di Renato Strumia, "Umanità nova", N. 39, 30 novembre 2003
Alla fine di settembre il debito pubblico italiano ha raggiunto un nuovo
record: 1.409,997 miliardi di euro, circa 2.700 milioni di miliardi di
vecchie lire. Il governo ha minimizzato, naturalmente, ma questo dato non
può certo indurre all'ottimismo. È stato infatti ottenuto
in uno scenario di entrate fiscali crescenti (+3,3%) e in un contesto di
tassi d'interesse al minimo storico (2% da giugno il tasso di rifinanziamento
della Bce).
Cosa accadrebbe se dovesse invertirsi la tendenza, cioè se la
pressione fiscale scendesse (come ci ha promesso la Casa delle Libertà)
e i tassi d'interesse salissero (come sta già accadendo ai tassi
a lungo termine)? È molto probabile che non basterebbero più
gli espedienti da finanza creativa alla Tremonti per nascondere sotto il
tappeto la polvere accumulata. Ad esempio il rapporto debito/pil viene
"venduto" a 106, quindi come un parametro ancora fuori linea, ma in fase
di costante rientro.
Quel che non si dice è che per ottenere questo risultato si
è venduto un altro pezzo di Enel (il 6%) che dal prossimo anno fornirà
allo Stato meno dividendi, quindi si è scelto di fare cassa subito,
nella logica "meglio un uovo adesso che la gallina domani"; inoltre, per
abbellire il dato, hanno collocato fuori dal bilancio dello Stato l'Anas
(con i relativi debiti), ma la legittimità di questa scelta "pende"
ancora davanti alla Commissione Europea, che non ha ancora deciso se considerarla
ammissibile.
Questo tipo di prassi (la cartolarizzazione delle entrate future, la
svendita del patrimonio pubblico, gli artifici contabili) non sono stati
certo una prerogativa del centro destra: sono stati i governi tecnici e
i governi del centro-sinistra ad aprire la strada, con il solo obbiettivo
di entrare in Europa, sfruttando qualunque spiraglio normativo esistente.
Il risultato è che abbiamo avuto l'Europa, ma ci siamo arrivati
stremati, con le tasche più vuote, una proprietà pubblica
impoverita, un crollo degli investimenti pubblici e privati, ritmi di crescita
spaventosamente bassi ed una velocità di caduta, nella competitività
internazionale, davvero impressionante.
Quello che stupisce di più è l'assenza di qualunque segnale
di inversione di tendenza: né può essere considerato tale
il fatto che nel terzo trimestre l'economia italiana è tornata a
salire, e forse per fine anno arriviamo ad un penoso +0,5%. Nella stessa
settimana in cui veniva reso noto il dato record sul debito, il governo
incassava il triplo plauso del FMI: 1) per aver cominciato senza indugio
la riforma previdenziale; 2) per avere rispettato (unico tra i grandi paesi
d'Eurolandia) il tetto del 3% nel rapporto deficit/pil; 3) per avere portato
a termine la riforma del mercato del lavoro, contro la (parziale) resistenza
sindacale. È evidente dunque che l'ortodossia economica celebra
i suoi riti, impartisce le sue prediche e impone le sue regole in modo
singolarmente astratto, a fronte di una situazione che non si potrebbe
definire più precaria.
Frastornato da una litigiosità senza tregua, il governo manda
avanti i suoi provvedimenti economici con la speditezza di chi ha il nemico
alle calcagna, blindando ogni tipo di misura e ponendo la fiducia ad ogni
passo, per essere certo di conseguire il risultato.
La tripla misura di fine settembre (decretone fiscale, legge finanziaria,
delega previdenziale) è già arrivata a buon punto, essendo
la legge finanziaria già stata liquidata dal Senato, con la previsione
di farla approvare dalla Camera nel giro di poche settimane (se non di
pochi giorni) con il voto di fiducia.
La delega sulla previdenza, invece, deve ancora entrare nel vivo, ma
l'intenzione di Maroni sembra quella di approvarla, con ogni mezzo, entro
la fine dell'anno.
La finanziaria è uscita emendata in peggio dal voto del Senato,
con il parziale aggiustamento di alcuni dei provvedimenti sociali più
barbari (ad esempio vengono riconosciuti diritti e benefici previdenziali
acquisiti, al 2/10/2003, dai lavoratori esposti all'amianto). Vengono introdotti
correttivi che sono ancora più favorevoli ad alcune lobby saldamente
rappresentate dentro la maggioranza: salgono a 100 milioni di euro i contributi
previsti per la scuola privata nel prossimo triennio, viene stanziata una
cifra di 25 milioni di euro per fornire il Vaticano di un sistema idrico,
vengono stanziati altri 50 milioni di euro per consentire all'Opus Dei
la costruzione di un policlinico. Per fare piacere alle banche, è
stata prorogata l'agevolazione fiscale nei casi di fusioni e conferimenti.
