Arundhati Roy, “Outlook India”, tradotto e pubblicato in Italia da “Internazionale", n. 851, 18/24 giugno 2010
Questo reportage, pubblicato dal settimanale Outlook, ha sollevato
molte polemiche sulla stampa indiana. La scrittrice è stata accusata
di romanticismo e faziosità. Addirittura qualcuno si è spinto
oltre chiedendo di processare la Roy per sostegno alla lotta armata. Un
gruppo di attivisti e intellettuali, tra cui Vandana Shiva, ha firmato
un appello a sostegno della scrittrice.
Per sapere di più sui maoisti indiani si veda: Piero Pagliani,
“Naxalbari - India. L'insurrezione nella futura ‘terza potenza mondiale’”,
con il contributo di Mallarika Sinha Roy, Mimesis, Milano 2007.
Le due righe scritte a macchina sul foglietto infilato sotto la mia
porta in una busta sigillata confermano l’appuntamento con la Più
Grave Minaccia per la Sicurezza Interna del paese. Sono mesi che aspetto
loro notizie. Devo farmi trovare al tempio di Ma Danteshwari, nel Chhattisgarh,
in quattro orari diversi di quattro giorni diversi. Questo ci coprirà
le spalle in caso di maltempo, gomme a terra, blocchi del traffico, scioperi
dei trasporti e semplice sfortuna. Sul biglietto c’è scritto: “Il
giornalista dovrà portare una macchina fotografica, il ‘tika’ e
un cocco. L’incaricato dell’accoglienza porterà un berretto, una
copia in hindi di Outlook e alcune banane. Parola d’ordine: Namashkar Guruji”.
Mi chiedo se l’incaricato si aspetti di incontrare un uomo. E se dovrei
procurarmi dei baffi.
Ci sono molti modi per descrivere Dantewada. E un ossimoro. È
una città di confine nel cuore dell’India. È l’epicentro
di una guerra. È una città sottosopra e alla rovescia. A
Dantewada i poliziotti girano in borghese e i ribelli in uniforme. Il responsabile
del carcere è in carcere. I detenuti sono liberi (trecento di loro
sono evasi dal carcere della città vecchia due anni fa). Le donne
vittime di stupro sono in stato d’arresto, mentre i loro stupratori tengono
comizi nel bazar.
Sull’altra riva del fiume Indravati, nella zona controllata dai maoisti,
c’è il posto che la polizia chiama “Pakistan”. Lì i villaggi
sono vuoti, ma la foresta è piena di gente. I bambini, che dovrebbero
essere a scuola, scorrazzano abbandonati a loro stessi. Nei deliziosi villaggi
in mezzo alla foresta gli edifici scolastici in cemento o sono stati fatti
esplodere e giacciono in un cumulo di macerie, o sono pieni di poliziotti.
La sanguinosa guerra che si combatte nella giungla è una guerra
di cui il
governo indiano va orgoglioso, ma sottovoce. L’operazione ‘Green hunt’
(caccia verde) è stata confermata e negata insieme. Il ministro
degli interni indiano (e gran commissario della guerra) P. Chidambaram
dichiara che non esiste, che è una creazione dei mezzi di informazione.
Eppure sono stati stanziati fondi consistenti e mobilitate decine di migliaia
di soldati. E anche se il teatro di guerra è la giungla dell’India
centrale, il conflitto avrà conseguenze gravi per tutti noi. Se
i fantasmi
sono gli spiriti di qualcuno, o di qualcosa, che ha cessato di esistere,
allora forse la nuova autostrada a quattro corsie che taglia la foresta
è l’opposto di un fantasma. Forse è il presagio di qualcosa
che verrà.
I nemici che si fronteggiano nella foresta sono diversi e impari in
quasi tutti i sensi. Da una parte c’è un imponente esercito paramilitare
armato con i soldi, la potenza di fuoco, i mezzi di comunicazione e la
‘hubris’ di una superpotenza in ascesa. Dall’altra ci sono semplici contadini
con armi tradizionali e sostenuti da un esercito di guerriglia maoista
superbamente organizzato e fortemente motivato, con alle spalle un’incredibile
storia di violenza e ribellione armata.
I maoisti e i paramilitari sono avversari di lunga data, i loro vecchi
avatar si sono combattuti numerose altre volte in passato: nel Telangana
negli anni cinquanta, nel Bengala occidentale, nel Bihar, nella città
di Srikakulam in Andhra Pradesh alla fine degli anni sessanta e negli anni
settanta, e poi di nuovo in Andhra Pradesh, Bihar e Maharashtra dagli anni
ottanta fino ai giorni nostri. Ognuno conosce le tattiche dell’altro e
ha studiato con attenzione i suoi manuali di combattimento. Ogni
volta sembrava che i maoisti (o i loro avatar precedenti) fossero stati
non solo sconfitti, ma addirittura sterminati fisicamente. E ogni volta
riemergevano più organizzati più determinati e più
influenti che mai. Oggi il fronte della rivolta si è esteso alle
foreste ricche di minerali di Chhattisgarh, Jharkhand, Orissa e Bengala
occidentale, patria di milioni di adivasi, gli aborigeni dell’India, e
terra promessa per le grandi aziende.
Per la coscienza liberale è più facile credere che la
guerra nelle foreste sia una guerra tra il governo indiano e i maoisti,
quelli che definiscono le elezioni una truffa e il parlamento un porcile,
e che hanno dichiarato apertamente la loro intenzione di rovesciare lo
stato indiano. È comodo dimenticare che le tribù dell’India
centrale hanno una lunga storia di resistenza che risale a molti secoli
prima di Mao (ovvio, altrimenti non esisterebbero). Gli ho, gli oraon,
i kol, i santa!, i munda e i gond
si sono ribellati più volte: contro gli inglesi, contro gli
esattori e gli strozzini. Le rivolte erano represse senza pietà,
in migliaia venivano uccisi, ma la gente non si arrendeva. Anche dopo l’indipendenza,
gli indigeni sono stati al centro della prima rivolta che potremmo definire
maoista, nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala occidentale (dov’è
nata la parola “naxalita”, oggi usata come sinonimo di maoista). Da allora,
la politica naxalita è stata inestricabilmente legata alle rivolte
tribali,
cosa che la dice lunga sia sugli indigeni sia sui naxaliti.
