Celebrato e trasfigurato dalla cinematografia di Hollywood, il Dalai
Lama continua indubbiamente a godere di una vasta popolarità: il
suo ultimo viaggio in Italia si è concluso solennemente con una
foto di gruppo coi dirigenti dei partiti di centro-sinistra, che hanno
voluto così testimoniare la loro stima o la loro riverenza nei confronti
del campione della lotta di “liberazione del popolo tibetano”.
Ma chi è realmente costui? Tanto per cominciare, egli non è
nato nel Tibet storico, ma in territorio incontestabilmente cinese, per
l’esattezza nella provincia di Amdo che, nel 1935, l’anno della nascita,
era amministrata dal Kuomintang. In famiglia si parlava un dialetto regionale
cinese, sicché il nostro eroe impara il tibetano come una lingua
straniera, ed è costretto a impararla a partire dall’età
di tre anni, e cioè dal momento in cui, riconosciuto come l’incarnazione
del 13° Dalai Lama, viene sottratto alla sua famiglia e segregato in
un convento per essere sottoposto all’influenza esclusiva dei monaci che
gli insegnano a sentirsi, a pensare, a scrivere, a parlare e a comportarsi
come il Dio-Re dei tibetani ovvero come Sua Santità.
Desumo queste notizie da un libro (Heinrich Harrer, Sette anni nel
Tibet, Mondadori, Oscar bestsellers, 1999), che pure ha un carattere di
semi-ufficialità (si conclude con il “Messaggio” in cui il Dalai
Lama esprime la sua gratitudine all’autore) e che ha contribuito moltissimo
alla costruzione del mito hollywoodiano. Si tratta di un testo a suo modo
straordinario, che riesce a trasformare in capitoli di storia sacra anche
i particolari più inquietanti.
1. Un “paradiso” raccapricciante
Nel 1946, Harrer incontra a Lhasa i genitori del Dalai Lama, dove si
sono trasferiti ormai da molti anni, abbandonando la natia Amdo. E, tuttavia,
essi non sono ancora divenuti tibetani: bevono il tè alla cinese,
continuano a parlare un dialetto cinese e, per intendersi con Harrer, che
si esprime in tibetano, hanno bisogno dell’aiuto di un “interprete”. Certo,
la loro vita è cambiata radicalmente: “Era un grosso salto quello
dalla loro piccola casa di contadini in una lontana provincia al palazzo
che ora abitavano e ai vasti poderi che erano adesso di loro proprietà”.
Avevano ceduto ai monaci un bambino di tenerissima età, che poi
riconosce nella sua autobiografia di aver molto sofferto per questa separazione.
In cambio, i genitori avevano potuto godere di una prodigiosa ascesa sociale.
Siamo in presenza di un comportamento discutibile? Non sia mai detto. Harrer
si affretta subito a sottolineare la “nobiltà innata” di questa
coppia (p. 133): come potrebbe essere diversamente, dato che si tratta
del padre e della madre del Dio-Re?
Ma che società è quella su cui il Dalai Lama è
chiamato a governare? Sia pure a malincuore, l’autore del libro finisce
col riconoscerlo: “La supremazia dell’ordine monastico nel Tibet è
assoluta, e si può confrontare solo con una severa dittatura. I
monaci diffidano di ogni influsso che possa mettere in pericolo la loro
dominazione”. Ad essere punito non è soltanto chi agisce contro
il “potere” ma anche “chiunque lo metta in dubbio” (p. 76). Diamo ora uno
sguardo ai rapporti sociali. Si direbbe che la merce più a buon
mercato sia costituita dai servi (si tratta, in ultima analisi, di schiavi).
Harrer descrive giulivo l’incontro con un alto funzionario: anche se non
è un personaggio particolarmente importante, egli può comunque
disporre di un “seguito di trenta servi e serve” (p. 56). Essi vengono
sottoposti a fatiche non solo bestiali ma persino inutili: “Circa venti
uomini erano legati alla cintura da una corda e trascinavano un immenso
tronco, cantando in coro le loro lente nenie e avanzando di pari passo.
Ansanti e in un bagno di sudore non potevano soffermarsi per pigliare fiato,
perché il capofila non lo permetteva. Questo lavoro massacrante
rappresenta una parte delle loro tasse, un tributo da sistema feudale”.
