D: Nel tuo ultimo libro, "Israele-Palestina: la sfida binazionale" (ed. Le minuit, Paris, 2001), parli di un "sogno andaluso", perche'?
R: La prospettiva binazionale non e' presentata in questo libro come
una scelta politica concreta e immediata, ma come un'alternativa globale
ad una concezione che e' la sostanza stessa del sionismo che presuppone
che normalita' sia sinonimo di omogeneita' culturale, etnica, nazionale,
che ogni societa' pluralista in termini di esistenza nazionale sia per
definizione problematica.
Cio' che io ho tentato di descrivere nel libro e' perche' questa sia
una scelta nello stesso tempo negativa e in fondo distruttrice. E che nel
contesto concreto della Palestina e del Medio Oriente una scelta non binazionale
non puo' essere realizzata senza implicare una politica permanente d'epurazione
etnica, una politica permanente di negazione dell'altro, di repressione,
d'apartheid, che veda l'espulsione di massa.
Indipendentemente che si parli di "piccola Israele" o di "grande Israele",
c'e' in questa volonta' di "stato esclusivamente ebraico" o di "stato ebraico
piu' che e' possibile", per definizione, il rigetto dell'altro, e il rigetto
dell'altro per definizione e' anche la degenerazione di se stessi.
Non ho presentato la concezione binazionale come un'alternativa ad
una divisione eventuale. Anche presupponendo la divisione il problema resta.
Israele e' un paese che non e' piu' uno stato esclusivamente ebraico, esiste
una forte minoranza araba, una forte minoranza russa non ebraica, una minoranza
che cresce di lavoratori immigrati, tutto questo pone il problema di uno
stato democratico multi culturale e multi nazionale, quali che siano le
frontiere.
D. L'11 settembre 2001 ha cambiato qualcosa in Israele?
R. Credo che l'11 settembre abbia permesso due cose. In primo luogo
ha riposizionato la politica di repressione, violenza, negazione dell'altro
in un contesto mondiale. In Israele c'era la paura d'essere percepiti,
compreso dal mondo occidentale, come uno "stato diverso", come un fattore
destabilizzante, come una situazione di "anormalita'"; Ariel Sharon e la
classe politica e militare israeliana hanno tirato un sospiro di sollievo
perche' dopo l'11 settembre tutti li comprendono, tutti si identificano
nella loro politica, tutti seguono la loro politica. Il risultato dell'11
settembre e' stato che oggi gli Stati Uniti sono quasi totalmente
appiattiti sulla politica israeliana, con il silenzio e la passivita'
complice dell'Europa.
In sintesi, se prima dell'11 settembre Israele poteva essere considerato
come un fattore di "rischio" per la stabilizzazione imperialista della
regione, oggi Israele rivendica, a giusto titolo, d'essere l'avanguardia
della crociata imperialista contro i popoli con l'alibi della lotta contro
il terrororismo. Il secondo impatto che e' lo stesso in tutto il mondo,
negli Usa e in Europa, e anche in Israele e' l'utilizzo la psicosi antiterrorismo
e questa nuova legittimita' data alla "guerra di civilta'" per rafforzare
la deumanizzazione dei palestinesi e la delegittimazione di ogni tentativo
di dialogo.
D. Subito dopo l'11 settembre Colin Powell dichiaro' che egli stesso era pronto a fare un discorso all'Onu sulla necessita' di uno stato palestinese. Dopo, sembrerebbe in modo improvviso, la politica degli Usa e' "cambiata".tornando ad avallare la repressione israeliana in tutte le sue forme. Cosa ne pensi?
R. Credo che Powell, ma non solo Powell, ma anche in Europa, abbia fatto
una specie di parallelo con la guerra del Golfo del 1991, credendo che
nella guerra, odierna, lanciata dagli Stati Uniti fosse necessario mettere
in piedi una grande coalizione internazionale con l'apporto sostanziale
dei paesi arabi e per far questo bisognava, come al tempo della guerra
del Golfo, mettere un freno alla politica di repressione israeliana, per
soddisfare i patnairs arabi. Questo e' il senso delle dichiarazioni di
Powell. E queste sono le valutazioni che molti hanno fatto su cio'
che e' successo, ma hanno completamente sbagliato. La scelta statunitense
e' quella di fare una guerra senza compromessi, di prendere le dichiarazioni
piu' estremiste di Bush, in termini di "guerra di civilizzazione", in termini
di guerra senza limiti, compreso nel caso israeliano. E cio' e' dominante
partendo dall'ipotesi che gli stati arabi e gli stati musulmani non avrebbero
osato mettere un freno alla volonta' bellicista di Bush e al carattere
totale di questa guerra. Sfortunamente Bush ha avuto ragione non ci sono
state proteste sostanziali e una rimessa in discussione della
coalizione ne' da parte dell' Egitto, ne' da parte dell'Arabia Saudita,
lasciando campo libero ad una politica senza compromessi col mondo arabo.