Questo retaggio di ribellioni ha lasciato dietro di sé un popolo
pieno di rabbia, deliberatamente isolato ed emarginato dal governo. La
costituzione dell’India, caposaldo morale della sua democrazia, è
stata adottata dal parlamento nel 1950. Un giorno tragico per gli adivasi.
La costituzione ratificava la politica coloniale e assegnava allo stato
la gestione dei territori tribali. Da un giorno all’altro, trasformava
gli aborigeni in occupanti abusivi della loro terra, negava il loro diritto
sui prodotti della foresta, criminalizzava un intero sistema di vita. In
cambio del diritto di voto, li derubava del diritto alla sopravvivenza
e alla dignità.
Dopo averli espropriati e spinti verso una spirale di povertà,
con un crudele colpo di mano il governo ha cominciato a usare contro di
loro la loro stessa miseria. Ogni volta che si trattava di dislocare una
popolazione numerosa - per costruire le dighe, per i progetti d’irrigazione
o per fare spazio alle miniere - il governo parlava di “reintegrare gli
indigeni nella società” o di renderli partecipi dei “frutti della
modernità”. Delle decine di milioni di sfollati (più di trenta
milioni solo per le grandi dighe) a causa del “progresso” indiano, la gran
parte sono indigeni. Quando il governo comincia a parlare del bene degli
indigeni bisogna preoccuparsi.
L’ultimo a parlarne è stato il ministro degli interni Chidambaram,
che ha dichiarato di non volere che gli indigeni vivano in “culture da
museo”. Eppure, il benessere delle popolazioni tribali non sembrava essere
in cima alle sue priorità quando faceva l’avvocato e rappresentava
gli interessi delle grandi compagnie minerarie. Quindi potrebbe essere
una buona idea indagare sui motivi di questa sua nuova preoccupazione.
Nel corso degli ultimi cinque o sei anni, i governi di Chhattisgarh,
Jharkhand, Orissa e Bengala occidentale hanno firmato centinaia di protocolli
d’intesa con aziende - contratti per diversi miliardi di dollari e tutti
segreti - per la costruzione di acciaierie, fabbriche di spugna di ferro,
centrali elettriche, raffinerie di alluminio, dighe e miniere. Perché
questi protocolli si traducano in soldi veri, le comunità tribali
devono essere trasferite. Da qui la guerra. Quando un paese che si definisce
democratico dichiara apertamente una guerra dentro i suoi confini, questa
guerra cos’è? La resistenza ha qualche probabilità di successo?
Dovrebbe averla? Chi
sono i maoisti? Sono solo nichilisti violenti che impongono un’ideologia
superata a gruppi tribali, guidandoli verso un’inutile rivolta? Quali lezioni
hanno imparato dalla loro esperienza passata? La lotta armata è
intrinsecamente antidemocratica? La “teoria del sandwich” - secondo cui
gli indigeni sono vittime del fuoco incrociato tra stato e maoisti - è
corretta? I maoisti e gli indigeni sono due categorie completamente separate,
come ci viene detto? I loro interessi convergono? Hanno imparato
qualcosa gli uni dagli altri? Si sono influenzati a vicenda?
Il giorno prima che partissi mi ha chiamato mia madre. Aveva una voce
assonnata. “Stavo pensando”, mi ha detto, “che quello di cui questo paese
ha bisogno è la rivoluzione”. Un articolo su internet dice che il
Mossad sta addestrando trenta superpoliziotti indiani in tecniche di omicidi
mirati, che dovrebbero servire a “decapitare” l’organizzazione maoista.
Sulla stampa si parla delle nuove tecnologie che l’India ha acquistato
da Israele: telemetri laser, visori termici e droni senza pilota, tanto
popolari nell’esercito americano. Armi perfette da usare contro i poveri.
Il viaggio in auto da Raipur a Dantewada dura circa dieci ore, attraverso
zone note per essere “infestate di maoisti”. Non sono parole dette a caso:
infestare/infestazione sono termini che fanno pensare a malattie/parassiti.
Le malattie vanno curate, i parassiti sterminati. I maoisti devono essere
annientati. È il modo innocuo e strisciante con cui il linguaggio
del genocidio s’insinua nel nostro vocabolario.
Per difendere l’autostrada, le forze di sicurezza hanno reso “sicura”
una fettuccia di foresta su entrambi i lati. Più all’interno c’è
il regno dei “Dada log”. I Fratelli. I Compagni. Alla periferia di Raipur,
un grande cartellone pubblicizza il ‘Vedanta cancer hospital’ (di proprietà
dell’azienda per cui un tempo lavorava il nostro ministro degli interni).
A Orissa, la Vedanta estrae bauxite e finanzia un’università. E
il modo innocuo e strisciante con cui le compagnie minerarie s’insinuano
nel nostro immaginario: i giganti buoni che hanno un cuore. Si chiama Rsi,
responsabilità sociale d’impresa. Consente alle compagnie minerarie
di essere come il leggendario attore ed ex primo ministro Nandamuri Taraka
Rama Rao (noto in India come Ntr), a cui piaceva interpretare tutti i ruoli
nei film mitologici in telugu, i buoni e i cattivi contemporaneamente.
L’Rsi maschera la vergognosa economia su cui si fonda il settore minerario
indiano. Per esempio, secondo il recente rapporto LokAyukta (un’associazione
che lotta contro la corruzione) sul Karnataka, ogni tonnellata di minerale
di ferro estratto da una compagnia privata frutta circa 27 rupie al governo
e cinquemila alla compagnia mineraria. Nel settore della bauxite e dell’alluminio
la situazione è ancora più grave. Si tratta di una vera e
propria rapina alla luce del sole, che vale miliardi di dollari. Abbastanza
da comprarci elezioni, governi, giudici, giornali, canali tv, ong e agenzie
per gli aiuti. Cosa volete che sia qualche ospedale oncologico qua e là?
Non ricordo di aver visto il nome della Vedanta sulla lunga lista di protocolli
d’intesa firmati dal governo del Chhattisgarh. Ma sono abbastanza contorta
da sospettare che dove c’è un ospedale oncologico dev’esserci anche
una montagna di bauxite sventrata, da qualche parte.