Sarebbe stato facile far ricorso alla ruota, ma “il governo non voleva
la ruota”; e, come sappiamo, contrastare o anche solo mettere in discussione
il potere della casta dominante poteva essere assai pericoloso. Ma, secondo
Harrer, non ha senso versare lacrime sul popolo tibetano di quegli anni:
“forse così era più felice” (pp. 159-160).
Incolmabile era l’abisso che separava i servi dai padroni. Per la gente
comune, al Dio-Re non era lecito rivolgere né la parola né
lo sguardo. Ecco cosa avviene nel corso di una processione: “Le porte della
cattedrale si aprirono e lentamente uscì il Dalai Lama […] Devota
la folla si inchinò immediatamente. Il cerimoniale religioso esigerebbe
che la gente si gettasse per terra, ma era impossibile farlo a causa della
mancanza di spazio. Migliaia di persone curvarono invece la schiena, come
un campo di grano sciabolato dal vento. Nessuno osava alzare gli occhi.
Lento e compassato il Dalai Lama iniziò il suo giro intorno al Barkhor
[…] Le donne non osavano respirare”.
Finita la processione, il quadro cambia in modo radicale: “Come ridestata
da un sonno ipnotico la folla in quel momento passò dall’ordine
al caos […] I monaci-soldato entrarono subito in azione […] All’impazzata
facevano mulinare i loro bastoni sulla folla […] Ma nonostante la gragnuola
di colpi, i battuti ritornavano come fossero posseduti da demoni […] Adesso
accettavano colpi e frustate come una benedizione. Fiaccole di pece fumosa
cadevano sulle loro teste, urla di dolore, qui un volto bruciato, là
i gemiti di un calpestato!” (pp. 157-8).
Vale la pena di notare che questo spettacolo viene seguito dal nostro
autore in modo ammirato e devoto. Non a caso, il tutto è contenuto
in un paragrafo dal titolo eloquente: “Un dio alza, benedicendo, la mano”.
L’unico momento in cui Harrer, assume un atteggiamento critico si verifica
allorché egli descrive la condizione igienica e sanitaria del Tibet
del tempo. Infuria la mortalità infantile, la durata media della
vita è incredibilmente bassa, le medicine sono sconosciute, in compenso
circolano farmaci assai singolari: “spesso i lama ungono i loro pazienti
con la propria saliva santa; oppure tsampa e burro vengono mescolati con
l’urina degli uomini santi per ottenere una specie di emulsione che viene
somministrata ai malati” (p. 194). Qui si ritrae perplesso anche il nostro
autore devoto e bacchettone: se pure dal “Dio-Ragazzo” è stato “persuaso
a credere nella reincarnazione” (p. 248), egli tuttavia non riesce a “giustificare
il fatto che si bevesse l’urina del Buddha Vivente”, e cioè del
Dalai Lama. Solleva il problema con quest’ultimo, ma con scarsi risultati:
il Dio-Re “da solo non poteva combattere tali usi e costumi, e in fondo
non se ne preoccupava troppo”. Ciò nonostante il nostro autore,
che si accontenta di poco, messe da parte le sue riserve, conclude imperturbabile:
“In India, del resto, era uno spettacolo giornaliero vedere la gente bere
l’urina delle vacche sacre” (p. 294).
