Le favolose origini della città.
Il tempio solenne che sull'alto di un contrafforte del monte Barbaro proietta sul cielo azzurro la sua dorica bellezza è troppo forte richiamo, perché dal castello di Calatafimi noi non dobbiamo discendere per la vallata del Gaggera e seguendo per buon tratto la strada che conduce a Castellamare del Golfo, internarci fra le valli, vallette e ripiegature che dal massiccio del Barbaro, traggono formazione per ricercare fra ruderi e rovine memoria dell'antica gloria di Segesta.
Le origini di questa città, che tenne tanto posto nella storia greco-punico-ro-mana, si perde, più che nella classica notte dei tempi, in un inestricabile garbuglio di leggende, favole e mitologie, raccolte, ampliate, illustrate, ornate di fantastiche particolarità dagli storici greci e romani primi, da quelli bizantini poi, si che ogni traccia del vero va smarrita.
Narra Strabone che Egesta venne fondata da Egeste, venuto da Crotone in Sicilia con un pugno di seguaci di Filottete, insieme ad Enea, Anchise, Ascanio Elimio, ed altri, tutti fuggenti dall'eccidio di Troja e sbalestrati da una bufera sul Lilibeo, donde, passando sul monte Erice ed internandosi nelle vicine vallate, vi fondarono città, fra cui appunto Egesta.
Tucilide fa dei seguaci di Filottete, dei Focesi in luogo che dei Trojani. Cicerone, parlando in Senato contro Verre, spogliatore e saccheggiatore della Sicilia, accusato, fra le altre ruberie, di aver tolto a Segesta la statua di Cerere, già tolta a quella città dai Cartaginesi, e restituita ad essa dai Romani dopo la terza guerra punica, disse avere la città sicula le stesse origini trojane di Roma ed invoca anzi questa parentela ed affinità di sangue.
Viene poi Dionigio d'Alicarnasso, il quale ricama ancora una volta su questa origine trojana e sulle ftvole di Enea e di Elimo.
Una curiosa versione della fondazione dl Segesta la dà lo storico Stefano da Bisanzio nel suo Lessico Geografico.
Costui pretenderebbe fosse Egesta fondata da Aceste, figlio di una delle tre figlie di Fenodonte, la quale, venuta non si sa perché, né come, in Sicilia, dopo il famoso eccidio di Troja, ebbe la debolezza di innamorarsi del fiume Crimiso, il quale le appariva sotto le spoglie di cane.
Dal mostruoso connubio sarebbe nato quell'Aceste che, secondo il fantastico bizantino avrebbe fatto sorgere dal nulla Segesta.
Questa leggenda è forse derivata dal fatto che talune monete segestine portano l'impronta di un cane, cosa del resto non infrequente nelle monete punico-sicule del tempo.
Questa stessa favola degli amori della figlia di Fenodonte col fiume Crimiso, fu anche narrata dal Licofrone, altro autore greco.
Tutte queste fiabe non possono più smuovere gli eruditi dalla convinzione che Segesta, in origine, non sia stata una delle città fondate dagli aborigeni Sicani, al tempo della loro immigrazione nella parte occidentale dell'isola, il che è quanto dire parecchi secoli prima della caduta di Trroja; che essa fu una delle prime città italiche fondate dalle razze autoctone italiche (alle quali i poeti, gli storici e i geografi della susseguente civiltà greco-romana, quando non affibbiavano le fantastiche parvenze dei giganti, dei ciclopi, dei Lestrigoni, oppure la immonda natura dei Lotofagi, appioppavano pur sempre l'aggeettivo di barbarti ch'essa sorse coi primi albori della vita storica italica, e che infine le sanguinose guerre sostenute nel processo dei tempi colla non lontana Selinunte, non erano, come fantasticarono i sopraddetti inventori di favole, una continuazione della guerra di Troja, per l'essere i Segestani di sangue trojano ed i Selinuntini di sangue greco, ma bensì guerre dovute al bisogno di espansione e di preminenza, quali furono in tempi a noi ben più vicini, le lotte che dilaniarono i comuni italiani nel medioevo. Soltanto quando coll'immigrazione dei Greci penetrarono in Sicilia le invenzioni dei loro poeti e tutta la poesia mitologica, soltanto allora, diciamo i Segestani, credendosi davvero discesi da lombi trojani, ed i Selinuntini da lombi ellenici, credettero trovare nelle antiche contese, che li tenevano divisi ed in armi le cause ereditarie e la derivazione di quell'odio per il quale la Grecia fu condotta alla distruzione di Troja.
La città nella storia.
Fuori della leggenda la storia di Segesta si riassume principalmente nella lunga serie di guerre da essa sostenute con la vicina e forte Selinunte.
