Alle origini di Rimini moderna (15). Si soccorrono i poveri per non farli morire di fame, e ci sono quelli che dalla calamità pubblica traggono profitto per arricchire, scrive Carlo Tonini
Anche la carestia serve a far soldi
[Versione non definitiva]

Li chiameremo politici per farla breve. Sono i Signori della città, quelli che comandano in nome dei privilegi. Dovunque, nel corso del Cinquecento, esiste una struttura sociale a piramide, "in cui il ricco tende a divenire sempre più ricco ed il povero sempre più povero" (G. Angelozzi).

Quella piramide
La solidità della piramide è garantita dal ferreo controllo che una ristretta nobiltà esercita attraverso la gestione del potere politico. Il luogo in cui ciò avviene, è il Consiglio Generale della Comunità, spiega G. Tocci che aggiunge: in Romagna l'età della decadenza è più lunga che altrove. Al patriziato, sempre più chiuso nel ruolo di percettore di rendite agrarie, s'oppone il mondo in crisi di artigiani e mercanti. Quanti stanno al centro (come gli ufficiali e gli uomini di legge) preferiscono guardare con simpatia ai nobili ricchi ed ai potenti rappresentanti del potere romano.
Sotto i nobili in questa piramide, scrive Angelozzi, ci sono i benestanti, detti pure "gentiluomini privati", intendendo con ironia il loro ruolo di persone che badano soltanto agli affari propri e non a quelli della comunità. Poi, sul loro stesso piano, si pongono i liberi professionisti, ricchi di soldi e forti per prestigio sociale. Alla base della piramide, con i piedi di tutti gli altri sulla testa, stanno i lavoratori delle campagne e delle città. Tra di loro si annidano i poveri, tali non per colpa loro, ma a causa del sistema politico che li emargina nella miseria.
Spesso succede, conclude Angelozzi, che il povero si trasformi in bandito o vada ad alimentare il mondo vario ed inquietante dei cosiddetti vagabondi. I quali sono il terreno su cui sbocciano periodiche sommosse per il pane. Per le rivolte sociali, dormono sonni poco tranquilli quanti hanno qualcosa da perdere.
Tocci definisce indecifrabile il mondo degli oziosi, dei vagabondi e degli emarginati, sui quali potevano piovere gli aiuti della pubblica carità, ma per i quali non si adoperava nessuno al fine di recuperarli ed inserirli nella vita sociale attraverso il lavoro. Infine, osserva Tocci, ci sono le voci del dissenso che si fanno rare e prendono la via dell'esilio. Esse mugugnano per due secoli, colpite infine da accuse di eresia.

Economia bloccata
In una società sostanzialmente immobile come quella romagnola, conclude Tocci, risulta bloccata sino alla fine del Settecento pure la vita economica, nonostante una lunga serie di interventi pubblici per migliorare terreni, corsi di fiumi, traffici marittimi. Come osserva M. Dall'Aglio, nel Ravennate dal 1578 inizia la bonifica per colmata delle valli di Mezzano e di San Vitale. Tra 1550 e 1580, "tutta la bassa pianura emiliano-romagnola è un immenso cantiere".
Il contesto politico-economico della Romagna è fondamentale per comprendere nella loro verità certi fatti accaduti a Rimini, ed ai quali è stata sempre dedicata un'attenzione molto superficiale, per cui il discorso storico si riduce ad elenchi di cose o persone, aridi come un listino di commercio.
Al proposito Carlo Tonini ci offre un esempio illuminante. Nel secondo volume del suo "Compendio della Storia di Rimini" (apparso nel 1896), parlando della carestia che colpisce la città ed il suo territorio nel 1569, egli ricorda il pubblico intervento "per togliere il pericolo che i poveri morissero di fame". A questo episodio non aggiunge neppure dieci parole per riassumere quanto distesamente invece ricorda nel sesto volume, parte prima, della "Storia di Rimini" che egli pubblica nel 1887 per completare l'opera avviata da suo padre Luigi nel 1848. Qui, dunque, Carlo Tonini s'indigna nel raccontare la carestia del 1569.