Passiamo da Kanker, la città famosa per il suo ‘Counter terrorism
and jungle warfare college’, diretto dal generale B.K. Ponwar, acceso propagandista
di questa guerra, a cui è stato assegnato il compito di trasformare
poliziotti corrotti e scioperati (paglia) in commando antiguerriglia (oro).
Sui muri di pietra si legge “Combattere la guerriglia come guerriglieri”,
il motto della scuola militare.
Agli uomini viene insegnato a correre, strisciare, saltare su e giù
da elicotteri a mezz’aria, andare a cavallo (non si sa bene perché),
mangiare serpenti e sopravvivere con quello che trovano nella giungla.
Il generale si vanta di addestrare degli sbandati a combattere i “terroristi”.
La scuola sforna ottocento poliziotti diplomati ogni sei settimane. Sono
in progetto venti scuole simili in tutta l’India. La polizia si sta gradualmente
trasformando in un esercito (nel Kashmir accade il contrario: stanno
trasformando l’esercito in un’enorme forza di polizia amministrativa).
Sottosopra e alla rovescia. In ogni caso, il nemico è il popolo.
È tardi. A Jagdalpur dormono tutti tranne Rahul Gandhi che dai
suoi manifesti chiede d’iscriversi allo ‘Youth congress’. E andato nel
Bastar due volte negli ultimi mesi ma non ha detto molto sulla guerra.
Probabilmente al Principe del Popolo non conviene immischiarsi, a questo
punto. I suoi responsabili della comunicazione devono aver puntato i piedi.
Il fatto che il ‘Salwa judum’ - il temuto gruppo paramilitare finanziato
dal governo e responsabile di stupii e omicidi, di aver bruciato
villaggi e allontanato centinaia di migliaia di persone dalle loro
case - sia guidato da Mahendra Karma, un membro del Partito del congresso
indiano, non trova molto spazio nella ben orchestrata promozione politica
di Rahul Gandhi.
L’appuntamento
Arrivo al tempio di Ma Danteshwari, al primo dei quattro appuntamenti,
con un certo anticipo. Ho la macchina fotografica, il mio piccolo cocco
e un ‘tika’ rosso sulla fronte. Mi chiedo se qualcuno mi stia guardando
e stia ridendo. Nel giro di pochi minuti mi si avvicina un ragazzo. Porta
un berretto e una cartella sulle spalle. Le unghie scheggiate sono laccate
di rosso. Niente Outlook in hindi, niente banane. “Sei tu che devi venire
nella foresta?”, mi fa. Niente ‘Namashkar Guruji’. Io non so che dire.
Lui tira fuori dalla tasca un biglietto tutto bagnato e me lo consegna.
C’è scritto: ‘Outlook nahin mila’, non ho trovato Outlook.
“E le banane?”
“Me le sono mangiate”, dice. “Mi era venuta fame”.
È una vera minaccia per la sicurezza.
Sullo zainetto c’è scritto “Charlie Brown - Non il solito cretino”.
Mi dice di chiamarsi Mangtu. Ben presto scoprirò che Dandakaranya,
la foresta in cui sto per inoltrarmi, è piena di gente che ha nomi
e identità diverse e intercambiabili. Un’idea che per me è
come un balsamo. Che bello non essere incatenati a se stessi, poter essere
qualcun altro per un po’. Andiamo alla fermata dell’autobus, a pochi minuti
dal tempio. E già affollata. Poi succede tutto in fretta. Ci sono
due uomini in moto. Non una parola, solo un cenno di riconoscimento, un
bilanciamento del peso del corpo, l’avvio dei motori. Non ho idea di dove
stiamo andando. Passiamo davanti alla casa del commissario di polizia,
che riconosco dalla mia ultima visita. Era un uomo schietto, il commissario.
“Vede, signora, detto francamente, non credo che questo problema possa
essere risolto dalla polizia o dall’esercito. Il punto è che questi
indigeni non sanno cosa sia l’avidità. A meno che non diventino
avidi, non abbiamo speranza. Gliel’ho detto al mio capo, richiamiamo le
forze armate e mettiamo una tv in tutte le case. Le cose si risolveranno
da sole”.
In quattro e quattr’otto siamo fuori città. Nessuno ci segue.
Il viaggio è lungo. Tre ore, secondo il mio orologio. E s’interrompe
all’improvviso, in mezzo al nulla, su una strada deserta. Mangtu scende
dalla moto. Anch’io. Le moto si allontanano, io prendo il mio zaino e seguo
nella foresta la piccola minaccia per la sicurezza interna. E una bella
giornata. Sotto i nostri piedi, un tappeto dorato.
Dopo un po’, sbuchiamo sulle sponde bianche e sabbiose di un grande
fiume piatto. Evidentemente è alimentato dai monsoni, perché
in questo periodo è ridotto più o meno a una spianata di
sabbia, con al centro un ruscello che arriva fino alle caviglie, facile
da guadare. Dall’altra parte c’è il “Pakistan”. “Laggiù,
signora”, mi aveva detto con la sua schiettezza il commissario, “i miei
uomini sparano per uccidere”. Mi torna in mente quando cominciamo l’attraversamento.
Vedo noi due nel
mirino dei poliziotti, piccole sagome contro il paesaggio, facili da
individuare. Ma Mangtu non sembra affatto preoccupato, e io con lui.
Ad aspettarci sull’altra sponda, con una camicia giallo elettrico,
c’è Chandu. Una minaccia per la sicurezza appena più grande.
Avrà una ventina d’anni. Ha bel sorriso, una bicicletta, una tanica
d’acqua bollita e molti pacchetti di biscotti al glucosio per me, da parte
del Partito. Riprendiamo fiato e ci rimettiamo in cammino. Più tardi
verrò a sapere che la bicicletta è solo uno specchietto per
le allodole. La strada è quasi interamente non ciclabile. Ci arrampichiamo
su per delle colline
ripide e scendiamo lungo dei crinali piuttosto precari. Quando non
può portarla a mano, Chandu prende la bicicletta e la solleva sopra
la testa, come se non pesasse niente. Comincio a chiedermi cosa ci sia
dietro alla sua aria un po’ confusa da ragazzo di campagna. Scoprirò
(molto dopo) che è in grado di maneggiare ogni tipo di arma, “tranne
una mitragliatrice leggera”, mi dirà allegramente.
Tre uomini belli e completamente ubriachi, con fiori nei turbanti,
camminano con noi per circa mezz’ora, prima che le nostre strade si dividano.
