GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI

sonetti




SONETTI LICENZIOSI


ER PADRE DE LI SANTI

Er cazzo se pò dì radica, ucello,
Cicio, nerbo, tortore, pennarolo,
Pezzo-de-carne, manico, cetrolo,
Asperge, cucuzzola e stennarello.

Cavicchio, canaletto e chiavistello,
Er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,
Attaccapanni, moccolo, bruggnolo,
Inguilla, torciorecchio, e manganello.

Zeppa e batocco, cavola e tturaccio,
E maritozzo, e cannella, e ppipino,
E ssalame, e ssarciccia, e ssanguinaccio.

Poi scafa, canocchiale, arma, bambino,
Poi torzo, cresscimmano, catenaccio,
Mànnola, e mi'-fratello-piccinino.

E te lascio perzino
Ch'er mi' dottore lo chiama cotale,
Fallo, asta, verga e membro naturale.

Quer vecchio de spezziale
Dice Priapo; e la su' moje pene,
Segno per dio che nun je torna bene.

Roma, 6 dicembre 1832









IL PADRE DEI SANTI [1]

Il genitale maschile può dirsi radice, uccello,
Uccellino, nerbo, bastone, porta-penne [2]
Pezzo-di-carne, manico, cetriolo,
Aspersorio, zucchina e mattarello.

Cavicchia, paletta [3], chiavistello,
Il giunco, il guercio, il mio, nerchia, piolo,
Attaccapanni, mozzicone [di candela], fungo [4],
Anguilla, listello [5] e manganello.

Zeppa e batacchio, cavola [6] e turacciolo,
E maritozzo, e cannula, e pipino,
E salame, e salsiccia, e sanguinaccio.

Poi baccello, cannocchiale, arma, bambino,
Poi torso, cresci-in-mano, catenaccio,
Mandorla e mio-fratello-piccolino.

E ci aggiungo persino
Che il mio dottore lo chiama cotale,
Fallo, asta, verga e membro naturale.

Quel vecchio del farmacista
Dice Priapo, e sua moglie pene,
Segno, per Dio, che non le torna bene.

Roma, 6 dicembre 1832

[1] · Uno dei più famosi sonetti di Belli, il cui nome nella primitiva stesura avrebbe dovuto essere "Cinquanta nomi".
[2] · Cioè astuccio per le penne d'oca.
[3] · Strumento usato per tirare su riso, legumi, ecc.
[4] · Il "brugnolo" è un tipo di fungo mangereccio.
[5] · Segmento di legno per chiudere fessure, rinforzare i mobili, ecc.
[6] · Rubinetto della botte, per spillarne il contenuto.


LA MADRE DE LE SANTE

Chi vò chiede la monna a Caterina,
Pe ffasse intenne da la gente dotta
Je toccherebbe a dì: vurva, vaccina,
E dà giù co la cunna e co la potta.

Ma noantri fijacci de miggnotta
Dimo cella, patacca, passerina,
Fessa, spacco, fissura, bucia, grotta,
Fregna, fica, ciavatta, chitarrina.

Sorca, vaschetta, fodero, frittella,
Cicia, sporta, perucca, varpelosa,
Chiavica, gattarola, finestrella.

Fischiarola, quer-fatto, quela-cosa,
Urinale, fracoscio, ciumachella,
La-gabbia-der-pipino, e la-brodosa.

E si vòi la cimosa,
Chi la chiama vergogna, e chi natura,
Chi ciufeca, tajola e sepportura.

Roma, 6 dicembre 1832







LA MADRE DELLE SANTE [1]

Chi vuol chiedere il sesso a Caterina,
Per farsi capire dalla gente dotta
Sarebbe costretto a dire vulva, vagina [2],
E proseguire con cunno e con potta [3].

Ma noi altri gente alla buona
Diciamo cella, patacca, passerina,
Fessa, spacco, fessura, buca, grotta,
Fregna, fica, ciabatta, chitarrina.

Sorca [4], vaschetta, fodero, frittella,
Uccellina, sporta, parrucca, varpelosa,
Chiavica, gattaiuola [5], finestrella.

Fischiaiola, quel-fatto, quella-cosa,
Urinale, fracosce, lumachella,
La-gabbia-del-pipino, e la-brodosa.

