NELLA VALDICHIANA

Le origini della gastronomia toscana e della Valdichiana prendono vita dagli Etruschi. Questi mangiavano due volte al giorno avendo come pasto principale polenta di cereali e grano, il migliore della Penisola; consumavano carni molto cotte o arrostite che condivano con olio, scoperto quest'ultimo prima dai Romani. Facevano polentine con miglio e orzo, che venivano chiamate ''Puls''.

Dopo la caduta dell'Impero vennero i Barbari che passarono, a loro volta, da Arezzo, dato che si trovava sulla strada conducente a Roma.

Quando passavano lasciavano terrore e paura, ma lasciavano anche le loro tradizioni e la cucina si arricchiva di salse, minestre e, forse, anche dell'uso di mangiare sangue cotto, perché questo era costume dei Barbari che lo succhiavano crudo dal collo dei tori, procurandoselo facendo dei fori.

In questo periodo la cucina perse valore in tutta Italia e in Europa. 1 monastici presentarono una tavola modesta e affermarono che bisognava cibarsi di ciò che poteva essere allevato e coltivato. Dettero così largo spazio al consumo di polli. Il cibo comune degli aretini e del contado erano pomi, castagne, erbaggi, pasta di frumento (granelli), torte, migliacci, ceci, fave, tortellini, frittelle, cacio, pesce condito con la agliata e porrata, lepre, fagiano, beccaccia. In questo periodo compaiono i dolci con lo zucchero portato dalla Palestina dai Crociati.

Nel 1200, il contadino consumava circa 16 chili di pane al mese, con pochi grassi, poco companatico e qualche raro bicchiere di vino; nelle paludi della Chiana si pescavano ''lasche'' e attraverso Pisa arrivava la tonnina siciliana e molto più tardi arrivarono anche le aringhe. La carne era poca e la famiglia che riusciva ad ammazzare il maiale si considerava fortunata ed era felice per tutto l'inverno. La situazione non era cambiata neanche il secolo dopo. Nel XV secolo, era già in uso la festa della "smaialatura" e cioè dell'uccisione del porco con le varie preparazioni gastronomiche di costoliccio, fegatelli, prosciutti, salami e tutto quello che il prezioso animale offre, dopo scannato, ai palati anche dei più raffinati.

Sembra certo che la cucina aretina abbia offerto un grande contributo alla nascita di quella francese quando il papa Clemente V stabili la sede ad Avignone e ancor più con Caterina de' Medici che portò al suo seguito dei cuochi fiorentini.

Dalla simbiosi dell'uomo con la terra derivò la tipica organizzazione interna della famiglia rurale della Valdichiana, che ricalcò quella romana, legata al ''fundus''.

La famiglia. contadina ruotava attorno all'indiscussa figura autoritaria del "capoccia", il quale, come il "pater farnilìas" amministrava l'intera comunitá domestica, dirigeva il lavoro delle braccia, trattava ogni "affare", ogni sua decisione tra senza appello.

Il maggiore dei figli, in quanto il più esperto ed anche futuro capoccia, assolveva al più delicato ed importante degli incarichi: curava la stalla. A lui competeva il lavoro, meglio sarebbe dire il rito, dell'aratura, e perciò assumeva la denominazione di "bifolco" (da "bubulca=zolla"), termine che oggi, per inversione dei lavori sociali, ha assunto un significato di ironico disprezzo.

Gli altri figli ed i nipoti assolvevano tutti gli altri incarichi, a seconda delle attitudini di ciascuno, per cui, per esempio, il maggiore innestatore si occupava della vigna, degli ulivi, degli alberi, in generale.

La moglie del capoccia, o la madre, qualora essa fosse ancora viva, dal capoccia precedente assumeva il titolo di "massaia" ed aveva il dominio delle donne, della dispensa, del pollaio e della cucina.

Essa organizzava il lavoro delle figlie, delle nuore e delle nipoti, e sovrintendeva all'educazione dei piccoli, finché non avessero l'età per seguire gli uomini ai campi ed ai mercati.

Assegnava le razioni per la giornata dirigeva la confezione di vestiario, amministrava il ricavato della vendita delle uova e del pollame, che impegnava per l'acquisto della lana, (quando non la filavano in sa), delle stoffe, nonché del sale.

L'autorità, unica, a cui sottostava era quella del capoccia

L'economia alimentare di una organizzazione di questo genere era, necessariamente, autarchica e nonostante le possibilità notevoli che certi poderi erano in grado di offrire, il pasto era sempre frugale.