Al tramonto i sacchi che portano in spalla si mettono a cantare. Dentro
ci sono dei galli che non sono riusciti a vendere al mercato. Chandu sembra
capace di vedere al buio. Io devo usare la mia torcia elettrica. I grilli
cominciano a cantare e presto sopra di noi c’è un’orchestra, una
volta sonora. Vorrei tanto guardare il cielo di notte, ma non oso.
Devo tenere gli occhi fissi a terra mentre cammino. Un passo alla volta.
Concentrarmi.
Sento i cani. Ma non so dire quanto siano lontani. Il terreno si fa
pianeggiante. Lancio un’occhiata furtiva al cielo. Resto estasiata. Spero
che ci fermeremo presto. “Presto” dice Chandu. Sarà solo un’ora
dopo. Vedo le sagome di alberi enormi. Arriviamo.
Il villaggio sembra spazioso, le case sono distanti tra loro. Quella
in cui entriamo è bella. C’è un fuoco, alcune persone sedute
in circolo. Altre stanno fuori, al buio. Non saprei dire quante sono. Riesco
a malapena a intravederle. Si leva un mormorio. “Lal salaam kaamraid” (“Saluto
rosso, compagna”). “Lal salaam”, rispondo io. Dire che sono stanca è
poco. La padrona di casa mi chiama dentro e mi dà del pollo al curry
con fagioli verdi e riso rosso. Favoloso. La sua bambina dorme
accanto a me, con le cavigliere d’argento che brillano alla luce del
fuoco.
Dopo cena apro il mio sacco a pelo. È un rumore strano e intrusivo
quello che fa la grande cerniera lampo. Qualcuno accende la radio. Il programma
in hindi della Bbc. La chiesa d’Inghilterra ha ritirato i suoi fondi al
progetto Niyamgiri della Vedanta, citando il degrado ambientale e le violazioni
dei diritti della tribù dei Dongria Kondh. Sento i campanacci, lo
scalpiccio del bestiame che sbuffa e scoreggia. Tutto bene fuori, nel mondo.
Chiudo gli occhi.
Ci svegliamo alle cinque. Alle sei ci muoviamo. Un paio d’ore dopo
guadiamo un altro fiume. Attraversiamo villaggi bellissimi. Ogni villaggio
ha una famiglia di alberi di tamarindo che veglia su di lui, come un gruppo
di enormi divinità benevole. È dolce, il tamarindo del Bastar.
Alle undici il sole è già alto, e camminare non è
divertente. Ci fermiamo in un villaggio per il pranzo. A quanto pare Chandu
conosce gli abitanti della casa. Una bella ragazza flirta con lui. Sembra
timido, forse perché ci sono io. Il pranzo è a base di papaya
cruda con masoor dal e riso rosso. E polvere di pepe roncino rosso. Aspetteremo
che il sole sia un po’ meno forte prima di rimetterci in cammino.
Schiacciamo un sonnellino nel gazebo. Il posto ha una sua scarna bellezza.
Tutto è pulito e necessario. Nessun ingombro inutile. Una gallina
nera si pavoneggia andando su e giù lungo un muretto di fango. Una
griglia di bambù sostiene le travi del tetto di paglia, fungendo
anche da ripostiglio.
Ci sono una scopa d’erba, due tamburi, un cesto di canne intrecciate,
un ombrello rotto e una pila di scatole di cartone ondulato, vuote e schiacciate.
Qualcosa cattura la mia attenzione. Ho bisogno degli occhiali. Ecco cosa
c’è scritto sul cartone: “Ideal Power 90 High energy emulsion explosive
(Class-z) SD CATZZ”.
Riprendiamo il cammino verso le due. Al prossimo villaggio troveremo
ad aspettarci una ‘didi’ (sorella, compagna) che sa quale sarà la
tappa successiva del viaggio. Chandu non la conosce. Esiste anche un’economia
delle informazioni. Nessuno deve sapere tutto. Ma quando arriviamo al villaggio,
la ‘didi’ non c’è. Di lei non si sa nulla. Per la prima volta, vedo
una piccola ombra di preoccupazione sul volto di Chandu. Sul mio, se ne
posa una grande. Non so quali siano i sistemi di
comunicazione, ma se non avessero funzionato?
Siamo davanti a una scuola deserta, un po’ fuori dal villaggio. Perché
tutte le scuole statali nei villaggi sono costruite come fortezze di cemento,
con persiane d’acciaio alle finestre e porte blindate? Perché non
sono di fango e paglia come le case locali? Perché servono da caserme
e bunker.
“Nei villaggi dell’Abujhmad”, dice Chandu, “le scuole sono così”:
con un bastoncino traccia per terra la pianta di una scuola. Tre ottagoni
attaccati fra loro, come un alveare. “Così possono sparare in tutte
le direzioni”. Disegna alcune frecce per illustrare il concetto: sembra
un grafico del cricket che visualizza le traiettorie dei tiri del battitore.
Nelle scuole non ci sono maestri, dice Chandu. Sono scappati tutti. O li
avete fatti scappare voi? No, noi diamo la caccia solo ai poliziotti. Ma
perché i
maestri dovrebbero venire fin qui, nella giungla, quando prendono lo
stipendio anche a casa loro?
Giusto. M’informa che questa è una “zona nuova”. Il Partito
ci è entrato solo di recente.
Arriva una ventina di ragazzi e ragazze. Sono adolescenti o poco più
che ventenni. Chandu spiega che sono la milizia di villaggio, il rango
più basso della gerarchia militare dei maoisti. Non avevo mai visto
persone del genere. Sono vestiti con ‘sari’ e ‘!ungi’, alcuni con logore
tute verde oliva. I ragazzi indossano gioielli e copricapo elaborati. Ognuno
di loro ha un fucile a carica frontale, che qui si chiama ‘bharmaar’. Alcuni
hanno anche coltelli, asce, arco e frecce. Un ragazzo porta un mortaio
di fortuna, ricavato da un pesante tubo d’acciaio lungo un metro. Il tubo
è pieno di polvere da sparo e proiettili shrapnel. Fa un gran rumore,
ma si può usare una volta sola. Però spaventa la polizia,
mi spiegano. E ridono. La guerra non sembra in cima ai loro pensieri. Forse
perché questa zona è fuori dal raggio d’azione del ‘Salwa
judum’. Hanno appena finito la loro giornata di lavoro.
