L’anoressia è una malattia che si nasconde nel simbolo, nella metafora, lo spostamento dei significati.
Il cibo è per l’uomo la cosa più importante, irrinunciabile. Senza di esso non si sopravvive. Rinunciare al cibo è in genere una forma di protesta. Lo sciopero della fame si propone di attirare l’attenzione mediante una sorta di ricatto, che si basa sulla fiducia: si ha fiducia che altri esseri umani non accetteranno che un loro simile si lasci morire.
Nell’anoressia spesso manca la presunzione di fiducia negli altri, che viene sostituita dalla sfida. Io non ho paura ed esercito un potere. Se non esercito un controllo sugli altri e sulle cose, posso però esercitarlo su me stesso. Posso fare a meno di tutto, anche delle cose essenziali della vita. Controllo la vita.
Il cibo ha una fondamentale importanza nel rapporto figli-genitori e comunque tra accudito e accudiente. Non è raro il caso di genitori distratti o indifferenti ai bisogni psicologici ed emotivi dei figli, ma che tuttavia sono attenti ai loro problemi fisici, alla salute fisica, al loro peso, alla loro crescita.
Frustrare questo atteggiamento, ribaltando la situazione e privilegiando il problema psicologico è un modo di dire:”Tu guardi solo una cosa, la salute del corpo, ma questo non basta. Ti dimostro che il tuo amore è sbagliato respingendo quello che mi offri, perché quello che mi offri non è quello che mi serve. Di questo posso fare a meno. Ho bisogno di altro. Guarda come sono realmente. Il tuo cibo non può nutrirmi”
L’invisibilità paradossalmente diventa visibilità.
Io ora sono vista; ma non sono accettata, come non lo ero prima.
A sviluppare le patologie da disturbo alimentare sono quasi sempre figli su cui si investe molto da parte dei genitori, quelli che “non danno problemi”, maturi, responsabili, oppressi dalle aspettative, responsabilità, sensi di colpa. I figli “vivaci”, che i genitori amano a prescindere dai problemi che danno o proprio per i problemi che danno, sono sicuri di essere amati per sé. Gli altri non sono affatto sicuri di essere amati se non in dipendenza da qualcosa che ci si aspetta da loro.”Non ami me ma ti aspetti qualcosa da me, ami ciò che posso (devo?) darti”.
L’anoressia è rifiuto della concezione utilitaristica della cura e dell’amore, è rifiuto di crescere se (poiché) crescere vuol dire essere fagocitati dall’adulto, è rifiuto di “farsi mangiare”, di nutrire l’altro senza avere niente in cambio e anzi essendo cannibalizzati, deprivati di se stessi.
Il rifiuto di crescere,- sia esso una punizione per il genitore “colpevole”, o espressione del proprio rifiuto ad affrontare la vita, o negazione di “esserci” per l’altro che vuole usarci, o un modo di essere Peter Pan-, è alla base di uno dei pochi brani letterari in cui si parla di anoressia al maschile. Il racconto di Ray Bradbury “In trappola”( One Timeless Spring) non è incentrato sull’anoressia come tema, ma lo affronta in filigrana attraverso la descrizione di un disagio psicologico legato alla crescita, e il protagonista è un ragazzino turbato dai cambiamenti che preannunciano l’adolescenza: un personaggio maschile per un problema che investe quasi nella sua totalità l’universo femminile, scritto nel 1975 quando il fenomeno anoressia non era ancora al centro dell’attenzione. Eccone l’incipit: «Quella settimana, tanti anni fa, pensavo che mia madre e mio padre mi stessero avvelenando. Oggi, vent’anni dopo, non sono certo che non l’abbiano fatto davvero. Impossibile dirlo… » Il piccolo protagonista che fugge il cibo perché “avvelenato”, in realtà per paura di “cambiare”, che vuole controllare la sua fame per controllare le cose e per garantire l’immutabilità del suo mondo, guarisce dalla paura di crescere grazie alla curiosità e al fascino nuovo che gli detta l’attrazione per colei che prima era solo una piccola amica. Ma la parte più interessante su cui riflettere è senza dubbio quella iniziale dove il disagio si precisa. Suggestivo il titolo italiano, “In trappola”, che individua il senso di costrizione e di soffocamento che bisogna a tutti i costi fermare fermando il divenire.
La favola di Hansel e Gretel esprime bene il concetto della “via di fuga” insito nell’anoressia. I due piccoli Hansel e Gretel vengono ben nutriti dalla strega allo scopo di essere più buoni da mangiare. Essi ingannano la strega che va a controllare se sono abbastanza grassi, facendole toccare un ossicino di pollo. Ecco che in quel momento i bambini si “trasformano” in un osso, e questo salva loro la vita.
