DAL  GOLFO  di  GUASCONA  al  MARE  DEI  CARAIBI    (Isole  Antille)

Nei  primi  giorni  di  febbraio 1942, con  una  temperatura  molto  rigida, mollammo  gli  ormeggi  dirigendoci  verso  l’uscita  del  bacino  approfittando  dell’alta  marea. Imbarcato  il  pilota  francese, egli  si  mise  al  timone  e  con  destrezza  lungo  l’estuario della  Gironda, riuscì  a  portare  fuori  il  sommergibile  fra  scogli, secche, fin  dove  il  fondale  era  più  sicuro  e  senza  pericoli  naturali  di  sorta. Sbarcato  il  pilota, appena  terminata  la  sua  mansione, raggiungemmo  un  punto  prestabilito  con  un  fondale  di  circa  cento  metri, facemmo  immersione  posandoci  sul  fondo  per  verificare  se  tutto  fosse  in  ordine  prima  di  avventurarci  nell’Oceano. Dopo  qualche  ora  risalimmo in superficie  tutto  era  regolare. Tale  operazione  era  d’obbligo  a  tutte  le  unità  in  uscita. Durante  l’operazione  si  era  protetti  da  aerei  e unità  navali  tedesche. In  previsione  di  una  lunghissima  missione, fummo  costretti  ad  aumentare  o  quasi  raddoppiare  l’occorrenza  di  bordo, nafta, viveri, munizioni.  A  causa  del  sovraccarico, l’unità  navigava  in  affioramento, le  piccole  ondate, attraversavano  la  coperta  da  una  parte  all’altra  provocando  allo  scafo  un  lento  rullio. Anche  l’efficienza  del  sommergibile  era  ridotta: velocità, manovrabilità, stabilità  e  ciò  provocava  in  tutti  noi  un  certo  nervo-  sismo  che  poteva  manifestarsi  in  paura …….. 

Al  calare  della  sera  prendemmo  il  largo, e  dopo  qualche  ora di  navigazione  sul  Golfo  di  Guascogna, facemmo  immersione  per  sfuggire  alla  sorveglianza  inglese  sempre  presente  in  quella  zona  di  mare  che  noi  eravamo  costretti  ad  attraversare. Dopo  circa  un  paio  d’ore  d’immersione, il nostro  idrofonista  rilevò  una  sorgente  di  rumore  sospetto  e  indecifrabile. Ne  fu  informato  il  Comandante  e  questi, sospettò  che  si  trattava  di  un  sommergibile  inglese; decise  di  proseguire  in  immersione  alla  profondità  di  trenta-quaranta  metri  con  motori  elettrici  avanti  mezza.  Cominciarono  a  passare  le  ore: cinque, dieci, quindici, e  per    non  esaurire  le  batterie  furono  ridotti  i  giri  dei  motori  al  minimo, toccammo  le  venti  ore.

Cominciammo  a  soffrire  per  scarsità  d’ossigeno, la  respirazione  si  faceva  sempre  più  difficoltosa  provocando  un  malessere  che  con  il  passare  del  tempo  si  accentuava  sempre  di  più. Cercavamo  di  parlare  e  muoverci  meno  possibile  per  non  consumare  quel  po’  di ossigeno  che  ancora  restava.  Io  ero  nel  locale  di  prora, cercammo  di  accendere  fiammiferi, la  fiammella  si  spegneva  immediatamente  e  tutto  ciò  era  segno  della  quasi  assenza  d’ossigeno. Ad  un  tratto, dall’interfonico, sentiamo  la  voce  del  Comandante  che  dava  ordine  di  aprire  le  porte  stagno  e,  nello  stesso  tempo, ai  cannonieri  e  mitraglieri  di  tenersi  pronti  per  il  combattimento. L’idrofonista  continuava  a  captare  dei  deboli  impulsi. Ci  portammo  a  quota  periscopica  (otto-nove  metri circa)  il  Comandante  fece  subito  il  giro  dell’orizzonte  con  il  periscopio. Non  fu  notato  nulla  di  strano,  e  allora  diede  ordine  di  emergere,  era  notte  fonda. Attraverso  il  boccaporto  della  torretta, uno  dietro  l’altro, il  Comandante  e  le  vedette  si  precipitarono  fuori, fu  fatta  una  rapida  perlustrazione  con  i  potenti  binocoli  nel  raggio  di  mare  circostante, poi  la  voce  rassicurante  del  Comandante  che  annunciava:   “Orizzonte  libero!”   “Disporre  per  la  carica  batterie,  Motori  termici  avanti  tutta!”  e  dando  nel  contempo  istruzioni  per  la  rotta  da  seguire.