Stanno aiutando a costruire una recinzione intorno ad alcune case del
villaggio: servirà a tenere le capre lontane dai campi. Sono pieni
di allegria e di curiosità. Le ragazze sono sicure di sé
e disinvolte con i ragazzi. Ho un sesto senso per queste cose, e rimango
colpita. Il loro lavoro consiste nel pattugliare e proteggere un gruppo
di quattro o cinque villaggi: aiutano nei campi, puliscono pozzi o riparano
case. Fanno tutto quello che serve. Ma la ‘didi’ non si vede ancora. Che
fare?
Niente. Aspettiamo. Aiutiamo ad affettare e a sbucciare.
Dopo cena, senza tanti discorsi, tutti si mettono in fila. Evidentemente
ci spostiamo. Tutto si sposta con noi: riso, verdure, pentole e padelle.
Lasciamo il complesso della scuola e ci inoltriamo nella foresta, in fila
uno dietro l’altro. In meno di mezz ’ora arriviamo in una radura dove passeremo
la notte. Non c’è il minimo rumore. Nel giro di pochi minuti tutti
hanno steso a terra i loro teli di plastica azzurri, gli onnipresenti ‘jhilli’
(senza i quali non può esserci rivoluzione). Chandu e Mangtu ne
dividono uno, e un altro lo stendono per me. Mi trovano il posto migliore,
vicino alla roccia grigia migliore. Chandu dice che ha spedito un messaggio
alla ‘didi’. Se lo riceve, arriverà domattina presto.
Se lo riceve.
È la stanza più bella in cui dormo da tanto tempo. La
mia suite privata in un albergo a cinque stelle.
Sono circondata da questi strani, bellissimi bambini con il loro strano
arsenale. Sono tutti maoisti, questo è certo. Moriranno tutti? Contro
di loro, la scuola militare di addestramento alla guerriglia?
Contro di loro, gli elicotteri d’assalto, le immagini termiche e i
telemetri laser? Perché devono morire? Per cosa? Per trasformare
tutto questo in una miniera? Ricordo la mia visita alle miniere a cielo
aperto di minerale ferroso a Keonjhar, nell’Orissa. Lì, una volta,
c’era una foresta. E bambini come questi. Ora la terra è come una
ferita rossa e aperta. Polvere rossa riempie narici e polmoni. L’acqua
è rossa, l’aria è rossa, le persone sono rosse, i loro polmoni
e i loro capelli sono rossi. Giorno e notte i camion attraversano rombando
i loro villaggi, paraurti contro paraurti, migliaia di camion che trasportano
minerali grezzi al porto di Paradip, da cui partono per la Cina. Lì
si trasformeranno in automobili e fumo e città che spuntano come
funghi da un giorno all’altro. Si trasformeranno in un “tasso di crescita”
che lascia gli economisti senza fiato, in armi per fare la guerra.
Tutti dormono, tranne le sentinelle che fanno turni di un’ora e mezzo.
Finalmente, posso guardare le stelle. Da piccola, quando vivevo sulle rive
del fiume Meenachal, pensavo che il verso dei grilli - che cominciava sempre
al crepuscolo - fosse il rumore delle stelle quando si accendono, pronte
a risplendere. Sono sorpresa di quanto mi piace stare qui. Non vorrei trovarmi
in nessun altro posto al mondo. Chi potrei essere? La compagna Rahel sotto
le stelle? Forse domani la ‘didi’ arriverà.
Arrivano nel primo pomeriggio. Li vedo da lontano. Sono una quindicina,
tutti in divisa verde, vengono di corsa verso di noi. Anche da lontano
capisco da come corrono che sono il vero esercito. Il ‘People’s liberation
guerrilla army’ (Plga). Contro di loro, le immagini termiche e i fucili
con puntatori laser. Contro di loro, la scuola di addestramento alla guerriglia.
Portano fucili seri, Insas, Slr, due hanno un Ak-47. Il capo della squadra
è il compagno Madhav, che è nel Partito da quando aveva nove
anni. Viene da Warangal, nell’Andhra Pradesh. E agitato e dispiaciuto,
si scusa. C’è stato un grosso problema di comunicazione, continua
a ripetere, di solito non capita mai. Io sarei dovuta arrivare al campo
principale la prima notte. Ma qualcuno ha lasciato cadere il testimone
della staffetta, nella giungla. La motocicletta doveva lasciarmi in tutt’altro
posto. “Ti abbiamo fatto aspettare, ti abbiamo fatto camminare tanto. Siamo
corsi subito quando è arrivato il messaggio che eri qui”.
Dico che non importa, che sono venuta preparata ad aspettare, camminare
e ascoltare. Lui vuole ripartire immediatamente, perché la gente
al campo ci aspetta, è preoccupata.
Armi e sorrisi
Sono poche ore di cammino fino al campo. Quando arriviamo è quasi
buio. Ci sono diverse file di sentinelle e pattuglie disposte in cerchi
concentrici. Vedo centinaia di compagni allineati su due file.
Tutti hanno un’arma. E un sorriso. Si mettono a cantare: ‘Lal lal salaam,
lal lal salaam, aane vaale saathiyon ko lal lal salaam’ (saluto ai compagni
che sono arrivati). Cantano dol, sembra un brano tradizionale che parla
di un fiume o dei fiori di una foresta. Con la canzone, anche il saluto,
la stretta di mano e il pugno chiuso. Tutti salutano tutti, mormorando
‘Lalslaam, mlalslaa mlalslaam’ ...
A parte un grande ‘jhilli’ steso per terra largo circa metri e mezzo
non c’è traccia di un accampamento. La mia stanza per la notte ha
un ‘jhilli’ per tetto. O mi stanno ricompensando per i giorni di cammino
che ho già fatto, o mi stanno viziando per quelli mi aspettano.
O entrambe le cose. In ogni caso è l’ultima volta che avrò
un tetto sopra la testa. A cena la compagna Narmada, che guida il ‘Krantikari
mahila sangathan’ (Kams) e ha una taglia sulla testa; la compagna Saroja
del Plga,
che è alta appena il suo fucile Slr; la compagna Maase (che
in gon significa “ragazza nera”), anche lei con una taglia testa; il compagno
Rupi, il mago delle tecnologie; il compagno Raju, comandante della divisione
con cui ho attraversato la giungla a piedi; e il compagno Venu (o Sonu
o Sushil,comunque vogliate chiamarlo), il più alto in grado. Forse
è il comitato centrale, forse è addirittura il politburo.