Una guerra presentata come una guerra contro l'estremismo, ma nei fatti
una guerra di "messa in riga" del mondo intero, e del mondo arabo in particolare.
D. I Refuseniks, Yesh Gvul ("c'e' un limite") ha iniziato una campagna di controinformazione nell'esercito subito dopo l'inizio della seconda Intifada. Tu pensi che i Refuseniks siano stati l'input del cosiddetto "risveglio" del pacifismo israeliano?
R. Ci sono stati due momenti importanti nel movimento dei soldati. Dalle
prime settimane dell'Intifada e della massiccia repressione nei territori
occupati Yesh Gvul ha rilanciato la campagna di rifiuto di servire in Cisgiordania
e a Gaza e centinaia di soldati hanno firmato la petizione di Yesh Gvul.
E molti di questi soldati hanno pagato con il carcere la loro scelta. Questa
prima fase puo' essere considerata, in qualche modo, come la prosecuzione
di cio' che avvenne durante la guerra del Libano nel 1982 e la prima Intifada.
C'e' una continuita' e Yesh Gvul e' stata l'organizzazione piu' attiva
nella mobilitazione.
Di diverso c'e' un nuovo movimento parallelo e piu' largo di soldati
che non si riconoscono in Yesh Gvul, che non hanno firmato la sua petizione
e che per l'orrore dei metodi usati dall'esercito, per l'orrore dei crimini
di guerra permanenti che sono commessi nei Territori Occupati, ha deciso
di prendere una nuova iniziativa che si e' voluta differenziare da quella
di Yesh Gvul.
E' un rifiuto che deriva dalla Intifada stessa, dalla politica attualmente
messa in atto, non e' un rifiuto nella logica piu' sistematica del rifiuto
dell'occupazione. Essi dicono: non vogliamo prendere parte a questa guerra.Questo
ha fatto breccia nella societa' israeliana, tant'e' che Sharon lo ha rispreso
nel suo discorso alla nazione, che sta provocando un grande dibattito nell'esercito
e nell'opinione pubblica.
D. Arafat.
R. Credo che Arafat, dopo il processo di Oslo, abbia una politica doppia.
E sono personalmente in disaccordo con chi definisce Arafat un collaboratore
d'Israele, lo identifica con Petain, e paragona Arafat e l'Anp all'esercito
del Libano del Sud del generale Lahad. Penso che sia un errore. Penso che
Arafat abbia in passato e continui ad attuare una doppia politica. Che
e' nel contempo quella di cercare un compromesso che non trova sempre consenso
nella comunita' palestinese e che provaca dei dibattiti e degli scontri
anche gravi, ma Arafat ha un limite alla politica del compromesso, Arafat
e' un dirigente nazionale aperto a dei grandi compromessi che si possono
e si devono discutere e che vengono messi in discussione. E' esattamente
l'immenso errore che deriva dall'arroganza coloniale di Barak quello
d'aver creduto d'essere riuscito ad imporre ad Arafat un piano di bantustans.
Arafat ha gia' accettato un compromesso estremo: rinuncia al 80% della
patria, accetta la riconciliazione con Israele, ma non sono disposti a
rinegoziare il 20% restante. Il minimo e' chiaramente definito nella politica
di Yasser Arafat. L'arroganza coloniale ha portato Barak a credere di poter
trasformare Arafat e l'Anp in ministri israeliani che gestissero
un sistema di bastuntans, un sistema d'apartheid.
Penso che la politica di Arafat continui a giocare un ruolo, egli non
ha chiuso la porta ad una cooperazione con Israele, ma ha un limite. E
Israele ha "ragione" a lamentarsi del "doppio gioco" di Arafat: egli negozia,
e' pronto giocare un ruolo adatto ad una politica di pacificazione della
regione, ma cio' ha un prezzo e finche' Israele non e' pronto a pagare
questo prezzo, Arafat in parte dirigera' la resistenza all'occupazione.