Minacciata più volte nella sua esistenza, malgrado le pretese sue origini trojane, noi vediamo Segesta ricorrere all'alleanza degli Ateniesi, per aver ragione di Selinunte, e gli Ateniesi sconfitti, eccola a chiamare Cartaginesi, coi quali era già in buoni rapporti di vicinato per le colonie prosperosissime che costoro avevano in Solunto, Panormo, Mozia e Lilibeo.
È dalla chiamata di Segesta che comincia il periodo di quella specie di dominazione cartaginese in questa parte della Sicilia e non prima, poiché vi furono è vero, qua e là per la costa occidentale e settentrionale dell'isola, delle colonie fenicie, ma erano colonie di trafficanti, di navigatori, che in quei punti avevano stabiliti i loro empori in comunicazione coll'emporio massimo, Cartagine, e che nulla avevano dei caratteri della vera dominazione politicomilitare.
Ii periodo della invasione punica o cartaginese, propriamente detta , comincia dunque, per chiamata di Segesta, colla venuta di truppe africane sotto il comando di Annibale Giscone, da non confondersi col vincitore di Canne nell'anno IV della XLII Olimpiade, vale a dire verso l'anno 404 avanti Cristo.
Questa spedizione fu uno dei punti più importanti della storia di Cartagine, poiché segna l'inizio delle imprese militari di questa città, le quali, un secolo dopo, o poco più, dovevano destare i sospetti ed eccitare le invidie della sorgente Roma, fino a condurla alle famose guerre puniche.
Alla preparazione di questi spedizione occorse più di un anno e fu solo nella primavera dell'anno IV della detta Olimpiade, che Annibale Giscone apparve presso il Lilibeo con una flotta di sessanta galee, scortanti millecinquecento navi da trasporto, coi soldati, i cavalli, le macchine.
Da queste navi sbarcò un esercito di circa 80 000 uomini, coi quali fu iniziata la guerra.
Le vittorie di Annibale sui Selinuntini e sugli Imeresi non fruttarono gran che a Segesta, poiché i Cartaginesi si guardarono bene dal considerare la città come amica o alleata. Vollero tenerla come terra di conquista a loro soggetta, ed avidi come erano di bottino per pagarsi delle spese fatte per la spedizione, quasi non bastassero i saccheggi di Selinunte e di Irnera, imposero grosse contribuzioni ai Segestani e tolsero a Segesta la maggior parte delle ricchezze.
Questo giogo inaspettato pesava ai Segestani, ma dovettero rassegnarvisi per timore della peggior sorte che era capitata ai Selinuntini.
Da questo momento però la storia non registra più per Segesta che una serie di sventure.
Durante la guerra dei Siracusani coi Cartaginesi, Segesta, sperando di liberarsi dalla gravosa signoria di questi, parteggiò per Siracusa favorendo la spedizione di Agatocle, tiranno di quella città, in Africa. Ma sconfitto, e dopo esser stato fatto prigioniero , ritornato Agatocle in Sicilia, pensò di sfogare 1'ira sua su Segesta, ritenuta causa principale di tutti i suoi danni. Portatosi quindi sotto la città sebbene dovesse considerarla come amica ed alleata, le impose una fortissima contribuzione di danaro per conto suo e di vettovaglie per i suoi.
Segesta la ricusò, c Agatocle, montato in furore - siccome racconta Diodoro Siculo, uno dei più coscienziosi storici dell'antichità - ordinò che dalla città uscissero tutti i poveri e fattili condurre sulle rive dello Scamandro (ora Gaggera), li fece scannare ad uno ad uno.
Quindi venne la volta dei ricchi. Volendo costringerli a rivelare dove erano i loro veri od immaginari tesori, li sottopose alle più strane ed orribili torture.
Molti ne fece legare ai raggi delle ruote dei carri, che poi da focosi cavalli faceva tirare a gran corsa, altri col mezzo delle catapulte lanciava in aria onde cadessero sfracellati a grandi distanze. A parecchi fece tagliare i talloni e poi ordinò fossero fustigati a nudo onde avessero, mutilati, tentato di correre; molti ordinò fosseru cotti a fuoco lento dentro un letto di bronzo a forma umana.
Né le donne, come si può credere, ebbero miglior trattamento. Dopo averle abbandonate alle voglie delle soldatesche, fece loro attanagliare le mammelle, spezzare le ossa delle gambe, nonché le sottopose ad altre orrende torture.
Terrorizzati da tanta crudeltà, i Segestani, piuttosto di venir tutti sacrificati ad uno ad uno, come sembrava fosse l'intenzione del tiranno, decisero di dar fuoco alla città e di morire combusti in essa. il che fecero realmente, senza riuscire ad impedire però ad Agatocle di ridurre schiavi alcune migliaia dei loro, specie donne e fanciulli che vendette, poi, ai Brusi.