Non me lo dicono, io non lo chiedo. Tra di noi parliamo gondi, halbi, telugu,
punjabi e
malayalam. Solo Maase parla inglese (quindi comunichiamo in hindi!).
La compagna Maase è alta e taciturna, e per entrare nella conversazione
sembra dover attraversare uno strato di dolore. Ma da come mi abbraccia
capisco che è una lettrice. E che le mancano i libri, nella giungla.
Mi racconterà la sua storia solo dopo. Quando mi affiderà
il suo dolore.
Arrivano brutte notizie, nel modo in cui arrivano qui nella giungla.
Tramite un fattorino con i “biscotti”: biglietti scritti a mano su fogli
di carta, piegati e spillati in piccoli quadrati. Ce n’è un sacchetto
pieno. Come patatine. Notizie che arrivano un po’ da ovunque. La polizia
ha ucciso cinque persone nel villaggio di Ongnaar, quattro miliziani e
un civile: Santhu Pottai (25 anni), Phoolo Vadde (22 anni), Kande Pottai
(22 anni), Ramoli Vadde (2o anni), Dalsai Koram (22 anni). Avrebbero potuto
essere i ragazzini del mio dormitorio stellato, la sera prima.
Poi arrivano buone notizie. Un piccolo contingente di persone, tra
cui un giovane grassoccio. Anche lui indossa una tuta, che però
sembra nuova di zecca. Tutti la ammirano, e si complimentano per come gli
sta. Lui sembra imbarazzato e compiaciuto. È un medico che è
venuto a vivere e a lavorare con i compagni nella foresta. L’ultima volta
che si è visto un medico nel Dandakaranya è stato molti anni
fa. Alla radio, si parla dell’incontro del ministro degli interni con i
governatori degli
stati “interessati dall’estremismo di sinistra”. I governi dello Jharkhand
e del Bihar sono molto schivi e non hanno partecipato. Tutti quelli seduti
intorno alla radio ridono. In tempo di elezioni, spiegano, per tutta la
durata della campagna elettorale e forse anche un paio mesi dopo la formazione
del governo, i leader politici dei partiti tradizionali dicono cose come
“i naxaliti sono nostri figli”. Ma potete stare tranquilli che prima o
cambieranno idea e tireranno fuori gli artigli.
Mi presentano la compagna Kamla. Mi dicono che non devo per nessun
motivo allontanarmi neppure di un metro dal mio ‘jhilli’ senza svegliarla.
Perché è facile perdere l’orientamento al buio, e smarrirsi.
(Io non la sveglio. Dormo come un ghiro). La mattina, Kamla mi consegna
un sacchetto giallo di polietilene con un angolo tagliato. Una volta conteneva
olio di soia Abis Gold. Ora è la mia tazza. Non si butta via niente
sulla Strada per la Rivoluzione. Anche oggi penso sempre alla compagna
Kamla, tutti i giorni. Ha 17 anni. Porta una pistola fatta in casa legata
su un fianco. E che sorriso, ragazzi. Ma se i poliziotti la trovano, l’ammazzano.
Potrebbero violentarla, prima. Non le faranno domande. Perché è
una Minaccia per la sicurezza interna.
Dopo la colazione, il compagno Venu (Sushil, Sonu, Murali) mi aspetta,
seduto a gambe incrociate sul ‘jhilli’. Sembra in tutto e per tutto un
fragile maestro di campagna. Mi farà una lezione di storia. O, più
esattamente, una lezione sulla storia degli ultimi trent’anni nella foresta
di Dandakaranya, culminata nella guerra che imperversa oggi. Certamente
è una versione partigiana. D’altra parte, quale storia non lo è?
In ogni caso, la storia segreta deve essere resa pubblica per poter essere
contestata e discussa, anziché solo oggetto di menzogne, come
avviene oggi.
Il compagno Venu ha modi pacati e rassicuranti e una voce gentile che,
giorni dopo, riaffiorerà in un contesto molto difficile per me.
Stamattina parla per molte ore, quasi ininterrottamente. È come
un piccolo direttore di negozio con un enorme mazzo di chiavi in mano,
cui apre un labirinto di armadietti pieni di storie, e osservazioni. Il
compagno Venu era in una delle sette squadre armate che hanno attraversato
il fiume Godavari dall’Andhra Pradesh e sono entrate nella foresta di Dandakaranya
(il Dk, nel gergo dei guerriglieri) nel giugno del 1980, trent’anni fa.
È uno 49 ribelli originari. Facevano parte del ‘People’s war group’
(Pwg), una fazione del Partito comunista indiano marxista-leninista o Cpi(ml),
i primi naxaliti. Il Pwg si era costituito ufficialmente come partito separato
e indipendente nell’aprile di quell’anno, sotto la guida di Seetharamiah.
Aveva deciso di istituire un esercito permanente e gli serviva una base.
Quella base doveva essere la foresta di Dandakaranya. Per questo aveva
inviato sette squadre a fare una prima ricognizione dell’area e avviare
la creazione di zone di guerriglia. Se i partiti comunisti dovessero avere
un esercito permanente, e se un “esercito del popolo” fosse una contraddizione
in termini o no, era una questione già dibattuta da tempo. La decisione
del Pwg di dotarsi di un esercito permanente era nata dall’esperienza nell’AnPradesh,
dove la sua campagna “La terra ai contadini” aveva portato a uno scontro
diretto con i proprietari terrieri, e a una conseguente repressione poliziesca
che il Partito non avrebbe potuto fronteggiarla senza una sua forza combattente
addestrata. Nel 2004 il Pwg si è fuso con le altre due fazioni del
Cpi (ml) - il ‘Party unity’ (Pu) e il ‘Maoist communist centre’ (Mcc),
attivo soprattutto
fuori dal Bihar e dallo Jharkhand - diventando quello che è
ora, il ‘Communist party of India-Maoist’.
