PAESE MIO

 

      

                                               

Come il salmista voglio cantarti il canto dell’emigrante che torna;
alzerò le mani, come il muezzin, verso le tue colline,
scenderò scalza verso le tue pianure di timo;
intingerò pennini in neri calamai di occhi;
verrò a vendemmiare grappoli nell’oro delle tue estati.
 

Paese mio, il tempo è maturato, le stagioni sono mutate,
ma la stella che mi dimora dentro è ancora lì,
ancorata ad un uncino di luna.

V
oglio ricordarti negli inverni
avari di neve,
pensarti come un vecchio ricurvo,
intento a fondere rimpianti alle memorie

col rosso attizzatoio del camino.

Sono venuta nell’ora del vespro
a raccogliere inviti di campane,

quando suonano gioiose come un’agitarsi di ali,
quando espandono suoni di porpora e d’oro,
e paiono accarezzare le pieghe dell’anima.
 

Voglio cantarti,  nelle feste d’autunno,
quando sciami di ragazze srotolano arcobaleni di sguardi
per catturare perle di sorrisi.
Labbra di zafferano. Sorrisi di cannella.
Occhi che ammiccano alla vita
avvolta ancora tra sogno e incantamento.

Ti canterò nell’ora del tramonto, quando il secchio solare
 
s’immerge nel  pozzo delle tue acque azzurre,
 
si perde oltre l’inarrivabili monti della Sila,
 
si adagia sotto la verde trapunta dei vigneti.

In quell’ora, ti sarò  vicino come si fa con un padre,
ti dirò dell’aratro e della zolla, della falce e del grano,
della cesoia che s’abbevera alla mano.  

Ti  parrà di sentire una preghiera,
mentre s’incendia l’orizzonte nella sera.

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