Ai pochi sopravvissuti alla rovina della città, Il tiranno impose di cambiarne il nome in quello di Diceapoli, nome che durò fino alla morte del crudele siracusano.
Un momento di splendore ebbe ancora Segesta quando, durante le guerre puniche essa si alleò con Roma.
I Romani, accettarono per persuasione o opportunità la favola delle comuni origini troiane e favorirono il nuovo sviluppo della città.
Ma a rallentarlo non solo, ma a volgerlo a rovina, sopraggiunse Verre colle sue depredazioni.
Da allora la decadenza di Segesta fu rapida ed inesorabile. Al principio dell'era cristiana la città aveva perduto ogni importanza, spopolatasi, le irruzioni dei barbari, dei bizantini e dei saraceni la finirono.
LE ROVINE
Il tempio di Cerere.
L'antica città sorgeva sul pendio del monte Barbaro, alle cui falde scorreva lo Scamandro, tramutato ora in Gaggera, uno dei tanti affluenti formanti il fiume di San Bartolomeo, la cui foce è nel mezzo del golfo di Castellamare, ove sorgeva certamente l'emporio o porto di Segesta.
Il colle sul quale si adagiano le antiche costruzioni cittadine è alto poco più di trecento metri, ma incorniciano il suo orizzonte dalla parte di terra le bizzarre e frastagliate vette rocciose del monte Inice, dello Sparagio, del Pilato, superanti tutti mille metri, mentre dalla parte del mare corre libero lungo l'ampia vallata, la quale digradando, si allarga fino alla spiaggia. nella larga insenatura di Castellamare del golfo già sicuro ricovero delle flotte puniche e romane, delle triremi greche, che arrivavano qui per trafficare e spesso ancora per depredare.
Quello che rimane della città, sul fianco del monte Barbaro è relativamente ben
poca cosa, e se recenti ricerche hanno messo in luce rovine interessanti, l'archeologo, l'artista, o il semplice curioso visitatore, non avrebbero modo di essere appagati della gita, se vi non fosse il grandioso tempio dorico. Questo, dedicato forse alla diva Cerere, somma tutrice della Sicilia, dal cui mito primitivo tante derivazioni ha tratte la poesia dei greci e dei romani, racchiude in sé quanto rimane della vantata grandiosità e bellezza della morta Segesta.
Questo tempio è davvero uno dei più augusti testimoni, giunti fino a noi, dell'Italia primordiale e non è senza un sentimento interno di indefinibile venerazione che fra le stoppie, gli sterpi dei lentischi, i sassi, ci si inerpica per la solitaria collina, appendice del monte Barbaro, sulla cui vetta il tempio sorge.
E mentre, e più si sale, al rivelarsi graduale della mole imponente ai nostri sguardi, nella impressione profonda che la severità sua desta nell'animo, il pensiero corre su per la trafila lunga dei secoli che batterono l'ala su quelle grosse colonne di tufo, invocando una visione che gli faccia rivivere davanti la folla dei fabbricatori, prima, dei sacerdoti, poi, che lo officiarono; la folla delle generazioni che là dentro fecero sacrifici cruenti onde auspicarsi i favori della diva Cerere; dei barbari che vi passarono frammezzo, senza osare, nella loro febbre devastatrice, di atterrare il monumento, le cui basi incrollabili forse credettero avessero le radici nel cuore di una divinità misteriosa, possente, indistruttibile!
Dei monumenti dell'arte dorica, che ancora rimangono in piedi, in Grecia, in Sicilia, nella Magna Grecia, il tempio di Segesta non è, per la mole, il maggiore né il meglio finito; ma per lo stato di conservazione, per la solitudine quasi sconsolata che lo circonda, per la purezza ammirabile delle sue linee, ad un tempo maestose e semplici, per la inarrivabile armonia di tutto il suo assieme è fra quelli che destano sul visitatore le più forti ed incancellabili sensazioni.
Il tempio di Segesta è un exastilo periptero, ossia con un colonnato che corre tutt'attorno al suo perimetro.
La sua forma alla base è quella di un rettangolo lungo metri 60,95 e largo metri 20,40, i cui lati più brevi sono rivolti, secondo la consuetudine religiosa del tempo, ad oriente e ad occidente; il peristillo è formato da 36 colonne doriche non ancora scanalate e disposte in modo che 15, comprese le angolari, stanno su ciascuno dei due lati maggiori, e 6, comprese sempre le angolari, sui lati minori. Ognuna di queste colonne è formata da 11 blocchi di pietra, un calcare conchiglifero che si trova nella regione, sovrapposti.
La mancanza di scanalatura delle colonne, e il fatto nessuna che traccia resta della cella interna, provano che il tempio, per il succedersi senza tregua degli eventi disgraziati per la città, non fu mai condotto a termine.