A questo punto, Harrer può procedere senza più impacci
nella sua opera di trasfigurazione del Tibet pre-rivoluzionario. In realtà,
esso è carico di violenza e non conosce neppure il principio della
responsabilità individuale: le punizioni possono essere anche trasversali
e colpire i parenti del responsabile di una mancanza anche assai lieve
o persino immaginaria (p. 79). Ma cosa avviene per i crimini considerati
più gravi? “Mi raccontarono di un uomo che aveva rubato una lampada
dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu dichiarato colpevole del
reato, e quella che noi avremmo considerato una sentenza disumana fu portata
a compimento. Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo
mutilato ma ancora vivo fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando
smise di sanguinare, venne gettato in un precipizio” (p. 75). Ma anche
reati minori, ad esempio “il gioco d’azzardo”, possono essere puniti in
modo spietato se commessi nei giorni di festività solenni: “i monaci
sono a tale riguardo inesorabili e molto temuti, perché più
di una volta è avvenuto che qualcuno sia morto sotto la rigorosa
flagellazione, la pena usuale” (pp. 153). La violenza più selvaggia
caratterizza i rapporti non solo tra “semidei” e “esseri inferiori”, ma
anche tra le diverse frazioni della casta dominante: ai responsabili delle
frequenti “rivoluzioni militari” e “guerre civili” che caratterizzano la
storia del Tibet pre-rivoluzionario (l’ultima si verifica nel 1947), vengono
fatti “cavare gli occhi con una spada” (pp. 224-5). E, tuttavia, il nostro
zelante convertito al lamaismo non si limita a dichiarare che “le punizioni
sono piuttosto drastiche, ma sembrano essere commisurate alla mentalità
della popolazione” (p. 75). No, il Tibet pre-rivoluzionario è ai
suoi occhi un’oasi incantata di non violenza: “Dopo un po’ che si è
nel paese, a nessuno è più possibile uccidere una mosca senza
pensarci. Io stesso, in presenza di un tibetano, non avrei mai osato schiacciare
un insetto soltanto perché mi infastidiva” (p. 183). In conclusione,
siamo in presenza di un “paradiso” (p. 77). Oltre che di Harrer, questa
è l’opinione anche del Dalai Lama, che nel suo “Messaggio” finale
si abbandona ad una struggente nostalgia degli anni vissuti da Dio-Re:
“ricordiamo quei giorni felici che trascorremmo assieme in un paese felice”
(happy) ovvero, secondo la traduzione italiana, in “un paese libero”.
2. “Invasione” del Tibet e tentativo di smembramento della Cina
Questo paese “felice” e “libero”, questo “paradiso” viene trasformato
in un inferno dall’”invasione” cinese. Le mistificazioni non hanno mai
fine. Ha realmente senso parlare di “invasione”? Quale paese aveva riconosciuto
l’”indipendenza” del Tibet e intratteneva con esso relazioni diplomatiche?
In realtà, ancora nel 1949, nel pubblicare un libro sulle relazioni
Usa-Cina, il dipartimento di Stato americano accludeva una mappa di per
sé eloquente: con tutta chiarezza sia il Tibet che Taiwan vi figuravano
quali parti integranti del grande paese asiatico, impegnato a porre fine
una volta per sempre alle amputazioni territoriali imposte da un secolo
di aggressioni colonialiste e imperialiste. Naturalmente, con l’avvento
dei comunisti al potere, cambia tutto, comprese le carte geografiche: ogni
falsificazione storica e geografica è lecita se essa consente di
ridare slancio alla politica a suo tempo iniziata con la guerra dell’oppio
e di avanzare cioè in direzione dello smembramento della Cina comunista.
È un obiettivo che sembra sul punto di realizzarsi nel 1959.
Con un cambiamento radicale rispetto alla politica seguita sino a quel
momento, che l’aveva visto collaborare col nuovo potere insediatosi a Pechino,
il Dalai Lama sceglie la via dell’esilio e comincia ad agitare la bandiera
dell’indipendenza del Tibet. Si tratta realmente di una rivendicazione
nazionale? Abbiamo visto che il Dalai Lama stesso non è di origine
tibetana ed è costretto ad imparare una lingua che non è
la sua lingua materna. Ma concentriamo pure la nostra attenzione sulla
casta dominante autoctona. Per un verso questa, nonostante la generale
ed estrema miseria del popolo, può coltivare i suoi raffinati gusti
cosmopoliti: ai suoi banchetti si scialacquano “squisitezze di tutte le
parti del mondo” (pp. 174-5). A degustarle sono raffinati parassiti che,
nell’ostentare il loro sfarzo, non danno certo prova di ristrettezza provinciale:
“le volpi azzurre vengono da Amburgo, le perle coltivate dal Giappone,
le turchesi via Bombay dalla Persia, i coralli dall’Italia e l’ambra da
Berlino e Königsberg” (p. 166). Ma mentre si sente affine all’aristocrazia
parassitaria di ogni angolo del mondo, la casta dominante tibetana guarda
ai suoi servi come ad una razza diversa e inferiore; sì, “la nobiltà
ha le sue leggi severe: è permesso sposare soltanto chi è
dello stesso rango” (p. 191). Che senso ha allora parlare di lotta di indipendenza
nazionale? Come possono esserci una nazione e una comunità nazionale
se, per riconoscimento dello stesso candido cantore del Tibet pre-rivoluzionario,
i “semidei” nobiliari, lungi dal considerare concittadini i loro servi,
li bollano e li trattano quali “esseri inferiori” (pp. 170 e 168)?