I polli ed i piccioni non venivano impiegati per la mensa quotidiana, si preferiva venderli, conservando per la famiglia qualche capo da consumare per i pranzi tradizionali di Pasqua, Natale, della festa del patrono, dell’"armèno" (ritorno per un incontro con tutti i parenti), e per a conoscenza prima delle nozze dei parenti della sposa e dello sposo.

La sola carne, oltre quella del maiale, che si usava con qualche frequenza, era quella di coniglio.

Anche l'orto, che avrebbe potuto offrire qualche variante al modesto menù contadino, veniva trascurato poiché richiedeva cure che avrebbero distolto dai più impegnativi lavori.

Le verdure, comunemente coltivate, erano il cavolo, con predileziose per quello nero, il radicchio, qualche "gobbo" (cardo alimentare), un po' di bietola, spinaci, ma soprattutto patate, cipolla ed aglio (frittate di aglietti). Il sedano (senoro, in dialetto chianaiolo) veniva tenuto unicamente per "odore" insieme al prezzemolo, al basilico, alla salvia, al rosmarino.

Notevole spazio, nell'orto, era riservato ai fagioli, alla cipolla, ai pomodori, i quali ultimi venivano conservati in bottiglie, per l'uso invernale, oppure attaccati (a piccie, i pendolini) ai soffitti dei granai.

Un'usanza, abbastanza frequente, era quella di consumare pasta fatta in casa e del resto la massaia ne aveva di uova a disposizione!

In Valdichiana l'usanza continua tutt'oggi (soprattutto nelle famiglie dove c'è una donna di una certa età), ma è più semplice e meno faticoso comperare pasta fresca, magari del pastificio artigianale o industriale.

Le nonne usavano la forza delle loro braccia e dopo aver impastato uova, farina acqua, di solito nella "madia", trasferivano l'impasto sulla spianatoia (che non a caso si chiamava cosi) e, con il mattarello ("cernicchio" in dialetto) la stendevano e arrotalavano la sfoglia intorno ad esso lisciandola con mani per affinarla di più. La massaia, con un movimento rapido la faceva "schioccare" sul ripiano. E così via, fino a ridurre la sfoglia sottilissima e rotonda (sembrava fatta con un compasso!). Quindi la lasciavano asciugare e di nuovo la ripiegavano facendola combaciare verso il centro, perché tagliandola ne venivano delle "matasse".

Era pronta così per essere gettata nel paiolo, che, nel frattempo era stato messo sul camino, a fuoco "allegro", affinché l'acqua bollisse e messa la pasta dentro non si "affaldellasse", ma si dividesse bene.

Appena cotta la pasta, si appoggiava il paiolo sul bordo dell'acquaio, si copriva con un coperchio e, tenendo questo in pressione con la mano destra, si inclinava il paiolo in modo che l'acqua colasse dalla fessura tra l'orlo ed il coperchio. Potete immaginare! Gran parte dell'acqua restava insieme ai "maccheroni" (parola dialettale che sta per lasagne o fettuccine).

E il sugo? Era fatto con il fegato e la testa del coniglio, che veniva più o meno finemente triturata sul tagliere, con tutte le ossa.

A questo punto si univa, nel tegame, per lo più di coccio, il pomodoro, e ne risultava un intruglio saporoso si, ma che versato sui maccheroni, si diluiva con l'acqua rimasta. Che pranzo! La massaia ne andava orgogliosa ed i commensali erano a nozze!

Ed oggi? Ora che l'entusiasmo per le cose moderne tutte metallo e vernice, va sfumando, la gente ha cominciato a ricordare, a ricercare le buone cose di una volta e un modo di vivere irrimediabilmente perduto.

In cucina, scatolette, surgelati, confezioni sottovuoto e conserve, vengono consumate con indifferenza. Questi cibi confezionati, privi di sapore e spesso adulterati, permettono di portare in tavola un ottimo pranzo che potrebbe essere così commentato: "apri e disgustati". La Valdichiana è patria della cucina contadina, o, come oggi si usa dire, "povera". Certo occorre distogliere un po' del nostro tempo dalla frenesia dei giorni senza quiete, per pazientare intorno ai fornelli: il risultato ripaga certamente in gusto e qualità.

Gli ingredienti della cucina povera sono quelli che, nel passato, si trovano nell'orto di casa, senza bisogno di cavare dal portafoglio la moneta che, peraltro, non c'era. Molti piatti si basavano sulla freschezza degli ortaggi e sulla bontà del pane e completava la"cornice" l'ambiente rustico in cui venivano consumati.