Lo stato di abbandono in cui fu per tanti secoli lasciato il monumento, avrebbe forse finito per farlo rovinare, se, sul finire del settecento, il principe di Torremuzza, delegato dal governo borbonico alla cura e conservazione delle antichità di VaI di Mazzara, non avesse provvisto ad importanti riparazioni del tempio segestano.
Per opera sua due colonne, molto deteriorate - furono rinnovate gli architravi
rimessi in posto e fortificati, ricostruiti in parte i timpani.
Nell'ottocento, dopo l'annessione della Sicilia al regno d'Italia, altre ristrutturazioni furono fatti al tempio per opera del professor Cavallari.
Gli architravi rotti o tentennanti furono rinchiusi in una doppia robusta fasciatura di ferro, forti sbarre di ferro furono pure fatte passare sotto gli architravi stessi nello spazio fra un capitello e l'altro senza perciò forare od altrimenti deturpare le pietre del monumento.
Le colonne erose dal vento e dalle intemperie furono ripristinate con cemento; i pezzi mancanti del cornicione furono rifatti e per evitare le infiltrazioni delle acque piovane, il coronamento del tempio fu rivestito di calcestruzzo e mattoni disposti a doppia schiena.
Abbiamo visto quali sono le proporzioni esterne del tempio, ora passiamo a qualche dettaglio: il diametro inferiore delle colonne è di metri 1,95, quello superiore di metri 1,56, l'altezza delle colonne e di metri 9,37 e l'assottigliamento del loro fusto è di 39 centimetri, i vani fra le colonne misurano metri 2,40, e l'altezza dell'architrave è di 1,44, pari a quella del cornicione.
Il Teatro
Altra notevole rovina segestana è il teatro greco. Fra il tempio ed il teatro corrono circa 20 minuti di strada, e lungo il cammino si incontrano spesso i ruderi della spenta città.
Sono gli enormi massi che ne formavano le mura di cinta, sono avanzi di pubblici edifici, pavimenti con mosaici ricondotti alla luce, colonne spezzate, cisterne, fondamenta di palazzi, ecc., ecc.
Ma il rudere più importante resta pur sempre, dopo il tempio, il teatro.
Scoperto nel primo ventennio del diciannovesimo secolo da un amatore di archeologia che fermò su di esso I' attenzione della locale Commissione di belle arti ed antichità, per opera del duca di Serradifalco, si iniziò lo scavo nel 1822 e poco a poco l'intero monumento ritornò in luce. Esso ha forma di semicerchio, ed il suo diametro è di metri 64,51, dei quali 16,45 sono per l'orchestra e 24.03 per ogni lato vengono occupati dai sedili.
Addossato, come la quasi totalità dei teatri greci ad un monte, ha gran parte della sua cavea, posto riservato agli spettatori, scavato nella roccia.
La cavea è divisa in sette cunei, dei quali gli estremi sono meno ampi degli interni, da sei gradinate.
Una sola precinzione (praecintio), larga metri 2,40, divide la cavea in due parti. Di queste, la inferiore, conservata per intero, contiene 20 ordini di sedili; la superiore, meno conservata, poggia sopra un muro elevato sulla precinzione di metri 1,55, quanto è necessario per conservare la visuale.
Anche questa parte era divisa in sedili, separati secondo il prolungamento delle gradinate, ma ne restano poche tracce.
Due vomitori, in modo differente lontani dall'asse del teatro, si aprivano verosimilmente su due grandi vie della città, in modo che la gente potesse in breve, per precinzione e per le scale prendere posto nel teatro, ovvero defluirne rapidamente.
La parte del teatro che non ha per base diretta la rupe, è costituita da grossi piloni di pietra cementata. Le scalinate sono di una pietra rassomigliante al travertino, i gradini sono in tufo.
Il muro che recinge il coilon o teatro vero è in pietre riquadrate, ma di gradezza varia e cementate, e disposte a linee orizzontali.
La scena sorgeva a metri 5,97 dal prospetto della cavea; di essa non si hanno avanzi che del basamento.
L'altezza del teatro è di metri 12,50, la larghezza della scena di metri 27,59.
Il prospetto del teatro è andato distrutto ma di quel che rimane di questo edificio
Si può rilevare essere esso un antichissimo monumento, presentando la sua costruzione particolarità simili a quelle riscontrate in certe mura ritrovate a Cirtene e Telmesso nell'Asia Minore, e per il fatto che la periferia esterna, essendo fatta di tante linee rette ineguali, anziché di una sola curva, mostra l'insufficienza tecnica sia dell'architetto che degli artefici.
A questa base primordiale si notano molte sovrapposizioni di tempi più recenti e specie molte modificazioni romane.