E la fiaba inizia con l’allettamento del cibo che ha valenza negativa, di rischio. Dell’offerta del cibo “non ci si può fidare”. La valenza negativa del cibo, il cibo “avvelenato”, che abbiamo visto nel fantasy di Bradbury, è presente nella più famosa delle favole. In “Biancaneve” la mela gustosa e attraente cela il veleno così come la casetta di cioccolata celava l’insidia. E non solo il motivo della morte attraverso il cibo nasce qui esplicitamente da un conflitto tra donne e tra generazioni al cui incrocio sta la conquista della bellezza; ma si intravede obliquamente il tema del doppio e dello specchio come scena primaria. La matrigna è in fondo il mascheramento della “madre cattiva”, ma è anche il lato oscuro di Biancaneve. E in questo intreccio domina un evento in cui è il corpo ad essere protagonista. Il corpo cambia, l’immagine riflessa non ci corrisponde più, la voce dello specchio, non più benevola, ci respinge.
Gli elementi che compongono armoniosamente la fiaba sono tutti al tempo stesso confusamente presenti a svelare un puzzle di inquietante risonanza emotiva.
In “Cappuccetto Rosso” il rapporto col cibo riveste un altro valore. Tre generazioni di donne ruotano attorno a un’offerta di cibo (il panierino con il burro e la focaccia) di cui nessuno usufruirà. La madre devolve alla figlia bambina il compito di nutrire la nonna malata. La bambina dovrebbe così essere accudiente e nutrice, ma l’offerta del cibo si trasforma fino a comprendervi la bambina stessa. Essa porta il cibo, ma l’incontro col lupo la rende desiderata come cibo. La madre che si defila, isolata nella sua indifferenza, è l’unica a non avere alcun contatto col lupo, quel contatto che muta il rapporto col cibo, trasformando il bucolico e innocente contenuto del cestino in un banchetto di carne e sangue.
Per sfuggire al lupo nella sua doppia accezione negativa e positiva, sia cioè come predatore sessuale che come maestro di trasgressione, bisognerebbe ribellarsi all’invito di recare il cibo, di essere “nutrice”. La persona anoressica non è nutrice di se stessa, né nella sua parte infantile, ludica ( per Cappuccetto Rosso il gioco consiste nel vagabondaggio fuori dal sentiero, ma niente del cestino viene assaggiato), né nella sua parte vecchia e saggia (la nonna non riceverà mai il dono del cibo). Essa non riesce a nutrirsi e a nutrire, è invece nutrimento per l’altro che la usa e la manipola. La tentazione è dunque acquisire il potere divenendo protagonisti, per sfuggire alla manipolazione degli altri.
Nella favola di Pollicino,- anche questa basata sul cibo, normale e cannibalico (la famiglia degli orchi), sul mangiare ed essere mangiati-, i genitori a causa della miseria decidono di abbandonare i loro figli nel bosco. Portatori di un messaggio di “legame doppio”, un messaggio atrocemente ambiguo, essi si dolgono della decisione, e quando i piccoli, grazie ai sassolini disseminati, ritrovano la strada di casa, si rallegrano e li coccolano. Alcuni mesi dopo però ritornano al precedente progetto e li riportano nel bosco. Pollicino stavolta ha con sé solo del pane raffermo e tenta, inutilmente, di usare le briciole come segnale per ritrovare la strada. In questo caso il cibo non ha valore per sé, ma trascende il suo valore proprio: non viene mangiato, ma serve per marcare una traccia, un percorso che porti in salvo. Esso è un mezzo, un segno per tornare a casa, essere riaccolto nell’amore.
Il cibo ha spesso una sua valenza altra, di potere, di scambio, di ricatto, di segno.
C’è una mancanza, un’assenza che non può essere colmata, di cui si denuncia appunto la devastazione, e in nessun modo può porvi rimedio ciò che comunemente è visto come un fattore che apporta benessere. Il cibo non può dare benessere a chi non possiede il nutrimento psichico: questo è il messaggio. Come nella Metamorfosi di Kafka, l’interiore diventa esteriore, la fame psichica col suo inaridimento viene esplicitata ed esibita nell’aspetto esterno.
In “Salomè” di Oscar Wilde è ben descritta la mancanza d’amore che svela l’inutilità del cibo a nutrire la nostra parte più autentica, mancanza d’amore che ha un legame, importantissimo, con la fisicità e lo sguardo. L’amore passa inevitabilmente attraverso la fisicità e lo sguardo: ”Se tu mi avessi guardato, tu mi avresti amato. Io ti ho guardato, e ti ho amato…Io ho fame del tuo corpo, ho sete della tua bellezza, e nessun cibo, nessuna bevanda potranno placare la mia fame, spegnere la mia sete”.
Il corpo inaridito con la sua provocazione “mette in scena” e vendica un’anima affamata.
"Nessuno mi poteva salvare, ...solo uno sguardo d'amore"
(Jean Marais in La Bella e la Bestia, di J. Cocteau)
Angela Diana Di Francesca '); //-->