E per concludere, se vuoi,
Chi la chiama vergogna, chi natura,
Chi ciofeca, tagliola e sepoltura.

Roma, 6 dicembre 1832

[1] · Legittimo seguito del sonetto precedente.
[2] · "Vaccina" è una furbesca fusione di "vagina" e "vacca".
[3] · Termini non più in uso; il primo deriva dal latino "cunnus" (genitali femminili).
[4] · La femmina del sorcio.
[5] · Pertugio che consente il transito ai gatti.


ER COMMERCIO LIBBERO

Be'? So' pputtana, venno la mi' pelle:
Fo la miggnotta, si, sto ar cancelletto:
Lo pijo in quello largo e in quello stretto:
C'è gnent'antro da dì? Che cose belle!

Ma ce sò stat'io puro, sor cazzetto,
Zitella com'e tutte le zitelle;
E mo nun c'è chi avanzi bajocchelle
Su la lana e la paja der mi' letto.

Sai de che me laggn'io? No der mestiere
Che ssarìa bell'e bono, e quanno butta
Nun pò ttrovasse ar monno antro piacere.

Ma de ste dame che stanno anniscoste
Me laggno, che, vedenno quanto frutta
Lo scortico, ciarrubbeno le poste.

Roma, 16 dicembre 1832








IL LIBERO COMMERCIO

Ebbene? Sono puttana, vendo la mia pelle:
Faccio la prostituta, sì, sto al cancelletto [1] :
Lo prendo in quello largo e in quello stretto [2] :
C'è nient'altro da dire? Che belle cose! [3]

Ma, signor babbeo, sono stata anch'io
Vergine come tutte le ragazze;
E adesso non v'è alcun debitore
Sulla lana e la paglia del mio letto. [4]

Sai di cosa mi lagno? Non del mestiere
Che sarebbe bello e buono, e quando rende
Non può trovarsi al mondo altro piacere.

Ma di queste dame che stanno nascoste
Mi lagno, le quali, vedendo quanto frutta
L'attività, ci rubano i clienti.

Roma, 16 dicembre 1832

[1] · Le prostitute usavano mostrarsi da locali che davano sulla strada chiusi da un cancello basso, così che la parte superiore agiva da finestra.
[2] · Evidente allusione a... varie pratiche sessuali.
[3] · Evidentemente obiettando ad una critica mossale.
[4] · L'intera frase ha il significato di:
"E ora non vi è nessuno che non abbia conosciuto il mio letto".




TEMI BIBLICI


LA CREAZZIONE DER MONNO

L'anno che Gesucristo impastò er monno,
Ché pe impastallo già c'era la pasta,
Verde lo vorze fà, grosso e ritonno,
All'uso d'un cocommero de tasta.

Fece un zole, una luna e un mappamonno,
Ma de le stelle poi dì una catasta:
Su ucelli, bestie immezzo, e pesci in fonno:
Piantò le piante, e doppo disse: "Abbasta".

Me scordavo de dì che creò l'omo,
E coll'omo la donna, Adamo e Eva;
E je proibbì de nun toccaje un pomo.

Ma appena che a maggnà l'ebbe viduti,
Strillò per dio con quanta voce aveva:
"Ommini da vienì, sete futtuti"

Terni, 4 ottobre 1831






LA CREAZIONE DEL MONDO

L'anno che Gesù Cristo impastò il mondo,
Per impastare il quale vi era già la pasta,
Lo volle fare verde, grosso e rotondo
In guisa di un'anguria da tassello [1].

Fece un sole, una luna e un mappamondo [2],
Ma di stelle, poi, dì pure una moltitudine:
Su gli uccelli, bestie in mezzo, e pesci in fondo:
Piantò le piante, e quindi disse: "Basta".

Mi dimenticavo di dire che creò l'uomo,
E con l'uomo la donna, Adamo ed Eva;
E proibì loro di toccargli un pomo.

Ma non appena li ebbe visti mangiare,
Strillò, per Dio, con quanta voce aveva:
"Uomini a venire, siete nei guai".

Terni, 4 ottobre 1831

[1] · A Roma si usa comunemente sondare il grado di maturità delle angurie (o cocomeri) praticandovi un tassello ad una delle estremità; la "tasta", però, è più specificamente lo specillo o sondino.
[2] · Cioè il globo terracqueo.


