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DALLA LICENZA DI CONVALESCENZA DEL LUGLIO 1942, ALLA CAPITOLAZIONE DELL’ITALIA 8 SETTEMBRE 1943 E PRIGIONIA NEI LAGER TEDESCHI 1943/45 Terminata la licenza di convalescenza di 40 giorni, durante il viaggio di rientro nella stazio-ne ferroviaria di Monaco di Baviera, incontrai alcuni commilitoni che da Bordeaux rientravano in Italia in licenza, da loro seppi della scomparsa del sommergibile “ Moroisini”. Al pensiero di non rivedere più i miei carissimi amici e compagni di tante vicissitudini vissute insieme, mi provocò una profonda costernazione (un tragico avvenimento che non ho più dimenticato), Appena rien-trato alla Base, fui aggregato all’equipaggio del sommergibile “Calvi” e, nell’attesa dell’imbarco, fui trasferito al Comando Superiore dove intervallavo turni di guardia e servizio alla mensa sottufficiali. dopo un paio di mesi chiesi ed ottenni la licenza ordinaria. Durante i primi giorni di licenza giunse, alla Caserma dei Carabinieri di San Benedetto del Tronto, un telegramma del Ministero della Regia marina, in cui si dichiara: “ Il marò Piunti Iginio è da considerarsi disperso, l’unità subacquea su cui è imbarcato, non è rientrata alla Base” Questa brutta notizia fu recapitata a casa dei Carabinieri, io in quel momento non ero in casa e quando i miei spiegarono loro che mi trovavo in licenza, si meravigliarono. L’appuntato lasciò un biglietto dove m’invitava a presentarmi in Caserma, il più presto possibile per chiari-menti. Nel pomeriggio andai in Caserma ed il Comandante della Stazione CC Mar.llo Nardone, appena c’incontrammo mi strinse la mano facendomi i complimenti per la scampata tragedia, poi aggiunse: “ Sono momenti terribili! Questi maledetti telegrammi, arrivano sempre più spesso e, a dire il vero a noi Carabinieri, incaricati di recapitarli alle famiglie provocano un forte disagio. Sono contento che il tuo caso si sia risolto nel migliore dei modi”. Nel licenziarmi mi strinse la mano dicendomi: “Auguriamoci che questa maledetta guerra finisca al più presto comunque sia l’esito ………. troppi lutti, troppe lacrime si stanno versando”. Purtroppo il bravo Mar.llo Nardone nel ‘44 durante la ritirata dei tedeschi, incalzati dagli alleati per impedire la razzia di un deposito di viveri destinati alla popolazione disastrata dai bombardamenti aerei, intervenne energicamente ma fu barbaramente ucciso. In suo ricordo ed onore il Comune di San Benedetto del Tronto ha dato il suo nome ad un’importante piazza. Terminata la licenza rientrai alla base. Alla fine d’agosto del ’43 venne a Bordeaux il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, Ammiraglio di Squadra “Antonio Legnani” ed io quella occasione, con una solenne cerimonia, mi consegnò la Croce di Guerra al Valor Militare, per aver partecipato alla lunga missione di guerra nelle “ Antille” (già descritta). Dal sommergibile “Calvi” fui trasferito al sommergibile “ Tazzoli” durante l’attesa d’imbarco, intanto, al Comando Superiore svolgevo il solito servizio fino al fatidico 8 settembre 1943. CAPITOLAZIONE DELL’ITALIA 8 SETTEMBRE 1943 Nel pomeriggio dell’8 settembre alle ore 15, avevo appuntamento con una ragazza in una fermata del tram alla periferia della città di Bordeaux ed infatti, la trovai ad aspettarmi. Approfit-tando della bella giornata, decidemmo di fare una passeggiata in aperta campagna. Entrammo in un parco immenso dominato da un maestoso castello che, come mi spiegò la ragazza, era di proprietà di una ricchissima famiglia ebraica la quale, per sfuggire alle deportazioni organiz-zate dai tedeschi, abbandonò tutto. Verso le 19, dalla stessa fermata del tram ci salutammo, salii sul mezzo, ed essendo molto affollato rimasi in piedi sul corridoio. Notai subito che i