Chi pure seguisse alla lettera le ricette della cucina povera, ma usasse il pane che, solitamente, s'acquista nei supermercati e gli ortaggi o condimenti che ci giungono dopo una serie di passaggi di mano, porterebbe sulla tavola pietanze che non hanno il sapore dei tradizionali piatti di una volta.

Nonostante ciò, nella gastronomia vale sempre il motto: "con l'olio e con il sale, è buono anche uno stivale". Più precisamente pane, vino, olio sono elementi sufficienti per realizzare piatti caratteristici. Addirittura, con il pane raffermo, quello che una volta rimaneva nella "madia" vengono cucinati i piatti più rinomati: la ribollita, la panzanella e la pappa.

Nomenclatura Dei Pasti

La nomenclatura dei pasti è legata alle abitudini delle comunità religiose. Poiché la giornata si iniziava "rompendo il digiuno", si adottò per la refezione mattutina il termine DESDEJUNARE, da cui derivano "déjener" e l'italiano DESINARE.

Altri fanno derivare "desinare" da "DIGNERIUM", le prime parole della preghiera DIGNERE DOMINUM, recitate all'inizio del pasto.

Talvolta, ci si accontentava di riunire gli avanzi del giomo prima (detto "collazionare" gli avanzi e da Ciò COLLATION e colazione).

Pranzo nasce da PRANDIUM, la colazione del mezzogiorno. Il significato originario doveva essere quello di "primo pasto".

Cena nasce dal latino COENA, il pasto principale della giornata, che i Romani consumavano tra le tre e le quattro del pomeriggio.

Forse la parola nasce da KERT-SNA= porzione Merenda è il gerundio latino del verbo MERERE, meritare; letteralmente "cose da merítare".

Pane e companatico

Il pane è sempre stato considerato "na binidizione": fortunata era la famiglia che ne aveva per "sfamasse". Agli inizi del '900, di pane bianco, soprattutto in montagna, neppure a parlarne.

In seguito, migliorate le condizioni economiche, insieme al pane, si cominciò a mangiare qualcosa che lo insaporisse.

Diamo qui un elenco delle cose più semplici che accompagnavano il pane, secondo un ordine che parte dagli alimenti più antichi ai più recenti.

Pane e...

cipolla

aglio

pomodoro (in seguito con aggiunta di olio e pepe)

frutta fresca (ciliege "guisciole", fichi, uva, popone, cocomero ecc.)

frutta secca (fichi, "picce", uva secca, noci, mandorle)

ortaggi (sedano, cetriolo)

strutto di maiale (con aggiunta di salvia)

olio sale; oppure olio - aceto - sale

vino (in seguito con aggiunta di zucchero soprattutto per i bambini a merenda)

farina dolce

salumi

sarde e baccalà. (I più poveri mangiavano anche soltanto il sale, cospargendone le fette di pane)

formaggio

olio rimasto nella cottura della carne

bruschetta (oggi invece la fantasia può sbizzarrirsi nel preparare mille crostini).

e con gli avanzi del pane?

Neanche una briciola di pane, un tempo poteva venire sprecata. Ecco quindi la necessità di inventare modi diversi per il suo riutilizzo.

Vediamone alcuni:

Le fette di pane indurite potevano essere bagnate con acqua e poi insaporite con olio e sale, con zucchero o mangiate anche sole.

Il pane rimesso in forno "rinveniva", si ammorbidiva.

Si grattava per fare il "pan del garzone" (vedi ricetta) o per riempire i colli di animali da cortile (quest'uso è però più recente, per ovvi motivi, rispetto al primo).

Poteva servire per la pappa, un tempo riservata ai bambini piccoli; era anzi preferibile il pane rinsecchito e meglio ancora la crosta.

-E' noto a tutti l'utilizzo per la panzanella.

Si usava per fare la bruschetta (dato che le fette vanno abbrustolite, la morbidezza non era indispensabile).

Ogni tipo di pane, anche piccoli tozzi avanzati, andava bene per la cosiddetta "minestra di pane". Il pane tostato poteva essere sbriciolato sulla verdura, quando veniva riscaldata con aglio e olio.

Il pane arrostito, strofinato con un po' di aglio, era anche bagnato nell'acqua di cottura del cavolo e si serviva con sopra dei pezzetti di cavolo, salato e pepato. Al posto dell'acqua di cavolo poteva essere utilizzato il brodo di fagioli, magari con l'aggiunta sopra di qualche cucchiaiata di questi.

 

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