Doppio ruolo, quindi: resistenza all'occupazione e negoziazione compromesso
con Israele. Il problema e' che ariel Sharon e prima di lui Barak, hanno
ristretto i margini di manovra di Arafat spingendolo a piu' resistenza
e a meno cooperazione, perche' non ha modo non perche' non voglia. E' prigioniero
a Ramallah mentre l'esercito distrugge le infrastrutture della polizia
palestinese e quelle dell'amministrazione. La capacita' di Arafat di "mantenere
l'ordine" e un minimo di resistenza per ottenere un compromesso accettabile
dalla popolazione palestinese e' molto limitata.
D. Ma l' Intifada esprime un nuova leadership?
R. C'e' sicuramente da oltre un anno e mezzo una direzione che combatte
contro l'occupazione che viene dall'interno, una nuova generazione, militanti
della prima Intifada, di tutte le formazioni politiche ma essenzialmente
di Fatah, che e' il nuovo quadro della resistenza attuale. Ma che non e'
in rotta con Arafat, ma in un rapporto conflittuale con Arafat e l'Anp.
Anche l'arresto dei militanti del Fplp, o la chiusura degli uffici
di Hamas, o l'arresto di certi militanti e dirigenti di Hamas, sono tutte
cose si potrebbe dire " negoziate" tra l'Anp e le stesse organizzazioni.
Sappiamo che Arafat incontra quotidianamente i dirigenti dell'opposizione.
C'e' contemporaneamente un fronte unito anti israeliano e delle misure
repressive, che ovviamente non soddisfano Israele. E' una manovra delicata
dall'esito incerto, perche' al contrario degli altri governi israeliani,
Sharon non ha nulla da proporre. Sarebbe logico se Sharon dicesse questo
e' cio' che voglio e questo e' il prezzo, Arafat potrebbe dire, d'accordo
pago il prezzo per ottenere cio' che mi offri. Ma vediamo che nulla basta
mai, come nel caso dell'arresto dei militanti del Fplp accusati dell'assassinio
del ministro Zeevi. Arafat prende queste misure non solo e non tanto per
colpire Sharon, ma quanto per colpire l'opinione pubblica internazionale.
Con quegli arresti Arafat si rivolge in effetti a Bush e all'Europa. Come
a
dire: cio' e' quello che posso fare. E' piu' un lavoro di propaganda
politica che vera e propria repressione.
D. In Italia ha avuto molta risonanza il movimento Action for Peace. A tuo avviso e' sufficiente come solidarieta'?
R. Credo che l'invio di missioni italiane e internazionali in Palestina
e' importante per tre ragioni. Primo perche' l'espressione della solidarieta'
con i palestinese e' molto utile sotto il profilo morale, perche' sono
molto isolati. E l'isolamento puo' diventare un fattore di smobilitazione.
In questo senso il fatto che una parte della societa' civile europea e
internazionale esprima solidarieta' e' estremamente importante. Secondo:
in quel momento c'e' un allentamento della repressione israeliana.
Lo sguardo della stampa internazionale ma anche la presenza di militanti
internazionali che sono ai Check point, nelle strade, mette in difficolta'
una parte dell'esercito e della classe politica.
Ma la terza ragione e' quella per me piu' importante: essere capaci
di servirsi delle testimonianze di chi viene e vede per rafforzare
nei loro paesi un movimento di massa di solidarieta' e per far pressione
sui propri governi. Questa e' la priorita'. E in alcuni paesi, come la
Francia e il Belgio, che seguo piu' da vicino, si e' riscontrato un cambiamento
in fascia piu' larga di opinione pubblica. Anche dopo l'offensiva anti
araba post 11 settembre.
D. Porto Alegre. Tu vi hai partecipato, ha aperto nuove prospettive?
R. Per quel che mi riguarda penso che Porto Alegre rappresenta il posto
dove il movimento internazionale contro il neo liberismo ha avuto una svolta.
Ma penso che in coloro che orientano e dirigono il movimento ci sia molta
attenzione verso l'economia e meno ansalisi sulla politica. Secondo l'ipotesi
che la globalizzazzione neo liberale passi esclusivamente
attraverso la dittatura del mercato. La guerra, al contrario, non e'
stato un soggetto forte a Porto Alegre. Penso che i giornalisti "neutri",
"borghesi" hanno parlato molto del mercato, ma hanno parlato poco della
dittatura della guerra imperialista che e' parte integrante della globalizzazione.
Nonostante le grandi manifestaziioni contro il Fmi e i Mac Donald, le manifestazioni
contro la guerra concreta, oggi contro l'Afghanistan domani contro l'Iraq,
con l'eccezione dell'Italia, nel resto dell'Europa sono state limitate.
Intervista raccolta da Cinzia Nachira il 26/02/2002