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Io ho una fitta nella memoria, incancellabile, una bandiera, e non
so ripensarla, senza sentirmi ancor oggi l’animo sospeso: quella gloriosa,
del 1° Reggimento Granatieri. Era la mattina del 29 maggio 1916. Quasi
tutto il reggimento s'era radunato dietro l'altura del Belmonte. Avevamo
dovuto lasciare in fretta le posizioni di Cima Ardè. I nemici c'inseguivano
con shrapnels e granate.
Il primo battaglione, il battaglione di papà Anfossi stava già coronando
le alture per la difesa. L’animo di tutti era profondamente triste. Il
cielo stesso era triste: nuvole di pioggia gravavano sopra la conca. Ecco
ad un tratto, da ogni parte, levarsi in piedi le figure dei granatieri, che
sfiniti dalla marcia forzata s’erano gettati a terra chi qua chi là, per tutto
l’avvallamento. Sulla strada addossata al monte passa un drappello. E’ la
bandiera del primo. Non sventola, ma è racchiusa nel fodero cerato. Non
l'accompagnano musiche, ma passo di drappello, nel grande silenzio io
non importa che scoppino proiettili nemici: non si odono neppure. Si
ode il silenzio, religioso, e il battito di tutti quei cuori chiusi
nei petti. Un brivido percorre la schiena. Quella bandiera non era
più un simbolo, era una realtà palpitante, era la gloria passata, l'onore
presente del reggimento, fatti sostanza viva; era un pezzo del cuore della
Patria che chiamava a sé riverenti e pronti al sacrificio tutti i piccoli
cuori di quegli uomini affannati. Ho visto lacrime negli occhi, ho visto
tremare le bocche di veterani del Carso, d’Oslavia, del Lenzuolo Bianco.
Mai avevo sentito con tanta profonda commozione, la santità d’una bandiera.
Quella bandiera la scortava il sottotenente Carlo Stuparich. Il giorno dopo,
egli si sacrificava per la sua bandiera. Molti di quei granatieri che s’eran
levati in piedi per salutarla, senza un grido, senza un gesto, la maggior
parte, non ritornarono più.
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Giani Stuparich
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