"Lettera
da Firenze"
di
Tiziano Terzani
(Corriere della Sera, 8 ottobre 2001)
Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui
anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il
cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei
grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio
di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le
stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo,
piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di
scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina
dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa
mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e
non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo
evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo
stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso
dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli
quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive,
quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con
loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio
della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione. Il tuo
sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha
qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che,
dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si
fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto
attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava
riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui
usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità
, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità. Pensare
quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie
alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche
nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore
indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di
questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di
enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue
sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la
bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità
delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai
nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere.
«Conquistare le passioni mi
pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle
armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella
bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo non si metterà di sua
volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per
lui alcuna salvezza».
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli
che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci
salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata
campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà
duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per
sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra
che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa.
Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo
allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una
grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci
un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11
settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto
meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o
semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di
distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi
siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra
disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa
americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi
siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza
regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco
alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora
in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà
necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così
via.
Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di
quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di
poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla
terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo
a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice -
Stati Uniti in testa - d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non
usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità.
Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo
fa un vantaggio morale - di per sé un’arma importante per il futuro -, ma
potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a
catena della vendetta.
In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia
ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il
libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werde n: ethische Politik von
Sokrates bis Mozart ( L’arte di non essere governati: l’etica politica da
Socrate a Mozart ). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato
per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La
affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più
nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le
sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle
Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il
circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il
fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato
Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove
quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il
teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella
formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i
protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti
e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul
senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il
suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli
protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed
i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il
nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto
invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil»,
votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si
fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane.
Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola
di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero
addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte
segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per
l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa
li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa
potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si
preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo,
dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe
essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di
capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si
risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro
c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della
nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a
quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di
altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi
eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è
l’atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la
conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu,
Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale»,
come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici.
Un vecchio accademico
dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo
o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente
diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato
l’America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers
Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari
libri - l’ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l’anno scorso (in
Italia edito da Garzanti ndr ) ha del profetico - si tratterebbe appunto
di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra
Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto
intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.
Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della
disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli,
complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli
interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti
sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in
Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad
oggi. Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono
avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno
dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito
dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la
conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in
particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam.
Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta
brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile
nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo
musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o
meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti
i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la
questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far
restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve
petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per
uscirne è ora.
Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non
studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte
le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere
coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci
eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati
dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un
migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche
l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori,
guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono
fra i petrolieri. A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu
avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo
sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo
paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi
conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia
Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte,
improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da
lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran.
Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni
degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al
Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda
petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry
Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto
attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla
necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco
contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma
non meno determinanti.
È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a
preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera
con quelli dell’industria bellica - combinazione ora prominentemente
rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare
in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare
all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini
di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal
pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi»,
usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura
di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori
giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso
il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra «quelli che stanno con noi e
quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia
alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col
maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici,
ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero
perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli
intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione
essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler
togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri
polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi
del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si
lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi,
specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’establishment mediatico,
c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci
mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un
post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato
Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha
salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in
Vietnam? Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li
capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via
del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi
terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini,
una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li
invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo
ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare
la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non
facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare
campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward
Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un
saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli
attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma
non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della
doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da
noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate
nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli
italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che
cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te
disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano
l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul
Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano
arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno
vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i
filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più
di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti?
Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi
erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli
contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci
provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a
malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò
indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di
Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male
ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le
vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato,
incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la
Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato
di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata
che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che
San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San
Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla
fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva
ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare
che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu
aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non
potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire.
Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo
ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda:
«La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno
fatto diventare l’uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare
debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
«Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel
1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’evoluzione
psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla
psicosi dell’odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per
rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due
fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti
di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo
avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda
Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre
più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire,
dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse
all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che
siete uomini e dimenticatevi tutto il resto».
Per difendersi, Oriana, non
c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per
proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci
delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka , le storie
delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non
violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad
altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno
dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo
previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed
in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia
occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento,
occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi
nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi
responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al
Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati.
Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin
Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della
Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni
dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy,
la scrittrice de Il Dio delle piccole cose : una come te, Oriana, famosa
e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la
Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che
venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della
Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di
Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di
vista di quei morti forse sì.
L’immagine del terrorista
che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il
miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina
l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che
in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo
palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo
ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa
essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con
nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica
chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai
essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che
fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine
di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole
industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini
in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui
è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono,
gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il
riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il
terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a
volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune
del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a
fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi
e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari
paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la
pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su
quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino
del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo
giusto non è mai NATO», c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che
marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che
noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto
si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed
ispirato ad un po’ più di moralità. La vastissima, composita alleanza che
Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e
riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché
ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che
oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava
gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura
possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità
internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi
rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro,
sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della
Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle
mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.
L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per
questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a
distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei
suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo
ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di
liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua
lista nera.
Eppure un giorno la politica
dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore:
migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città
mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la
colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son
loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È
successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera.
Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del
Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria
Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche
Firenze s’è «globalizzata», perché non ha resistito all’assalto di
quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel
giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a
spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima
farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda.
Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più.
Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya
indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a
guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità,
eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti
come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna
ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola
di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri
grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero;
sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto,
molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono
più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la
rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti
auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi
non sarà mai da nessuna parte.