La storia di Lorenzo Spallino è una bella storia di ieri, significativa anche oggi.
E' la storia di un uomo che conobbe la lotta armata ma che odiava la violenza, tanto da intestarsi, per 7 anni, una scomoda battaglia in Parlamento per limitare l'uso delle armi da parte delle forze di polizia nella lotta al contrabbando, reato a quei tempi molto diffuso. La storia di un cattolico senza integralismi, sempre attento a salvaguardare la sua indipendenza di giudizio, a volte per questo criticato più dagli amici che dagli avversari.
La storia di un uomo colto e semplice, che amava giocare a bocce e leggere George Bernanos, un uomo che provò gli onori ma non l'arroganza del potere.
Nato a Cefalù il 24 settembre 1897, fin da giovanissimo contribuì alla vita sociale e culturale della sua città e insieme ad altri giovani della sinistra cattolica che si ispiravano a don Sturzo, fu (con Giuseppe Giardina e Giuseppe Giglio) tra gli animatori del giornale L'Idea, fondato nel 1920. L'Idea si caratterizzava per il richiamo ai valori della libertà, della giustizia, della pace, nel difficile periodo che seguì alla prima guerra mondiale, (a cui Spallino partecipò come ufficiale di fanteria ottenendo la “croce al merito”). Negli anni dell'affermazione del fascismo, la testata osteggiò la nascente dittatura pagando la sua indipendenza con la sospensione delle pubblicazioni.
Uno stralcio dell'articolo apparso dopo la morte di Matteotti e le violenze che ne seguirono, testimonia l’acutezza politica del giovane Spallino che, mentre molti cattolici, sedotti dal fascismo, ne abbracciavano l'ideologia, aveva subito compreso, al di là delle propagande populistiche, la natura profondamente violenta e antidemocratica del Regime: “Dopo il 1870 l’Italia non ha avuto per fatti e idee politiche tanti morti quanti in questi ultimi tempi in cui tanto si parla di rigenerazione, grandezza, amore di Patria. Ora la misura è colma. Noi invochiamo pace, giustizia e libertà. Tutte cose che non ci sono neanche apparentemente, perché per avere pace occorre sottomettersi, per avere giustizia occorre passare all’altra sponda, per avere libertà occorre confrontarsi con i seguaci di Farinacci. Non esistono nazionalisti e antinazionalisti. Esistono dei cittadini a cui fu elargita una Costituzione che garantiva loro la libertà di riunione, di opinione, di stampa.”(citato da D. Portera).
Lorenzo Spallino completò gli studi di giurisprudenza a Como dove conobbe e sposò Linda Fogliani dalla quale ebbe due figli. Membro del Partito Popolare italiano e avvocato del sindacato cattolico delle "Leghe Bianche", negli anni della dittatura svolse un'attività di propaganda antifascista per cui nel ’44 fu deferito al tribunale speciale e arrestato. Partecipò alla Resistenza come capo partigiano e nel 1945 fu fatto il suo nome per trattare la resa della Questura di Como, anche se poi tale trattativa di fatto non ebbe luogo e la vicenda si concluse tragicamente con la morte del questore di Como Pozzoli che pure, per la sua moderatezza, godeva la stima di Spallino e di altri partigiani.
Fu membro del Cnl e nel primo congresso di Napoli del ’45 fu eletto nel Consiglio nazionale della Dc.
Il suo nome appare collegato anche all’inchiesta sul cosiddetto “oro di Dongo”, cioè il “tesoro” di valuta e preziosi che i fascisti in fuga nel Comasco portavano con sé. Nel libro “L’oro di Dongo”, di Urbano Lazzaro, si afferma: “Dopo la Liberazione il CLN di Como in riunione straordinaria di tutti i membri, Stella, Magni, Spallino, Sforni, Boncinelli, Bernardi, Scionti e De Angelis, […..]richiese all’ex comandante del gruppo GAP di Como Sabino Di Sibio, cui erano stati assegnati compiti di polizia, di accertare provenienza e liceità dei materiali ex bellici trattenuti in dotazione o in uso dai diversi Comandi partigiani”. Fu questo l’inizio dell’iter per la ricostruzione del mistero dell’Oro di Dongo. Spallino è menzionato anche nel libro “Ombre sul Lago”, di Giorgio Cavalleri, dove si accenna a una sua interpellanza “circa la conoscenza dei documenti per quanto riguarda il cosiddetto “tesoro di Mussolini”.