ER GIORNO DER GIUDIZZIO

Quattro angioloni co le tromme in bocca
Se metteranno uno pe cantone
A ssonà: poi co ttanto de vocione
Cominceranno a dì: "Fora a chi ttocca".

Allora vierà su una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe ripijà ffigura de perzone
Come purcini attorno de la biocca.

E sta biocca sarà Dio benedetto,
Che ne farà du' parte, bianca, e nera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.

All'urtimo uscirà 'na sonajera
D'angioli, e, come si ss'annassi a letto,
Smorzeranno li lumi, e bona sera.

Roma, 25 novembre 1831





IL GIORNO DEL GIUDIZIO [1]

Quattro grandi angeli con le trombe in bocca
Si disporranno uno per angolo
A suonare: poi con tanto di vocione
Cominceranno col dire: "Sotto a chi tocca".

Allora verrà su una moltitudine
Di scheletri dalla terra, a carponi,
Per riprendere sembianze umane
Come pulcini attorno alla chioccia.

E questa chioccia sarà Dio benedetto,
Il quale ne farà due parti, bianca, e nera:
Una per andare in cantina, una sul tetto. [2]

In ultimo uscirà una schiera
D'angeli, e come se si andasse a letto,
Smorzeranno le luci, e buona sera.

Roma, 25 novembre 1831

[1] · Uno dei più famosi sonetti belliani, nel quale la forza della scena è stata spesso paragonata a quella di un quadro barocco.
Questo è anche uno dei pochi sonetti dal finale non umoristico.
[2] · Cioè all'inferno e in paradiso


LOTTE A CASA

Cor zu' bravo sbordone a manimanca,
Du' pellegrini a or de vemmaria
Cercaveno indov'era l'osteria,
Perc'uno aveva male in d'una cianca.

Ce s'incontra er zor Lotte, e je spalanca
Er portone dicenno: "A casa mia"
E loro je risposeno: "Per dia
Dimani sarai fio de l'oca bianca".

Quelli ereno du' angeli, fratello,
Che ar vedelli passà li Ghimorrini
Se sentinno addrizzà tutti l'ucello.

E arrivonno a strillà, fiji de mulo:
"Lotte, mannece giù li pellegrini,
Che ce serveno a noi pe daje in culo".

Roma, 17 gennaio 1832













LOT A CASA [1]


Col loro bravo bordone nella sinistra,
Due pellegrini a ora di Ave Maria [2]
Cercavano dov'era l'osteria,
Perché uno aveva male ad una gamba.

Incontrano il signor Lot, che spalanca
Loro il portone dicendo: "A casa mia"
E loro gli rispondono: "Per Dio
Domani sarai figlio dell'oca bianca" [3].

Quelli erano due angeli, fratello,
A veder passare i quali gli abitanti di Gomorra [4]
Si sentirono sessualmente stimolati. [5]

E quei figli di mulo arrivarono persino a gridare:
"Lot, mandaci giù i pellegrini,
Ci occorrono per sodomizzarli".

Roma, 17 gennaio 1832

[1] · Secondo la Genesi, due angeli travestiti da pellegrini furono inviati a Sodoma per distruggere la città a causa della perversione dei suoi abitanti.
Ricevettero ospitalità da Lot (il quale, per questa ragione, fu avvisato dagli angeli di fuggire dalla città il giorno successivo, per salvarsi). Gli abitanti di Sodoma si radunarono attorno alla casa di Lot, pretendendo da lui che consegnasse loro i due stranieri.
[2] · Ora equivalente alla nostra mezzanotte.
[3] · Cioè: "Domani sarai un privilegiato".
[4] · Gomorra era l'altra città da distruggere a causa della depravazione; quindi, chi parla non fa alcuna differenza fra gli abitanti dell'una o dell'altra città.
[5] · Letteralmente: "Ebbero tutti un'erezione".



ER COMPANATICO DER PARADISO

Dio doppo avé creato in pochi giorni
Quello che c'è de bello e c'é de brutto,
In paradiso o in de li su' contorni
Creò un rampino e ciattaccò un presciutto.

E disse: "Quella femmina che in tutto
Er tempo che campò nun messe corni,
N'abbi una fetta, acciò non magni asciutto
Er pandecèlo de li nostri forni".

