Alle origini di Rimini moderna (11). La biblioteca nel convento francescano, progettata dal 1430. Libri di Sigismondo e Valturio. Inventario del 1560. Misteriosa scomparsa
Malatestiana, prima di Cesena
[Versione non definitiva]

Il progetto di costituire una biblioteca aperta al pubblico e utile agli studenti poveri, è testimoniato nel 1430 per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti, che segue una intenzione dello zio Carlo, morto l'anno prima. A Carlo un canonico Maestro di Grammatica ha lasciato in eredità una casa che Galeotto Roberto vende per realizzare il progetto. Nasce così la prima biblioteca pubblica d'Italia, come riconosciuto (2010) da C. S. Celenza e B. Pupillo della Johns Hopkins University.

Il dono di Valturio
È del 15 febbraio 1432 il "breve" di papa Eugenio IV sulla fabbrica del convento di San Francesco. Forse si riferisce anche ai lavori necessari per realizzarvi la biblioteca. Risale al 1475 il testamento di Roberto Valturio che lascia la propria biblioteca alla libreria del convento dei frati di San Francesco di Rimini, ad uso degli studenti, degli altri frati e dei cittadini, con la clausola che si trasferiscano tutti i libri in altra stanza nel solaio, adatta all'uso di libreria.
Il documento è pubblicato per la prima volta da Angelo Battaglini nel 1794. Da esso si ricava che nel 1475 esiste già una libreria del convento di San Francesco, posta al piano terreno. Essa, osserva Battaglini, era già diventata copiosa a spese di Sigismondo, ma giaceva "in piano a terra pregiudicevole a materiali sì fatti". Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490.

Libri di Sigismondo
Battaglini conclude: Rimini "dovette dunque non meno a Sigismondo suo Principe, che al suo cittadino Roberto Valtùri l'acquisto fatto d'una pubblica Biblioteca". Sigismondo, come ricorda per primo Valturio nel "De re militari", dona alla biblioteca monastica francescana "moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline". Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all'ascolto di tutte le voci dell'antichità greca e latina.
Dunque nel 1475 la biblioteca del convento di San Francesco esiste già. Valturio ricorda pure che a lui ed a molti altri era stato affidato da Sigismondo l'incarico di procurare i testi per le nuove biblioteche che il signore della città voleva realizzare.

La lapide
1490. L'iscrizione di questo anno (e non 1420 come si era in un primo tempo letta), ora nel Museo cittadino, ricorda il trasferimento della biblioteca francescana al piano superiore del convento da quello a terra, troppo umido per conservarne i materiali.
Il testo latino è: "Principe Pandulpho. Malatestae sanguine cretus, dum Galaotus erat spes patriaeque pater. Divi eloqui interpres, Baiote Ioannes, summa tua cura sita hoc biblioteca loco. 1490" ("Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490"). Giovanni Baiotti da Lugo, frate francescano e guardiano del convento, è un teologo.
Dell'iscrizione non è stata mai fornita sinora la corretta trascrizione. Infatti si è letto come "sum" quanto va trascritto come "summa".

L'inventario
Nel 1560 la biblioteca è costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna. Circa centocinquanta opere sono nella prima fila, circa centoventitre nella seconda. Questi dati risultano da un inventario (molto confuso) del 1560, conservato a Perugia e pubblicato nel 1901 da Giuseppe Mazzatinti.
Ricordiamo una notizia relativa al 1511, e contenuta in un testo settecentesco manoscritto di padre Francesco Antonio Righini: dai libri conventuali di San Francesco risulta che la biblioteca era stata trasferita a Roma per ordine del papa Giulio II ("sic jubente Pontefice"). Righini cita un diario del bolognese Paride Grassi, cerimoniere pontificio, relativo al soggiorno riminese presso i francescani del papa stesso.
Il testo di Righini forse allude ad un trasferimento parziale, dato appunto che nel 1560 la biblioteca era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna. Padre Righini ebbe fama di falsario per una storia legata alla beata Chiara da Rimini. Inventò la scoperta d'un manoscritto datato 1362, ma in realtà del 1685, come rivelato dai raggi ultravioletti.