La terra dei gond
Il Dandakaranya fa parte di quello che gli inglesi chiamavano, nel linguaggio
dei bianchi, Gondwana, la terra dei gond. Oggi la foresta è attraversata
dai confini degli stati di Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Orissa, Andhra
Pradesh e Maharashtra. Dividere una popolazione turbolenta in unità
amministrative separate è un vecchio trucco. Ma questi maoisti e
gond maoisti non prestano grande attenzione a cose come i confini statali.
Hanno mappe diverse in testa e, come altre creature
della foresta, hanno i loro sentieri. Per loro, le strade non sono
fatte per camminarci. Sono fatte solo per esse attraversate o, come avviene
sempre più spesso, per tendere imboscate. Anche se i gond (divisi
in tribù koya e dorla) sono di gran lunga la maggioranza, ci sono
anche piccoli insediamenti di altre comunità tribali. Le comunità
non adivasi, commercianti e coloni, vivono ai margini della foresta, vicino
alle strade e ai mercati.
I membri del Pwg non sono stati i primi evangelizzatori ad arrivare
a Dandakaranya. Il noto gandhiano Baba Amte aveva fondato il suo ‘ashram’
e lebbrosario a Warora nel 1975. La ‘Ramakrishna mission’ aveva aperto
scuole nei villaggi più remoti delle foreste di Abujhmad. Nel Bastar
del nord, Baba Bihari Das aveva lanciato un’offensiva per “riportare gli
indigeni all’ovile induista”, con una campagna che denigrava le culture
tribali e le induceva all’odio di sé, offrendo in cambio il
grande dono dell’induismo: la casta. Ai primi convertiti, i capivillaggio
e i grandi proprietari terrieri - gente come Mahendra Karma, il fondatore
del ‘Salwa judum’ - veniva conferito lo status di ‘brahmini dwij’, nati
due volte. (Era un po’ una truffa, visto che brahmini non si diventa. Altrimenti,
oggi saremmo un paese di brahmini).
Ma questa versione contraffatta dell’induismo è considerata
buona per le comunità tribali quanto tutti gli altri prodotti contraffatti
- biscotti, sapone, fiammiferi, olio - che si vendono nei mercati dei villaggi.
Sull’onda dell’induizzazione sono stati cambiati i nomi dei villaggi sui
registri fondiari, col risultato che ora molti hanno due nomi, il nome
comune e quello ufficiale. Il villaggio di Innar, per esempio, è
diventato Chin-nari. Sulle liste elettorali, i nomi tribali sono stati
trasformati in nomi indù
(Massa Karma è diventato Mahendra Karma). Quelli che non hanno
voluto tornare all’ovile indù sono stati dichiarati “katwa” (praticamente
intoccabili), e poi sono diventati l’elettorato naturale dei maoisti.
Il Pwg ha cominciato la sua attività politica nel sud del Bastare
nel distretto di Gadchiroli. Il compagno Venu racconta in modo abbastanza
particolareggiato quei primi mesi. Gli abitanti dei villaggi erano diffidenti,
non li facevano entrare nelle loro case. Nessuno gli offriva da bere o
da mangiare.
La polizia aveva fatto circolare la voce che fossero ladri. Le donne
nascondevano i gioielli nella cenere delle stufe. La repressione era molto
dura. Nel novembre del 1980, nel Gadchiroli, la polizia aprì il
fuoco durante un’assemblea di villaggio, uccidendo un’intera squadra. Furono
le prime vittime dei cosiddetti ‘encounter killings’, “incontri”, esecuzioni
sommarie cammuffate da conflitti a fuoco.
Dopo questa traumatica battuta d’arresto, i compagni si ritirarono
al di là delle sponde del Godavari, ad Adilabad. Ma nel 1981 tornarono.
Cominciarono a far organizzare gli indigeni, per chiedere di poter vendere
a un prezzo più alto le foglie di ‘tendu’. All’epoca i commercianti
pagavano tre paise (centesimi di rupia) per un fascio di circa cinquanta
foglie. Fu un lavoro enorme organizzare persone completamente estranee
a questo tipo di azioni politiche, e guidarle in uno sciopero. Alla fine
lo sciopero ebbe successo e il prezzo venne portato a sei paise a fascio,
il doppio. Ma il vero successo per il Partito fu quello di riuscire a dimostrare
il valore dell’unione, e di un nuovo modo di condurre una trattativa politica.
Oggi, dopo molti scioperi e agitazioni, il prezzo di un fascio di foglie
di ‘tendu’ è di una rupia. (Per quanto possa sembrare improbabile,
alla luce di queste cifre, il fatturato del commercio del ‘tendu’ è
di miliardi di rupie). Ogni stagione, il governo lancia gare d’appalto
e consente agli imprenditori di estrarre un certo volume di foglie di ‘tendu’,
di solito tra i 1.500 e i cinquemila sacchi standard, noti come ‘manak
bora’. Ogni ‘manak bora’ contiene circa mille fasci di foglie e, naturalmente,
non c’è modo di assicurarsi che gli appaltatori non ne estraggano
più del dovuto. Quando il ‘tendu’ arriva sul mercato viene venduto
a chili.
Con la sua aritmetica scivolosa, l’astuto sistema di misurazione che
converte fasci di foglie in sacchi e poi in chili è controllato
dagli appaltatori e si presta a ogni tipo di manipolazione. La stima più
prudente ipotizza un profitto intorno alle 1.100 rupie a sacco (questo
dopo aver pagato al Partito una commissione di 120 rupie a sacco). Anche
così, un piccolo appaltatore (1.500 sacchi) guadagna circa un milione
e 600mila rupie a stagione, e un grosso appaltatore (cinquemila sacchi)
fino a
cinque milioni e mezzo di rupie. Una stima più realistica potrebbero
essere le stesse cifre moltiplicate per diverse volte. Intanto, la Più
Grave Minaccia per la Sicurezza Interna guadagna appena quanto basta a
sopravvivere fino alla stagione successiva.
Veniamo interrotti da alcune risate e dalla vista di Nilesh, uno dei
giovani compagni del Plga, che corre verso la cucina dandosi degli schiaffi.
Quando mi passa vicino, vedo che ha in mano una foglia arrotolata piena
di formiche rosse inferocite che gli si arrampicano dappertutto e lo mordono
sulle braccia e sul collo. Anche Nilesh ride. “Hai mai mangiato ‘chutney’
di formiche?”, mi chiede il compagno Venu. Conosco bene le formiche rosse,
sono cresciuta nel Kerala. Conosco il loro morso ma non le ho mai mangiate
(lo ‘chapoli’ si rivela gustoso. Però amaro. Tanto acido folico).