D’altro canto, a quale Tibet pensa il Dalai Lama allorché comincia
ad agitare la bandiera dell’indipendenza? È il Grande Tibet, che
avrebbe dovuto abbracciare vaste aree al di fuori del Tibet propriamente
detto, annettendo anche le popolazioni di origine tibetana residenti in
regioni come lo Yunnan e il Sichuan, da secoli parte integrante del territorio
della Cina e talvolta culla storica di questa civiltà multisecolare
e multinazionale. Chiaramente, il Grande Tibet costituiva e costituisce
un elemento essenziale del progetto di smembramento di un paese che, a
partire dalla sua rinascita nel 1949, non cessa di turbare i sogni di dominio
mondiale accarezzati a Washington.
Ma cosa sarebbe successo nel Tibet propriamente detto se le ambizioni
del Dalai Lama si fossero realizzate? Lasciamo pure da parte i servi e
gli “esseri inferiori” a cui chiaramente non prestano molta attenzione
i seguaci e i devoti di Sua Santità. In ogni caso, il Tibet pre-rivoluzionario
è una “teocrazia” (p. 169): “un europeo difficilmente è in
grado di capire quale importanza si annetta al più piccolo capriccio
del Dio-Re” (p. 270). Sì, “il potere della gerarchia era illimitato”
(p. 148), ed esso si esercitava su qualunque aspetto dell’esistenza: “la
vita delle persone è regolata dalla volontà divina, i cui
unici interpreti sono i lama” (p. 182). Ovviamente, non c’è distinzione
tra sfera religiosa e sfera politica: i monaci permettevano “alle tibetane
le nozze con un mussulmano solo alla condizione di non abiurare” (p. 169);
non era consentito convertirsi dal lamaismo all’Islam. Assieme ai rapporti
matrimoniali anche la vita sessuale conosce una regolamentazione occhiuta:
“per gli adulteri vigono pene molto drastiche, ad esempio il taglio del
naso” (p. 191). È chiaro: pur di smembrare la Cina, Washington non
esitava a montare in sella al cavallo fondamentalista del lamaismo integralista
e del Dalai Lama.
Ora, anche Sua Santità è costretto a prenderne atto:
il progetto secessionista è sostanzialmente fallito. Ed ecco allora
le dichiarazioni per cui ci si accontenterebbe dell’”autonomia”. In realtà,
il Tibet è da un pezzo una regione autonoma. E non si tratta di
parole. Già nel 1998, pur formulando critiche, Foreign Affairs,
la rivista americana vicina al Dipartimento di Stato, con un articolo di
Melvyn C. Goldstein si è lasciata sfuggire riconoscimenti importanti:
nella Regione Autonoma Tibetana il 60-70% dei funzionari sono di etnia
tibetana e vige la pratica del bilinguismo. Naturalmente c’è sempre
spazio per miglioramenti; resta il fatto che, in seguito alla diffusione
dell’istruzione, la lingua tibetana è oggi parlata e scritta da
un numero di persone ben più elevato che nel Tibet pre-rivoluzionario.
È da aggiungere che solo la distruzione dell’ordinamento castale
e delle barriere che separavano i “semidei” dagli “esseri inferiori” ha
reso possibile l’emergere su larga base di un’identità culturale
e nazionale tibetana. La propaganda corrente è il rovesciamento
della verità.
