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E' stato il figlio, di Roberto Alajmo

recensione di Angela Diana Di Francesca





 
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Dopo “Cuore di Madre”, “E’ stato il figlio” ci propone un’altra odissea minima in territori stranieri e consueti. E il percorso narrativo di Alajmo non è l’incursione del turista che scatta la foto nei vicoli del quartiere degradato per segnare al tempo stesso una traccia e una distanza, ma il cammino del viaggiatore che si interroga, che quel vicolo custodisce nel cuore con la lucida pietas dovuta ai perdenti .
A due passi da noi esiste un mondo che ai nostri occhi offre stranezze e stravaganze da testo di etnologia; un mondo dove vigono codici di comportamento e modi di comunicazione che appaiono ostici e incomprensibili, un mondo che si basa su convinzioni e presupposti “altri”, quando non addirittura sul capovolgimento dei valori etici e umani, sul più spiazzante “non senso”. E questo mondo Alajmo indaga con l’attenzione e la curiositas del giornalista , ma anche con empatia, con sguardo amorevole e consapevole, perchè niente dell’umano ci è estraneo.
Il romanzo ha la struttura del giallo e apparentemente è meno cupo di “Cuore di madre”- c’è un interno familiare normale, che celebra i suoi piccoli riti, i gesti della vita di ogni giorno, i pranzi, (ed è spesso il linguaggio della cucina che si incarica di rispecchiare i momenti psicologici della famiglia-v. il pranzo particolare per Tancredi agli arresti domiciliari;o il pranzo dopo la mancata consegna dell’auto “Loredana preparò degli anelletti al forno a cui in segno di afflizione non fece seguire alcun secondo”), le chiacchiere con gli amici, le manifestazioni di protesta (per tutto quello che dovrebbe essere , in condizioni normali, normale- il lavoro, l’acqua…), la gita alla spiaggia. Un interno familiare con le sue prepotenze, le sue prevaricazioni, le sue ingiustizie, ma dove degli affetti sono comunque presenti.
E tuttavia in questo appartamento lindo che si distingue dallo squallore circostante, in questo piccolo avamposto dove le donne lottano a loro modo, pulendo e tenendo in ordine, contro il caos dell’esistenza, in questa dimora di umili dove non viene mai a bussare la storia, c’è qualcosa di inesplicabilmente triste, di innocente e corrotto insieme.
Gli affetti finiscono con l’essere esteriori e convenzionali, e sembrano esaurirsi nel formalismo dei ruoli; gli eventi, siano essi di morte o di vita, sigillano una concezione del mondo basata sul provvisorio, sulla frammentazione dell’esistente.
Tutto è precario, dal lavoro alla presenza delle persone, dalle convinzioni ai sentimenti.
Una sola cosa sfugge alla precarietà:l’istinto di sopravvivenza, la caparbia volontà di strappare qualche occasione alla vita. Il centro del nucleo familiare è il padre padrone Nicola, eroe di vitalistica e rassegnata energia, che disprezza il figlio Tancredi per la sua passiva remissività mentre ammira il nipote Masino, già pregiudicato e abile nel riscuotere il pizzo,- Nicola, la cui vita ha come unico splendore il nero lucente di una Volvo, e che trova la morte proprio all’incrocio delle tre coordinate che delimitano il suo relazionarsi con il mondo: la Volvo, Tancredi, Masino.
L’antagonista è Tancredi,”il figlio”, schiacciato dal suo senso di inadeguatezza, che lo ritrae a volte in un’assenza dolcemente autistica. Tancredi, che viene sacrificato senza alcun conflitto spirituale alle esigenze della famiglia,Tancredi, di cui si può parlare come se non fosse presente, che cerca il rifugio di una stanza dove chiudersi a chiave, che si trova protagonista riluttante di una storia che non è la sua. Il titolo del romanzo “E’stato il figlio” lo individua nella sua condizione di figlio, non come individuo autonomo; e l’asserzione che lo concerne è intrisa di paradossale ironia. Gli viene attribuita un’azione, un’azione suprema di affermazione e di potere, a lui che non solo “non è stato”, ma quasi “non è”, a lui che si connota per ciò che non fa, per ciò che subisce.
E in filigrana nelle pagine del romanzo è la presenza-assenza di Serenella, vittima innocente di un dramma che innesca altri drammi, commovente e tenera nel capitolo che descrive il giorno della gita conclusa tragicamente, e dove l’autore rivolge uno sguardo di incantata dolcezza sul mondo dell’infanzia, fino alla scena di cinematografica evidenza del quieto morire della bimba sul marciapiedi, la mente ricolma della grande emozione vissuta, con l’unico rammarico di aver macchiato il vestito.
Se l’elemento visibile che fa da filo conduttore al libro è la macchina maledetta, nera e insanguinata, che sembra uscita dalle pagine di King, in realtà la pietra angolare del romanzo è la mostruosa, incomprensibile decisione di comprare un’auto da 80 milioni col risarcimento ottenuto per la morte della bambina. Eppure paradossalmente è proprio attraverso questa mostruosità che passa il diritto alla pienezza della condizione umana.
Questa umanità verghiana dove nulla esula dalla materialità, dalle dure necessità della vita, dove è impensabile il lusso di un pensiero puramente speculativo o l’aprirsi di uno spiraglio dell’anima, dove anche gli affetti hanno una risonanza opaca, dove, nonostante la spettacolarità che accompagna la morte, la perdita di una persona viene assorbita con pronta rassegnazione e ascritta al fluire di una feroce casualità con cui è inutile misurarsi, questa umanità irredenta possiede tuttavia qualcosa che la innalza al di sopra dell’esistenza dei bruti, restituendole per vie impervie e corrotte un anelito di vita spirituale- possiede la capacità di desiderare. E non è il desiderio concreto, ragionevole, quello che cattura la nostra mente , quello che ci affascina e ci sfida come una sciarada mentre entriamo nella psicologia dei protagonisti. Non è l’innocente desiderio di possedere una casa, una cucina nuova, un bar da gestire, un armadio con gli specchi, ma il “non senso” del desiderio futile, gratuito e perciò stesso più importante, che cambia la vita con la sua assurda inutilità:il nero splendore di una Volvo nera, che convoglia in sé le invidie e il rispetto dei vicini, la voglia di riscatto, la bellezza pura di un sogno insensato.
E’ Nicola, il personaggio più duro e deciso, a imporre il suo sogno agli altri; ma la sua forzatura si fa strada in un terreno preparato ad accoglierla. Il genio della lampada solo per questa volta passa dalla misera stradina dove abitano i Ciraulo; passa con dita insanguinate, ma esaudirà comunque un desiderio. E il desiderio sarà fuori misura, assurdo, incomprensibile, come fuori misura, assurda, incomprensibile è la morte di Serenella.
Come Maupassant, anche Alajmo possiede quello che Tolstoi chiamava “un don d’attention”, un dono di attenzione che gli permette di “scoprire nelle cose e nelle manifestazioni della vita gli aspetti che li caratterizzano ma che restano invisibili agli altri”-ed è questo dono di attenzione che ci fa scoprire la persona sotto la maschera pittoresca, che ci fa aprire un varco per guardare dentro le mura della città sconosciuta, che ci fa interrogare su quanto difficile sia “amare lo straniero/senza tradurre la sua diversità”.

 

 

Angela Diana Di Francesca