Dopo la Liberazione Spallino si dedicò alla carriera politica che non gli fece però mai abbandonare il suo lavoro di avvocato e la sua semplicità di vita. Diventato senatore nel 1948, fu sottosegretario alla Giustizia con Fanfani, Segni e Tambroni, e nel 1957 assunse la carica di ministro delle Poste e Telecomunicazioni .Una curiosità: toccò a lui disporre con procedura d’urgenza il ritiro del famoso francobollo detto "Gronchi rosa", emesso esattamente 50 anni fa nel 1961 in occasione del viaggio del presidente Giovanni Gronchi in Sudamerica, per evitare un incidente diplomatico col Perù che nel francobollo era stato raffigurato erroneamente senza l’area del “triangolo amazzonico”. Il caso provocò interrogazioni parlamentari e persino l’intervento di una commissione d’inchiesta che accertò che l'errore del “Gronchi rosa”, diventato prezioso per il collezionismo, era stato casuale e non programmato per motivi speculativi.
L’anno precedente, 1960, si era verificato un altro episodio singolare: nella trasmissione “Controcanale” la battuta “L'Italia è una repubblica fondata sulle cambiali” pronunciata dal presentatore Corrado, e citata qualche volta ancora oggi, determinò accese polemiche e interrogazioni in Parlamento. Spallino la definì "parodia infelice" e minacciò provvedimenti. A difesa del programma si schierò Indro Montanelli. Tutto finì però con le scuse degli autori e la promessa di “comportarsi bene” in futuro. Il.programma non fu sospeso e completò le 5 puntate previste.(L’episodio è riferito nel libro di Aldo Grasso “Storia della televisione italiana”).
Ma l’anno 1960 si era caratterizzato per ben altri problemi. Fu quello “l’anno del governo Tambroni”. Quando, il 6 aprile 1960, iI governo Tambroni ottenne la fiducia della Camera con i voti a favore di Dc, Msi ed ex monarchici, Lorenzo Spallino, secondo alcune fonti, si dimise insieme ad altri della sinistra democristiana, per protesta e per coerenza con le sue idee antifasciste. Ma altre fonti, come il sito del Senato che ne ricostruisce l'attività politica, lo indicano come sottosegretario di Stato per la Grazia e Giustizia dal 2 aprile 1960 al 25 luglio 1960.
Chi sa se si sarà sentito responsabile dei morti che una polizia a cui per paura della “piazza” era stata data “licenza di uccidere” provocò a Reggio Emilia e in Sicilia (11 morti, uno a Licata, cinque a Reggio Emilia, quattro a Palermo tra cui un ragazzo di 14 anni, uno a Catania), lui che al ripudio etico e umano della violenza si era sempre ispirato.
Fin dall’inizio dei suoi mandati parlamentari, aveva portato avanti una importante battaglia civile volta a impedire l’abuso della reazione armata nella repressione del fenomeno del contrabbando.
Aveva visto con i suoi occhi a Moltrasio i finanzieri sparare contro un'auto che tentava di fuggire, senza che da parte dei contrabbandieri ci fosse stato alcun atteggiamento minaccioso. Aveva sentito, lui avvocato, il racconto di una madre che si era visto uccidere il figlio sorpreso con due sacchi di sigarette. E sapeva, per averne conosciuti e difesi tanti, che quei ragazzi che ai valichi delle frontiere sfidavano la legge non erano criminali, ma gente senza lavoro e senza prospettive per cui ci sarebbero volute soluzioni sociali e non giudiziarie.
Se perdeva qualche processo e il contrabbandiere finiva in carcere, inviava anonimamente del denaro alla famiglia che altrimenti non avrebbe avuto da mangiare.
Quando nel 1952 fu respinta la sua proposta di legge sull' "uso delle armi da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio alla frontiera" , fu visto piangere.
Ma non si diede per vinto.«I contrabbandieri che muoiono uccisi dalla polizia - affermava - sono dei condannati a morte senza processo. E il nostro governo ha abolito la pena di morte». Ripresentò ogni anno negli anni successivi la proposta, considerato un "donchisciotte" anche dai compagni di partito, finchè nel 1958 la legge che impediva la "licenza di uccidere" fu finalmente approvata.
Spallino morì in un incidente stradale il 27 maggio 1962. Amava l'arte e non risparmiava per acquistare quadri d’arte moderna -Casorati, Carrà, Frisia, Campigli, Manzù, Guttuso,.-, meritandosi qualche rimprovero della moglie, perchè i guadagni dei politici di allora non erano tali da incoraggiare spese "sconsiderate". Quella sera, alla guida della sua auto, una vecchia Lancia, -niente auto blu, niente autista- ritornava da Milano, dalla casa dell’artista Mario Sironi dove era andato ad acquistare due dipinti. Erano due oli su tela, e raffiguravano dei contrabbandieri.
Il giorno dopo L’Unità, giornale del Partito Comunista, titolava: «È morto un galantuomo».
Angela Diana Di Francesca
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