Falcioni.

Memorie perdute
La pagina di Corsucci prima e la citazione di Clementini poi, sono non soltanto testimonianze preziose ma pure simboli di memorie perdute, di un passato dimenticato che torna alla luce soltanto per caso, come è successo con la lapide di Federico II. Il Cinquecento riminese è il secolo in cui a Rimini (1528), come già abbiamo ricordato qui il 6 gennaio 2013, si distruggono l'archivio e la cancelleria posti nel convento di San Francesco, a fianco di quella cattedrale di cui scrive Corsucci a proposito del panno funebre del 1231. È il periodo nel quale si vuole cancellare il passato malatestiano, dimenticando di quale grandezza culturale fosse stato promotore, con un Umanesimo che ancor oggi resta fondamentale nella storia culturale dell'Europa. Per sintetizzare il declino che attraversa Rimini nel sec. XVI, bisogna confrontare questo periodo con i momenti precedenti, immaginando soltanto una piccola mappa geografica che da sola dice tante cose.


Federico II
Prima, però, ci concediamo una piccola divagazione biografica su Federico II. Suo padre Enrico VI ha un fratello Ottone II che da Margherita di Blois ha Beatrice di Borgogna moglie di Ottone il Grande. Questa Beatrice scompare proprio nel 1231, il 7 maggio, l'anno del funerale riminese. Ma si legge che essa è sepolta dal dicembre dello stesso 1231 nell'abbazia di Langheim a Bamberg, quindi sarebbe da escludere che sia suo il corpo ritrovato nel 1516. E che Corsucci attribuisce ad una figlia. Beatrice era un personaggio troppo importante per essere eventualmente lasciata lontana dalla propria patria. Ma la presenza di Beatrice in Romagna non sarebbe strana. Basti ricordare quanto scrive Carlo Sigonio nel XVII libro della sua storia del Regno d'Italia: Federico II chiamò dalla Germania in Romagna il figlio Enrico ed i suoi principi. Tra costoro c'è anche il marito di Beatrice, Ottone I d'Andechs e di Merania. Sigonio aggiunge che per non intimorire la gente con parate militari, anzi per allietarla e divertirla organizza una sfilata di animali mai visti o poco noti da queste parti. Sono appunto quegli elefanti, leoni, leopardi, cammelli ed uccelli rapaci che per molti giorni offrono meraviglioso spettacolo e che finiscono citati nella lapide ritrovata a San Martino in XX.

Feste per tutti
Ludovico Antonio Muratori cita nei suoi "Annali d'Italia", sotto la stessa data del 1231, questo passo di Sigonio, "il quale l'avrà preso da qualche vecchia storia. Cioè che Federigo diede un singolare spasso ai popoli in Ravenna, coll'aver condotto seco un liofante, dei leoni, de' leopardi, de' cammelli, e degli uccelli stranieri, che siccome sono cose rare in Italia, furono lo stupore di tutti".
La fonte di Sigonio è Mainardino Imolese, come si legge in una nota dei "Monumenta Germaniae Historica" (tomo XXXII, dedicato alle cronache di Salimbene de Adam [1221-1287], 1905-1913, p. 93). La testimonianza di Mainardino è relativa proprio a Ravenna tra 1231 e 1232. Mainardino scrive che vide l'imperatore condurre seco "molti animali insueti in Italia: elephanti, dromedarii, cameli, panthere, gerfalchi, leoni, leopardi e falconi bianchi e alochi barbati".
Mainardino è stato definito "uno storico dimenticato del tempo di Federico II" (P. Scheffer-Boichorst, "Zur Geschichte des XII. und XIII. Jahrhunderts Diplomatische Forschungen", Berlino, 1897, p. 275). Un'altra citazione da Mainardino, è in un testo di Pandolfo Collenuccio (1444-1504) di Pesaro, "Compendio delle historie del regno di Napoli", Venezia, 1541 (quindi anteriore a Sigonio), p. 80bis: Federico nel novembre 1232 arriva a Ravenna "con grandissima comitiua, e magnificentia, e tra le altre cose menò con sé molti animali insueti in Italia", di cui fa l'elenco che abbiamo appena letto, "e molte altre cose degne di admiratione, e di spettaculo". Nello studio di Scheffer-Boichorst si legge infine (p. 282) che spesso Collenuccio, nell'enumerazione degli animali, coincide con Flavio Biondo.

Flavio Biondo
Ecco che cosa si legge in Flavio Biondo: "Mentre che era Federigo in Vittoria [Sicilia], gli uennero ambasciatori di Aphrica, di Asia, e de lo Egitto; e portarongli a donare Elephanti, Pantere, Dromedarij, Pardi, Orsi bianchi, Leoni, Linci, e Gofi barbati: egli si edificò qui Federigo bellissimi giardini, e serragli; dove teneua bellissime fanciulle; e lascivi garzoni" (Le Historie del Biondo..., Ridotte in Compendio da Papa Pio [II]; e tradotte per Lucio Fauno, Venezia, 1543, p. 172 retro).
Su Mainardino, scrive Augusto Torre (Enciclopedia Dantesca, Roma, 1970): "Vescovo di Imola, della famiglia Aldigeri di Ferrara (dalla quale si pensa derivasse la moglie di Cacciaguida), figlio e fratello di due giudici famosi, fu uno dei più insigni personaggi del suo tempo. Suddiacono e preposito della cattedrale di Ferrara sin dal 1195, il 16 agosto 1207 era già vescovo di Imola. La sua attività si svolse sia nel campo spirituale come in quello temporale, e ne rivelò le spiccate capacità politiche. Fu podestà di Imola (1209-10 e 1221-22), che difese saldamente contro i ripetuti attacchi di Bologna e di Faenza. Per molto tempo lo troviamo vicino a Federico II e ai suoi legati; fu anche vicario imperiale e in questa qualità risolse con grande energia le contese fra Genova e Alba (1226), ma dal 1233 si tenne lontano dalla politica attiva. Il 9 agosto 1249 troviamo già eletto il suo successore; ignoriamo l'anno della sua morte, avvenuta dopo quella data. Scrisse una storia di Imola e una biografia di Federico II, entrambe andate perdute". Nella "Storia dell'Emilia Romagna" (I, 1976, p. 685) Augusto Vasina sottolinea: Mainardinus ebbe una "prepotente vocazione politica filoimperiale".
Nel marzo 1226 da Rimini Federico II ha promulgato la sua Bolla d'oro per confermare la donazione della Prussia all'Ordine Teutonico. La ricorda una lapide (1994) in piazza Cavour, proposta dallo storico Amedeo Montemaggi .
(18. Continua)
Gran parte di questa pagina è apparsa sul "Ponte" n. 9, 03.03.2013, sotto il titolo: 1231, Federico II e gli elefanti, a firma Lena Vanzi

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Antonio Montanari

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