viag-giatori mi guardavano in modo strano; mi portai lentamente alle spalle del conducente seguito dalle occhiate della gente che mi metteva sempre più a disagio, ad un tratto, il conduttore del tram si voltò e vedendomi disse: “E’ vero che l’Italia si è arresa?” Senza mentirgli gli risposi che non sapevo nulla e lui: “ La guerra per voi è finita: in città i vostri superiori vanno in giro per rintracciare tutti i marinai in libera uscita e farli rientrare nelle proprie sedi immediatamente. Infatti, prima di arrivare alla fermata, sulla strada al fianco dei binari del tram, ci sorpassò una moto guidata da un nostro sottufficiale, e sul seggiolino posteriore sedeva un marinaio. Il sottufficiale vedendomi rallentò e con ampi cenni mi fece capire di rientrare subito. Scesi alla fermata ed a piedi mi avviai verso il nostro Comando, raggiunsi due miei amici che mi confer-marono l’inaspettato e preoccupante avvenimento. Rientrai nella nostra sede e, come primo provvedimento ci fu sospesa la libera uscita. Il Comandante della Base C.V. Enzo Grossi, ordinò per il giorno 10, una assemblea di tutto il personale libero, di servizio nel piazzale del porto vicino ai capannoni nel frattempo, come da prassi, si eseguiva l’alza bandiera il mattino e l’ammaina bandiera la sera come se nulla fosse accaduto, l’unica differenza per noi, era quella di essere privati della libera uscita. Il giorno 10 ci riunimmo nel piazzale del porto, facendoci entrare in un grande capannone e li attendemmo l’arrivo del Comandante Grossi. Arrivò alle dieci circa, seguito dal Vice Comandante C.F. Caridi. In primo luogo ordinò di chiudere il portone d’ingresso del capannone poi, da una pedana improvvisata prese la parola. Disse chiaramente, che non intendeva sospendere le ostilità come da ordine da Roma, ma che avrebbe invece continuato a combattere al fianco dei camerati tedeschi fino alla “ sicura vittoria finale”, confi-dando nella nostra collaborazione. non si sentiva di abbandonare l’alleato tedesco in quel periodo difficile della guerra dopo tre anni di durissima lotta contro il comune nemico. “ Anche se rispettassi gli ordini ricevuti” proseguì “non avremo scampo perché i tedeschi vedendosi traditi ci farebbero prigionieri. Noi qui rappresentiamo un’esigua forza e per di più, lontani dai nostri confini e con l’agguerrita armata tedesca, reduce dal fronte russo che sosta da qualche giorno alla periferia della città.” Terminato il discorso, con il cronometro in mano, ci diede 10 minuti di tempo per decidere se collaborare o no. Alla scadenza del decimo minuto, all’apertura del portone del capannone, tutti quelli che avevano deciso di non collaborare dovevano uscire fuori. Alla scadenza del tempo, all’apertura del portone, circa la metà del personale uscì fuori, fra i quali, io. Arrivammo a questa decisione facendo le seguenti constatazioni: Avevamo perduto le colonie con ingenti perdite di uomini e materiale bellico. - Le perdite aereonavali erano gravissime. - Gli Anglo-Americani avevano occupato la Sicilia e si avvicinavano a Napoli. - L’Italia era sottoposta a violenti bombardamenti aereonavali che seminavano morte fra la popolazione civile e danni materiali incalcolabili. - Mussolini, il 25 luglio era stato spodestato da Capo del Governo dallo stesso Gran Consiglio del Fascismo, e il 28 luglio veniva arrestato a Villa Savoia e imprigionato sul Gran Sasso d’italia. - Sul fronte russo, le armate tedesche erano in ritirata su tutti i fronti, il rovescio dei successi tedeschi, era iniziato con la sconfitta della battaglia di Stalingrado, nel febbraio precedente, provocando il crollo dell’intero fronte e travolgendo la nostra armata schierata sul fiume Don costretta ad una tragica e disastrosa ritirata, aggravata da una temperatura siberiana.