All’armamento  ai  pezzi  che  era  stato  d’allarme  e  raggruppato  in  prossimità  dei  boccaporti  pronti  per  essere  impiegati, il  Comandante    rassicurava  che  lo stato d’allarme era cessato. Il  terzo  giorno  dalla  partenza, convocò  l’equipaggio in  camera  di  manovra, ruppe  i  sigilli  di  una  grossa  busta  contenente  i  segreti  della  rotta  da    seguire  e  la  zona  dove  si  doveva  operare. Restò  qualche  minuto  a  leggere  poi  con  calma  si  rivolse  a  noi  dicendo  pressappoco  così:   “ Ragazzi!  La  zona  che  ci  è  stata  assegnata  per  dare  la  caccia  a  navi  nemiche  prive  di  scorta, è  un punto  molto  lontano  verso  l’America  Centrale  esattamente  a  ridosso  delle  Isole  Antille  o  Indie  Occidentali. Bisogna  fin  d’ora  cercare  di  econo-  mizzare  viveri  e  acqua  e  in  modo  particolare, le  scatole  di  latte  che  saranno  utili  specie a  fine  missione. Dovete  sapere, che durante  questa  lunga  missione  non  è  previsto  alcun  rifornimento  in  mare, abbiamo  davanti a  noi  migliaia  e  migliaia  di  miglia  da  percorrere. I  compiti  che  ci  compe-tono  a  bordo  raccomando  di  assolverli  con  responsabilità, impegno, serietà, sappiate  che  un  er-  rore  o  leggerezza  di  qualcuno  può  costare  la  vita  di  tutti ”.

Cominciò  così  il  lungo viaggio  che  ci  portò, dopo  circa  venticinque  giorni  di  navigazione    nel  Mar  dei  Carabi. Tutto  il  periodo  della  missione  c’impegnò  fisicamente  e  moralmente  fino  al  limite  sopportabile, facendo  però  sempre  il  nostro  dovere  fino  in  fondo. Fuori  dal  Golfo  di Guascogna, in  pieno  Oceano, fummo  investiti  da  una  violenta  tempesta, con  vento  fortissimo  e  scrosci  di  pioggia  di  forte  intensità, il  mare  forza  otto – nove. Le  onde  alte  più  alte di  dieci  metri   si  abbattevano  sul  nostro  piccolo  scafo  con  violenza  inaudita  e  dalla  torretta  si  scorgeva  la  no- stra  prora  che  arrancava  faticosamente  fino  alla  sommità  dell’onda  rimanendo  per  qualche   secondo  in  bilico  sospesa  nel  vuoto  per  poi  ricadere  violentemente  sull’acqua. L’impatto  era così  impetuoso  da  provocare  scricchiolii  nella  struttura  dello  scafo, la  poppa  si  sollevava, le  eliche  emergevano  dall’acqua, non  facendo  più  resistenza  i  motori  impazzivano  andando  su  di  giri. Altre  ondate  fortissime  si  abbattevano  sulla  torretta  sollevando  montagne  di  schiuma.

 

     

 

 

 

1944 - Oceano  Atlantico  (mare  forza  8)

 

 

Le  vedette, dalle  facce  screpolate  dalla  salsedine  e  sferzate  dal  vento  erano  legate   con   robuste  cinghie  sulla  battagliola  della  plancia  per  non  essere  spazzati  via  come  fuscelli  e  scaraventate  in  mare. Dal  boccaporto  della  torretta  tenuto  aperto  per  l’aerazione  dei  motori  termici, colonne  d’acqua  si  riversavano  nell’interno  allagando  la  camera  di  manovra  per  poi  depo-sitarsi  in  sentina, le  pompe  dovevano  essere  sempre  in  efficienza  per  il  prosciugamento. Nello  interno  era  un  inferno, oggetti  d’ogni  genere  che  rotolavano  sul  pavimento  e  l’equipaggio  era  sbalzato  da  una  parte  all’altra, quasi  tutti  soffrivano  il  mal  di mare (locale  chiuso  con  aria  pesti-fera), alcuni  vomitavano  senza  avere  la  possibilità  di  pulire. Ballammo  così  per  circa  dodici  ore  poi  il  vento  cessò  all’improvviso, il  mare  cominciò  a  placarsi  e  nel  giro  di  poche  ore  diventò  calmissimo; per  fortuna  tempeste  così  violente  non  le  avemmo  più  per  tutto  il  resto  della  lun-ghissima  missione.