Arricchirsi, e basta
Mentre il Consiglio cittadino il 25 luglio 1569 prende quei provvedimenti per evitare una sorte tragica ai poveri, si ripete la solita storia "di quelli, che dalle calamità pubbliche trassero profitto per arricchire", scrive il Nostro. La corruzione era talmente diffusa che pure "tra i moderatori della cosa pubblica trovavasi il mal seme": i Consoli non facevano il loro dovere e tuttavia volevano tutto il compenso stabilito. Sino al maggio 1570,  ogni domenica ai poveri si offre pane cotto per il peso di uno stajo. (Secondo il "Vocabolario romagnolo-italiano" di Libero Ercolani, uno stajo equivale in Romagna a 12,5 kg.)
Nel racconto del "Compendio" tengono banco le preoccupazioni internazionali. Per le minacce ottomane si fortificano i porti, obbligando al lavoro gli uomini dai 16 ai 60 anni, ed alle collette consuete (ovvero tributi) che invece riguardano tutti dai 14 anni in su, esclusi i miserabili e le donne. Le collette si rendono necessarie pure per aiutare il re di Francia che deve combattere contro la setta degli Ugonotti. I quali sono di tendenza calvinista ed organizzati militarmente. Tutta la Romagna è chiamata a sborsare 50 mila scudi d'oro. Scrive il pio Carlo Tonini: "Non doveva parere ingiusto ai nostri il concorrere a tali spese, trattandosi di cose di religione; ma certo è che troppo frequenti erano le domande di denaro per tale effetto".

Lusso delle donne
Se le carestie passano (il raccolto del 1570 è buono), la corruzione resta. Il malcostume è relegato però in secondo piano per quel dannato vizio della penna che preferisce le notizie rumorose. Come quella che Carlo Tonini offre quando racconta che nel 1573 ci si dedica a combattere "contro la perniciosa peste del lusso nelle donne". Non ci si accorgeva che il lusso femminile era l'effetto e non la causa dell'ingiustizia politica e sociale.
E poi sarebbe parso irriverente verso chi deteneva il potere, immaginare che certe idee contro sprechi ed esibizioni immorali, potessero trovare la via breve della discussione in famiglia, anziché quella lunga e tortuosa del dibattito pubblico. Forse quest’ultima strada era scelta con un intento propagandistico che poteva fare effetto, ma non necessariamente implicare pure di ritenere ogni spreco quale atto di offesa verso i bisognosi.
Come si suol dire, le vie dell’Inferno sono lastricate di buone intenzioni. Su di esse i potenti scommettono reputazione ed equilibri politici anche nei secoli successivi. Nel novembre 1792 a Rimini i Consoli propongono un quesito al Cardinal Legato Niccolò Colonna di Stigliano, "relativo alla seguita contravenzione della Legge sopra i Matrimonj disuguali", entrata in vigore in agosto: un Nobile ha sposato "una zitella di bassa estrazione, e maggiormente avvilita dall’esercizio di Cantastorie sopra un pubblico teatro". La donna era senza dote cospicua o eredità, e le nozze sono quindi avvenute soltanto per "passione". Nel frattempo l’Europa brucia non per amori impossibili tra nobili e plebee, ma per le armi. Il cronista Zanotti narra: il matrimonio incriminato è allietato da un figlio.

Il caso del 1765
Le carestie si ripetono periodicamente. Ad esempio, due secoli dopo, tra 1765 e 1768 anche a Rimini il cosiddetto popolo minuto è costretto alla fame sino al pericolo di vita. (Ne ho parlato su “il Ponte” del 14 marzo 1999: "Una fame da morire".) I poveri rappresentano allora il venti per cento della popolazione.
Gli interventi d'emergenza per loro decisi dall'Annona cittadina, sono ostacolati dalla burocrazia pontificia che non crede alle necessità di Rimini: anziché attribuirle alla mancanza di grano per scarsi raccolti, le considera prodotte da cattiva amministrazione e suggerisce persino di mangiar erba e frutta al posto del pane. La Sacra Congregazione del Buon Governo non è ben disposta nei confronti della città, al punto di negare una sovvenzione per soccorrere i bisognosi. Da Roma, commenta un cronista del tempo, arrivano soltanto indulgenze. Il cardinal Giuseppe Garampi scrive ai Consoli riminesi che nella capitale si considerava esagerato ogni nostro bisogno.
(15. Continua)

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All'indice di "Rimini moderna" Ponte

Altre mie pagine sul tema si leggono qui:
Il pane del povero. L'Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII
1760. Andrea Lettimi contrabbandiere di farina.

Antonio Montanari

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