Morze Eva, morze Lia, morze Ribbecca,
Fino inzomma a ttu' moje a man'a mano,
Morzeno tutte, e ppijele a l'inzecca.

E ttutte quante cor cortello in mano
Quando furno a ttajà feceno cecca:
Sò sseimil'anni, e quer presciutto è sano.

Roma, 26 gennaio 1832






IL COMPANATICO DEL PARADISO [1]


Dio, dopo aver creato in pochi giorni
Quello che c'è di bello e di brutto,
In paradiso, o nei suoi paraggi,
Creò un gancio e vi attaccò un prosciutto.

E disse: "Quella donna che in tutta
La sua vita non mise corna,
Ne riceva una fetta, così da non mangiare asciutto
Il pane del cielo dei nostri forni".

Morì Eva, morì Lia, morì Rebecca, [2]
Insomma, fino a tua moglie, a mano a mano,
Morirono tutte, scegli pure a caso.

E tutte quante col coltello in mano
Quando si trovarono a tagliare fecero cilecca:
Sono seimila anni, e quel prosciutto è sano.

Roma, 26 gennaio 1832

[1] · Questo sonetto non è realmente tratto da un soggetto biblico, ma è nello stesso stile.
[2] · Rispettivamente, le mogli di Adamo, Giacobbe e Isacco.



ER DUELLO DE DAVIDE

Cos'è er braccio de Dio! mannà un fischietto
Contr'a quer buggiarone de Golìa,
Che si n'avessi avuto fantasia
Lo poteva ammazzà cor un fichetto!

Eppuro, accusì è. Dio benedetto
Vorze mostrà ppe tutta la Giudia,
Che chi è divoto de Gesù e Maria
Po' stà cor un gigante appett'appetto.

Ar vede un pastorello co la fionna,
Strillò Golìa, sartanno in piede: "Oh cazzo!
Stavorta, fijo mio, l'hai fatta tonna".

Ma er fatto annò ch'er povero regazzo,
Grazzie all'anime sante e a la Madonna,
Lo fece cascà giù come un pupazzo.

Roma, 9 gennaio 1833







IL DUELLO DI DAVIDE

Cos'è la mano di Dio! mandare un ragazzino
Contro quell'omone [1] di Golia,
Che se solo ne avesse avuto voglia
Avrebbe potuto ucciderlo con un buffetto! [2]

Eppure è così. Dio benedetto
Volle mostrare per tutta la Giudea,
Che chi è devoto a Gesù e Maria
Può competere testa a testa con un gigante.

Nel vedere un pastorello con la fionda,
Golia, saltando in piedi, gridò: "Perbacco!
Stavolta, figlio mio, l'hai fatta grossa".

Ma il fatto andò che il povero ragazzo,
Grazie alle anime sante e alla Madonna,
Lo fece cader giù come un pupazzo.

Roma, 9 gennaio 1833

[1] · Il termine "buggiarone" può assumere di volta in volta significati diversi, quali "persona grande e grossa", oppure "stupido", oppure "manigoldo", ecc. ma sempre con una connotazione negativa.
[2] · Il "fichetto" è un gesto di scherzo fatto ad un'altra persona, stringendogli il mento col pollice e il dito medio e premendogli il naso con l'indice.


ER ZAGRIFIZZIO D'ABBRAMO

I
La Bibbia, ch'è una spece d'un'istoria,
Dice che ttra la prima e ssiconn'arca
Abbramo vorze fà da bon patriarca
N'ojocaustico a Dio sur Montemoria.

Pijò dunque un zomaro de la Marca,
Che ssenza comprimenti e ssenza boria,
Stava a pasce er trifojo e la cicoria
Davanti a casa sua come un monarca.

Poi chiamò Isacco e disse: "Fa' un fascetto,
Pija er marraccio, carca er zomarello,
Chiama er garzone, infilete er corpetto,

Saluta mamma, cercheme er cappello;
E annamo via, perché Dio benedetto
Vò un zagrifizzio che nun pòi sapello".

Roma, 16 gennaio 1833





IL SACRIFICIO D'ABRAMO

I
La Bibbia, che è una specie di storia,
Dice che tra la prima e la seconda arca [1]
Abramo volle fare da buon patriarca
Un olocausto a Dio sul Monte Moria. [2]

Prese dunque un asino delle Marche,
Il quale senza complimenti e senza boria,
Stava pascendo il trifoglio e la cicoria
Davanti a casa sua, come un monarca.