Si  navigava  spesso  in  superficie  poiché  la  zona  era  poco  battuta  dal  traffico navale  ed  aereo  nemico. Per  risparmiare  nafta, si  procedeva  con  un  solo  motore  che, dopo    quattro  o  cinque  ore  di  funzionamento, veniva  fermato  per  mettere  in  moto  l’altro  e  così  si  alternava  per  giorni  e  giorni. Incominciammo  a  sentire  caldo, più  si  avanzava  verso  sud  e  più  il  caldo  si  faceva  insopportabile. Dopo  circa  quindici  giorni  dalla  partenza, esaurimmo  i  viveri  freschi, incominciammo  così  a  nutrirci  con  viveri  inscatolati  e  sebbene  fossero stati confezionati  dalle migliori  ditte  conserviere  dell’epoca, con  il  passare  del  tempo  lo  stomaco si  rifiutava  di  accettarli  Purtroppo  però  se si  voleva  sopravvivere, bisognava  sforzarci  trangugiare  tale  cibo  ben  sapendo che  non  vi  era  altra  via  di  scampo. I  giorni  passavano  lenti, monotoni, il  ronzio  incessante  dei  motori, il  caldo  sempre  più  torrido  e  l’aria  interna, satura  di  cattivi  odori, di  nafta, di  grassi  e  per  giunta  ci  si  aggiungeva  anche  la  sudorazione  di  tutto l’equipaggio, costretto  a  muoversi  in  uno  spazio  limitatissimo  a  causa  dell’ingombro  delle  casse  di  viveri  sistemate  e  legate  negli  spazi  che  c’erano  stati  tolti; sudorazione  aggravata  anche  dalla  mancata  pulizia  igienica  personale  per  il  razionamento  d’acqua.

Sempre  per  mancanza di  spazio  avevamo  a  disposizione  due  cuccette ogni  tre  uomini, ci  coricavamo  seminudi  ed  i  materassini  erano  impregnati di sudore, igienicamente  era  un  disastro. Per  evitare  il  pericolo  d’infezione  di  pelle  non  ci  radevamo, le  nostre  barbe  diventavano  di  giorno  in  giorno  sempre  più  lunghe, incolte, da  farci  assomigliare  agli  equipaggi  delle  leggendarie  navi  corsare. L’interno  dello  scafo  era  un  continuo  stillicidio  d’acqua  provocato  dalla  condensazione  di  vapore. Tutti  questi  fattori,  mettevano  a  dura  prova  la  nostra  pur  vigorosa  resistenza. Spesso  con  il  Comandante, ci  riunivamo  in  camera  manovra (unico  locale  con  un  po’  di  spazio)  conversando  insieme, ognuno  di  noi  aveva  qualcosa  da  dire, c’era  un  sott’ufficiale  milanese  molto  capace  nel  raccontare  barzellette, ne  tirava  fuori  sempre  delle  nuove, era  una  fonte  inesauribile. Intanto  il  tempo  passava, mentre  i  motori  pulsavano  portandoci  sempre  più  lontano  nell’Oceano  sterminato  senza  che  accadessero  fatti  o  avvenimenti  eccezionali, giorni  e  notti  sempre  uguali. Nei  turni  di  riposo, quando  mi  coricavo  in  quel  giaciglio  impregnato  di sudo- re  maleodorante, prima  di  prendere  sonno, mille  pensieri  si  accavallavano   nella  mia  mente, la  nostalgia  della  casa  sempre  più  lontana  mi  attanagliava, pensavo  a  mio  padre  già  anziano  e  pieno  d’acciacchi, a  mia  sorella  colpita  giovanissima  da  un  male  incurabile  e  agli  altri  fratelli  anche  loro  militari  impegnati  in  Africa  Orientale  e  sul  fronte  Greco.

Spesso  mi  veniva  in  mente  la  povera  mamma  defunta  sette  anni  prima. Aveva  per  me  un  affetto  smisurato  forse  perché  ero  il  più  piccolo  di  casa, quante  volte  l’ho  invocata  sotto  i  micidiali  bombardamenti  subacquei!  Poi  ancora  pensavo  e  riflettevo  su  tante, tante, tante  cose  e, vinto  dalla  stanchezza  mi  addormentavo  con  un  nodo  in  gola  mentre  qualche  lacrima  si  uni-va  al  sudicio  sudore  e  col  rumore  incessante  dei  motori  che  ci  spingevano  sempre  più  lontano verso  l’incognito, verso  chissà  quale  destino …..

Spesso  eravamo  svegliati  di  soprassalto  dall’urlo  della  “rapida”, un  segnale sinistro  percepibile  in  tutti  i  locali, ci  avvisava  che  eravamo  costretti  ad  immergerci  rapidamente  (cinquanta sessanta  secondi  circa), per  sottrarci  al  nemico  e,  nel  contempo, di  studiare  la  tattica  d’attacco facendo  perdere  le  nostre  tracce  scomparendo  in  profondità. Noi  rimanevamo  in  stato  d’allarme,  dopo  aver  raggiunto  i  posti  assegnati, con  il  cuore  in  gola  e  senza  conoscere  quello  che  stava  accadendo, aspettavamo  gli  eventi. Momenti  di  grande  tensione  che,  con  il  passare  del  tempo  a  forza  di  emozioni  violente, il  nostro  sistema  nervoso  era  compromesso  e  a  molti  di  noi  sono  stati  riscontrati  soffio  al  cuore  e  altre  disfunzioni  e  imperfezioni.