Nel 1600
All'inizio del secolo XVII, precisa Antonio Bianchi (in “Storia di Rimino dalle origini al 1832”, Rimini 1997, a cura di Antonio Montanari, p. 146), "della preziosa libreria, che i Malatesti, per conservarla ad utile pubblico, avevano dato in custodia ai frati di San Francesco", restano soltanto quattrocento volumi per la maggior parte manoscritti.
Questo "rimasuglio" di quattrocento volumi (in realtà molto meno, circa 273, per l'inventario del 1560), va perduto secondo monsignor Giacomo Villani (1605-1690), perché quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai ("deinde in manus salsamentariorum mea aetate pervenisse satis constat").
Federico Sartoni (1730-1786), come riferisce Luigi Tonini (“Rimini dopo il Mille”, p. 94), sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo, vescovo di Rimini dal 1627 al 1646, e Federico, fondatore dell'Accademia dei Lincei nel 1603.

Nel 1900
L'illustre storico Augusto Campana nel celebre studio sulle biblioteche italiane (1931), scrive al proposito della presenza dei padri francescani nella biblioteca malatestiana: "È possibile, ma è prudente darlo solo come possibile, che questa libreria - per servirmi delle parole del Massèra - fosse affidata ai frati di San Francesco". Prosegue Campana: "Ad ogni modo presso di quelli, verso la metà del quattrocento, dovette stabilirsi una notevole raccolta di libri", poi arricchita da Sigismondo (come abbiamo già visto). Quindi Campana non mette in dubbio l'esistenza di una pubblica biblioteca malatestiana "ad communem usum pauperum et aliorum studentium", ma segnala che è prudente (seguendo Massèra) considerare possibile una sua gestione da parte dei frati.
Il che però contrasta fortemente con il testamento di Valturio del 1475 che si rivolge direttamente a quei frati. Se non l'avessero gestita loro, Valturio non avrebbe scritto quanto leggiamo nelle sue volontà (in ben tre stesure), dove sempre si parla della "libreria del convento dei frati di San Francesco". Le carte d'archivio parlano chiaramente, e fanno decadere l'osservazione di Massèra e la conseguente cautela di Campana.

Quei frati
Massèra incolpa i Conventuali riminesi d'aver lasciato "disperdere le ricchezze raccolte", non conoscendo la notizia di Righini del 1511, secondo cui la biblioteca era stata trasferita a Roma "sic jubente Pontefice".
I frati vendettero liberamente la libreria alla famiglia romana dei Cesi, come pare sostenere Sartoni? Forse essi furono costretti non dico dal vescovo romano, ma dalle loro misere condizioni che risultano da molti documenti conservati nell'Archivio di Stato di Rimini. E se il vescovo Cesi, invece, avesse voluto di sua spontanea volontà salvare la preziosa biblioteca malatestiana, minacciata di dispersione come quella di Brescia o di distruzione come quella di Pesaro nel 1514? L'unica che resta è quindi quella, magnifica, di Cesena, voluta da Novello Malatesti, educato a Rimini come Sigismondo da Elisabetta Gonzaga, moglie dello zio Carlo. Lei riversa su di loro i frutti di una formazione di stampo umanistico, maturata nella famiglia d'origine e presso la corte riminese.
Carlo nel 1397 a Mantova, quale capitano della lega antiviscontea, fece rimuovere un'antica statua di Virgilio, con un gesto ritenuto da Coluccio Salutati oltraggioso verso la poesia, e da Pier Paolo Vergerio indegno d'un principe che pretenda di amare gli studi e la storia. Aveva voluto soltanto segnalarsi al potere ecclesiastico.
(11. Continua)

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Antonio Montanari

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