Poi chiamò Isacco e disse: "Fai un fascetto,
Prendi il coltello, carica l'asinello,
Chiama il garzone, infilati il giubbetto,

Saluta mamma, cercami il cappello;
E andiamo via, perché Dio benedetto
Vuole un sacrificio che non ti è dato di conoscere".

Roma, 16 gennaio 1833

[1] · La prima arca è quella di Noè, riferita al diluvio universale; la seconda è l'arca dell'alleanza, di Mosè.
[2] · Monte presso Gerusalemme.


ER ZAGRIFIZZIO D'ABBRAMO

II
Doppo fatta un boccon de colazzione
Partirno tutt'e quattro a giorno chiaro,
E camminorno sempre in orazzione
Pe quarche mijo ppiù der centinaro.

"Semo arrivati: alò", disse er vecchione,
"Incollete er fascetto, fijo caro":
Poi, vortannose in là, fece ar garzone:
"Aspettateme qui voi cor zomaro".

Saliva Isacco, e diceva: "Papà,
Ma diteme, la vittima indov'è ?"
E lui j'arisponneva: "Un po' ppiù in là".

Ma quanno finarmente furno sù,
Strillò Abbramo ar fijolo: "Isacco, a tte,
Faccia a tterra: la vittima sei tu".

Roma, 16 gennaio 1833



IL SACRIFICIO D'ABRAMO

II
Dopo fatta un po' di colazione
Partirono tutti e quattro all'alba,
E camminarono sempre in preghiera
Per un po' più di cento miglia.

"Siamo arrivati: dài", disse il vegliardo,
"Càricati il fascetto, figlio caro":
Poi, voltandosi in là, disse al garzone:
"Voi aspettatemi qui con l'asino".

Saliva Isacco, e diceva: "Papà,
Ma ditemi, la vittima dov'è?"
E lui gli rispondeva: "Un po' più in là".

Ma quando finalmente furono sù,
Abramo gridò al figliolo: "Isacco, a te,
Faccia in terra: la vittima sei tu".

Roma, 16 gennaio 1833



ER ZAGRIFIZZIO D'ABBRAMO

III
"Pacenza", dice Isacco ar zu' padraccio,
Se butta s'una pietra inginocchione,
E quer boja de padre arza er marraccio
Tra cap'e collo ar povero cojone.

"Fermete, Abbramo: nun calà quer braccio",
Strilla un Angiolo allora da un cantone:
"Dio te vorze provà co sto setaccio..."
Bee, bee... Chi è quest'antro! è un pecorone.

Inzomma, amici cari, io già sso' stracco
D'ariccontavve er fatto a la distesa.
La pecora morì: fu sarvo Isacco:

E quella pietra che m'avete intesa
Mentovà ssur più bello de l'acciacco,
Sta a Roma, in Borgo-novo, in d'una chiesa.

Roma, 16 gennaio 1833









IL SACRIFICIO D'ABRAMO

III
"Pazienza", dice Isacco al suo crudele padre,
Si butta su una pietra inginocchiato,
E quel padre malvagio alza il coltello [1]
Tra capo e collo del povero sempliciotto.

"Fermati, Abramo: non calare quel braccio",
Strilla allora un Angelo da un angolo:
"Dio ti volle provare con questo setaccio..." [2]
Bee, bee... Chi è quest'altro! è un montone.

Insomma, amici cari, io già son stanco
Di raccontarvi il fatto per esteso.
La pecora morì: fu salvo Isacco:

E quella pietra che mi avete udito
Menzionare sul più bello del sopruso,
Sta a Roma, in Borgo Nuovo, in una chiesa. [3]


Roma, 16 gennaio 1833


[1] · Nel dialetto romano, 'boja' è soprattutto usato nel senso di 'malvagio', 'perfido'.
[2] · Ti volle mettere alla prova, metaforicamente, come si passava al setaccio la farina.
[3] · La chiesa era S.Giacomo Scossacavalli, che sorgeva nell'antico quartiere di Borgo Nuovo, demolito negli anni '30 per realizzare via della Conciliazione.