Mentre gode di un’ampia autonomia, il Tibet, grazie anche agli sforzi
massicci del governo centrale, conosce un periodo di straordinario sviluppo
economico e sociale. Assieme al livello di istruzione, al tenore di vita,
e alla durata media della vita cresce anche la coesione tra i diversi gruppi
etnici, come è confermato fra l’altro dall’aumento dei matrimoni
misti tra han (cinesi) e tibetani. Ma proprio ciò diventa il nuovo
cavallo di battaglia della campagna anticinese. Ne è un esempio
clamoroso l’articolo di Bernardo Valli su la Repubblica del 29 novembre.
Mi limito qui a citare il sommario: “L’integrazione tra questi due popoli
è l’ultima arma per annullare la cultura millenaria del paese sul
tetto del mondo”. Chiaramente, il giornalista si è lasciato abbagliare
dall’immagine di un Tibet all’insegna della purezza etnica e religiosa
che è il sogno dei gruppi fondamentalisti e secessionisti. Per comprenderne
il carattere regressivo, basta ridare la parola al cronista che ha ispirato
Hollywood. Nel Tibet pre-rivoluzionario, oltre ai tibetani e ai cinesi
“si possono incontrare anche lhadaki, bhutanesi, mongoli, sikkimesi, kazaki
e via dicendo”. Sono ben presenti anche i nepalesi: “Le loro famiglie rimangono
quasi sempre nel Nepal, dove anche loro ritornano di tanto in tanto. In
questo differiscono dai cinesi, che sposano volentieri donne tibetane,
conducendo una vita coniugale esemplare” (pp. 168-9). La maggiore “autonomia”
che si rivendica, non si sa bene se per il Tibet propriamente detto ovvero
per il Grande Tibet, dovrebbe comportare anche la possibilità per
il governo regionale di vietare i matrimoni misti e di realizzare una purezza
etnica e culturale che non esisteva neppure prima del 1949?
3. La cooptazione del Dalai Lama nell’Occidente e nella razza bianca e la denuncia del pericolo giallo
L’articolo di Repubblica è prezioso perché ci permette
di cogliere la sottile vena razzista che attraversa la campagna anticinese
in corso. Com’è noto, nel ricercare le origini della razza “ariana”
o “nordica” o “bianca”, la mitologia razzista e il Terzo Reich hanno spesso
guardato con interesse all’India e al Tibet: è di qui che avrebbe
preso le mosse la marcia trionfale della razza superiore.
Nel 1939, al seguito di una spedizione delle SS, l’austriaco Harrer
giunge nell’India del nord (oggi Pakistan) e di qui poi penetra nel Tibet.
Allorché incontra il Dalai Lama, subito lo riconosce e lo celebra
come membro della superiore razza bianca: “La sua carnagione era molto
più chiara di quella del tibetano medio, e in qualche sfumatura
anche più bianca di quella dell’aristocrazia tibetana” (p. 280).
Del tutto estranei alla razza bianca sono invece i cinesi. Ecco perché
è un evento straordinario la prima conversazione che Sua Santità
ha con Harrer: egli si trovava “per la prima volta solo con un uomo bianco”
(p. 277). In quanto sostanzialmente bianco, il Dalai Lama non era certo
inferiore agli “europei” ed era comunque “aperto a tutte le idee occidentali”
(pp. 292 e 294). Ben diversamente si atteggiano i cinesi, nemici mortali
dell’Occidente. Lo conferma ad Harrer un “ministro-monaco” del Tibet sacro:
“nelle antiche scritture, ci disse, si leggeva una profezia: una grande
potenza del Nord muoverà guerra al Tibet, distruggerà la
religione e imporrà la sua egemonia al mondo” (p. 141). Non c’è
dubbio: la denuncia del pericolo giallo è il filo conduttore del
libro che ha ispirato la leggenda hollywoodiana del Dalai Lama.
Torniamo alla foto di gruppo che ha concluso il suo recente viaggio:
fisicamente assenti ma idealmente ben presenti si possono considerare Richard
Gere e gli altri divi di Hollywood, inondati di dollari per celebrare la
leggenda del Dio-Re venuto dall’Oriente misterioso.
È doloroso ammetterlo, ma bisogna prenderne atto: è ormai
da qualche tempo che, volte le spalle alla storia e alla geografia, una
certa sinistra si rivela in grado di alimentarsi solo di miti teosofici
e cinematografici, senza prendere le distanze neppure dai miti cinematografici
più torbidi.