Per fare piacere ai costruttori, è stata prorogata e rialzata al
41% la detrazione fiscale per le ristrutturazioni edilizie. Per fare piacere
ad abusivi ed evasori, si è varato il condono edilizio e tombale,
sul cui esito è sempre lecito dubitare. Per esempio, l'ultima tornata
di scudo fiscale per il rientro dei capitali dall'estero, nei primi nove
mesi 2003, non ha certo bissato il successo dell'anno precedente: i dati
definitivi parlano di poco più di 18 miliardi di euro rientrati,
a fronte degli oltre 50 del 2002. E per arrivare a questo sono state necessarie
due proroghe ed un ridicolo accavallarsi di decreti, che prima alzavano
dal 2,5 al 4% la sanzione prevista, poi la riabbassavano al 2,5% e infine
vietava il rimborso della differenza a chi aveva pagato di più.
Un vero balletto decretizio. Sul piano del condono edilizio è decisamente
arrischiato fare previsioni affidabili. Si sa che la parte del leone spetta
al sud: a fronte del Piemonte che conta circa l'1% di abusi edilizi sul
totale costruito, in Campania arriviamo tranquillamente al 30% dell'edificato.
È evidente che sarà il "costo" del condono la variabile dirimente:
le cifre di cui si parla (i classici 3 milioni di lire al metro quadro)
non garantiscono affatto quell'ampio successo di pubblico e di critica
a cui si affida il governo per fare quadrare i conti del 2004.
È dunque la strategia del governo a mostrare la corda. Il ricorso
continuo a misure una-tantum, che permettano di salvare la faccia a chi
ha promesso, nel patto con gli italiani, meno tasse per tutti, può
tamponare per un certo numero di volte le falle più vistose, ma
non può certo risolvere alcunché. È su questo tasto
che battono le opposizioni, senza mai avere il coraggio però di
portare fino in fondo, con coerenza, le loro argomentazioni. Il governo
viene criticato per la sua incapacità di fare riforme strutturali,
ma non si va mai a vedere cosa si propone di alternativo.
Esemplare mi sembra l'imbarazzo di Prodi, e di tutto l'Ulivo, sulla
riforma previdenziale varata dal governo. Come capo "in pectore" dell'opposizione
Prodi deve stigmatizzare la riforma Maroni (sperando in cuor suo che passi
al più presto per addossarne la responsabilità a Berlusconi);
come Presidente della Commissione Europea, non può che approvare
il varo di una riforma in linea con le direttive europee, anzi magari spingere
per una minore "timidezza".
In sostanza siamo veramente dentro un meccanismo infernale, stritolati
in una forbice dove conta tutto, tranne che l'interesse reale dei lavoratori
salariati (intesi in senso ampio e aggiornato, naturalmente). La rappresentanza
sindacale e politica del lavoro è oggi affidata a consorterie variamente
subalterne al quadro politico e preoccupate soltanto di essere ammesse,
in qualsivoglia modo, alla contrattazione generale sulle risorse e sul
loro uso.
Lunga resta la strada per la costruzione di un punto di vista autonomo
sui grandi nodi strategici delle scelte di finanza pubblica. Lo sviluppo
delle lotte resta complessivamente insufficiente e inadeguato, troppo spesso
confinato ad una mera reazione all'iniziativa dell'avversario, con la finalità
di contrattare qualche lieve emendamento correttivo. A fronte di un disegno
strategico, di lungo periodo, per ristrutturare a fondo il welfare italiano
ed europeo, il movimento non sa reagire che in modo frammentario e parziale.
La contro reazione viene calibrata con estrema cautela, a seconda di chi
c'è al governo e le procedure che adotta nel portare avanti il suo
programma.
La forma iper-controllata che ha assunto il conflitto è funzione
diretta del sistema politico bipolare, che consente a ciascuno dei due
attori il ritorno al potere, in qualunque momento, senza veti. Anche l'opposizione
dunque ragiona da partito di governo, sempre. E la struttura sindacale
di riferimento non può che agire in consonanza. Questo riconferma
una volta di più la necessità (e la difficoltà) di
un progetto sindacale alternativo, che sappia criticare nel merito i provvedimenti
sociali, senza alcuna paura di dover dire delle cose diverse a governo
cambiato, e dunque le ragioni e le possibilità dell'autonomia sociale,
sindacale e politica.