In dieci minuti, mettemmo insieme questo doloroso stato di cose, molti di noi decisero di non collaborare perché sentimmo che la guerra ormai, era perduta e perché l’ordine di sospen-sione delle ostilità era stato emanato da S.M. il Re al quale, noi militari, avevamo prestato giuramento di fedeltà e quindi, se avessimo ripudiato il giuramento saremmo stati tacciati da traditori rischiando serie sanzioni. Terminata l’assemblea, rientrammo nei nostri reparti con un animo smarrito, oppressi da oscuri presentimenti. Il giorno 11 settembre trascorse tranquillo. Alcuni sottoufficiali, fedeli al Comandante Grossi, si diedero da fare per convincere noi non collaboratori ma i risultati furono scarsi. Il giorno 12, un plotone di soldati tedeschi, armati di mitra e bombe a mano, ci obbligò a salire sui camion con zaini appresso e ci portò in un campo di concentramento vicino a Bordeaux. Il mattino seguente ci misero in riga sul piazzale del campo davanti alle baracche fatiscenti orinandoci di aprire i nostri zaini, che in precedenza ci avevano fatto portare fuori. I soldati tedeschi, sempre armati, cominciarono a rovistare fra le nostre cose e, con la scusa di trovare armi o materiale compromettente, sottraevano i nostri oggetti personali. A me portarono via una macchina fotografica, un orologio ed un maglione blu; un graduato prendeva nota su un foglio degli oggetti sequestrati promettendoci di restituirli. Rimanemmo in quel campo quindici giorni. Il vitto era scarso e immangiabile. Per umiliarci, ci obbligavano a strappa-re l’erbaccia del campo con le mani, prima la più alta poi la più minuta, in ginocchio. Ogni giorno veniva a farci visita qualche nostro ufficiale o sottufficiale collaborazionista, per convincerci a mollare, qualcuno cedette. Quando si resero conto che i più, non avevano inten-zione di mollare, era la fine di settembre, ci prelevarono dal campo e con una scorta armata a piedi, ci portarono in una piccola stazione ferroviaria e a spintoni e calci ci fecero salire sui carri-merce, in cinquanta - sessanta uomini per vagone. Dopo cinque giorni di viaggio disumano, fummo rinchiusi in un lager nei pressi di Colonia, insieme a migliaia di prigionieri provenienti da tutte le parti dell’Europa e del mondo. Durante i cinque giorni di viaggio, la scorta armata tedesca, apriva la porta scorrevole del vagone e buttava dentro sulla paglia fatiscente, un po’ di pane nero e duro che poi ci dividevamo e un secchio d’acqua da bere. Approfittando dell’apertura della porta, si cercava di vuotare il bidone dei nostri escrementi; eravamo costretti a “farla” in presenza di tutti e, non avendo nulla per coprire il bidone, questo rimaneva scoperto. Oltre ai disagi descritti, c’era l’incubo degli attacchi aerei. Alla stazione di Metz fummo abbandonati, chiusi nei vagoni e mentre la città era sotto allarme aereo, sentimmo il rumore degli aerei in avvicinamento poi le esplosioni delle bombe e la rabbiosa reazione della contraerea, alcune schegge caddero sopra il tetto del nostro vagone, facendoci sobbalzare. Il giorno dopo raggiungemmo la destinazione già descritta. Da quel grande campo di concentramento, dopo pochi giorni fui prelevato insieme ad altri della T.O.D.T. (organizzazione del lavoro paragonabile alla famigerata S.S.) e trasferito in un altro lager di Colonia dove c’impiegarono alla manutenzione dei binari della stazione ferroviaria. Le condizioni di vita erano durissime; 12 – 14 ore di pesante lavoro, cibo scarsissimo, un amaro, infuso nero d’erba il mattino, 150gr. di pane nero, una scodella d’acqua calda con verdura secca, qualche patata, venti grammi di margarina, un cucchiaio di marmellata. Sofferenze inaudite per il freddo, disagi, malattie, parassiti e, per finire, il pericolo dei continui e terrificanti bombardamenti aerei alleati. (Non c’era permesso di entrare nei rifugi!). Mentre i giorni passavano, lenti e mo-notoni, nei nostri animi si faceva strada l’angosciosa nostalgia della casa lontana, l’affetto dei nostri cari. Il mio grande conforto durante quel drammatico e oscuro periodo, fu quello di aver incontrato due cari amici compaesani, anche loro prigionieri. Lidio Labellarte di Grottammare e Giuseppe Ciotti di San Benedetto del Tronto. Durante le crisi di sconforto ci aiutavamo a vicen-da ringraziando Dio di averci concesso di rimanere per due anni, sempre insieme e di riab-bracciare i nostri cari. Alla fine di settembre 1944, dopo un anno di prigionia, da Colonia fummo trasferiti in una località vicino al confine belga, sistemati alla meglio in un piccolo lager recintato di filo spinato. Dormivamo sulla paglia sotto le tende e per coprirci avevamo una fatiscente coperta mentre l’aria fredda della notte, c’intirizziva. Al mattino ci svegliavano alle quattro, il solito infuso d’erbe amare da consumarsi in fretta e armati di badili e picconi, a piedi raggiungevamo il posto di lavoro che consisteva nel prolungamento e consolidamento della linea difensiva tedesca “Sigfrid”. Molto spesso, appena svegli, non riuscivamo a lavarci la faccia, sia per la scarsità d’acqua e la penuria degli impianti, sia per il tempo ridottissimo che concedevano. La fortuna volle che in quel campo rimanessimo solo alcuni mesi. |
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