Nilesh è di Bijapur, dove imperversa il ‘Salwa judum’. Suo fratello
minore si è unito alle milizie del Judum durante una delle loro
scorrerie, ed è stato nominato ‘Special police officer’ (Spo). Vive
al campo di Basaguda con la madre. Suo padre si è rifiutato di seguirli
ed è rimasto al villaggio. In effetti, la loro è una vera
e propria faida familiare. In seguito, quando abbiamo avuto modo di parlare,
ho chiesto a Nilesh perché suo fratello l’avesse fatto. “Era molto
giovane”, ha risposto. “Gli è stata data la possibilità di
sfogare tutta la sua rabbia facendo del male alla gente e bruciando case.
È impazzito, ha fatto cose terribili. Ora è incastrato. Non
potrà mai più tornare al villaggio. Non sarà mai perdonato.
E lui lo sa”.
Riprendiamo la lezione di storia. La seconda grande battaglia del Partito,
racconta il compagno Venu, è stata quella contro le cartiere delle
‘Ballarpur industries’. Il governo aveva rilasciato ai Thapar una concessione
di quarantacinque anni per la raccolta di 150mila tonnellate di bambù,
a un prezzo enormemente vantaggioso (anche se, rispetto alla bauxite, non
è niente). Gli indigeni venivano pagati dieci paise per un fascio
di venti steli di bambù. (Non cederò alla volgare tentazione
di fare paragoni con i profitti dei Thapar). Una lunga agitazione e
uno sciopero, seguiti da trattative pubbliche coni dirigenti delle cartiere,
triplicarono il prezzo portandolo a trenta paise. Per gli indigeni si trattò
di conquiste enormi. Altri partiti avevano fatto promesse, senza mai mantenerle.
La gente cominciò ad avvicinarsi al Pwg e a chiedere di farne
parte.
Ma la politica del ‘tendu’, del bambù e degli altri prodotti
della foresta era stagionale. Il problema perenne, il vero flagello degli
indigeni era il più grande proprietario terriero in assoluto, il
dipartimento forestale. Tutte le mattine i funzionari del dipartimento,
a volte perfino gli ultimi degli impiegati, si presentavano implacabili
nei villaggi per impedire ai loro abitanti di arare i campi, di raccogliere
legna da ardere, foglie e frutti, di pascolare il bestiame: di vivere,
insomma. Portavano elefanti
per spianare i campi e spargevano semi di ‘babul’ per distruggere il
suolo al loro passaggio.
La gente veniva picchiata, arrestata, umiliata, i raccolti distrutti.
Naturalmente, per il governo erano persone illegalmente impegnate in attività
anticostituzionali, e gli uomini del dipartimento non facevano altro che
applicare la legge (lo sfruttamento sessuale delle donne era solo una gratifica
in più per una destinazione disagiata).
Incoraggiato dalla partecipazione delle persone a queste battaglie,
il Partito decise di battersi contro il dipartimento forestale, incoraggiando
gli indigeni a riprendersi la foresta e a coltivarla. Per rappresaglia,
il dipartimento bruciò i villaggi che nascevano via via. Quando
il Partito arrivò in quelle zone, i lavori di costruzione delle
infrastrutture erano già cominciati e più della metà
dei villaggi era stata evacuata. I guerriglieri smantellarono i cantieri
e fermarono lo sfratto dai villaggi rimasti.
Impedirono l’ingresso ai forestali. In certi casi, alcuni di loro furono
catturati, legati agli alberi e picchiati.
Fu una vendetta catartica per lo sfruttamento di generazioni di indigeni.
Alla fine i rappresentanti del dipartimento scapparono. Tra il 1986 e il
2000 il Partito ha ridistribuito 120mila ettari di terre forestali. Oggi,
dice il compagno Venu, non ci sono contadini senza terra nel Dandakaranya.
Per le giovani generazioni, il dipartimento forestale è solo
un ricordo lontano, che rivive nelle storie che le madri raccontano ai
figli. Storie che narrano un passato di schiavitù e umiliazioni
ormai leggendario.
Per le vecchie generazioni, la liberazione dal dipartimento forestale
ha significato vera libertà. Potevano toccarla, assaporarla. Ha
significato molto più di quanto abbia mai significato l’indipendenza
dell’India. Hanno cominciato a raccogliersi intorno al Partito che aveva
combattuto al loro fianco.
Quelle prime sette squadre ne hanno fatta di strada. Oggi il Partito
controlla sessantamila chilometri quadrati di foresta, migliaia di villaggi
e milioni di persone. Ma la partenza del dipartimento forestale annunciava
l’arrivo della polizia, che ha innescato una spirale di sangue. Da una
parte i falsi “incontri” dei poliziotti, dall’altra le imboscate del Pwg.
Con la ridistribuzione delle terre sono arrivate altre responsabilità:
l’irrigazione, la produzione agricola e il problema di un numero sempre
maggiore di abitanti locali che si appropriavano di terreni forestali.
II Partito ha deciso di separare il “lavoro delle masse” e il “lavoro militare”.
Oggi il Dandakaranya è amministrato da una complessa struttura
di ‘Janatana sarkar’ (governi del popolo). I principi organizzativi sono
mutuati dalla rivoluzione cinese e dalla guerra del Vietnam.
Ogni ‘Janatana sarkar’ è eletto da un gruppo di villaggi la
cui popolazione totale varia dai cinquecento ai cinquemila abitanti. Ha
nove dipartimenti: Krishni (agricoltura), Vyapar-Udyog (commercio e industria),
Arthik (economia), Nyay (giustizia), Raksha (difesa), Hospital (salute),
Jan sampark (relazioni pubbliche), School-riti rivaj (istruzione e cultura)
e Jungle. Ogni gruppo di ‘Janatana sarkar’ è riunito in un comitato
di zona. Tre comitati di zona formano una divisione. Ci sono dieci divisioni
nel Dandakaranya.
“Abbiamo un dipartimento ‘Save the jungle’, ora”, dice il compagno
Venu. “Avrai letto il rapporto governativo che dice che nelle zone naxalite
la foresta è cresciuta”. Paradossalmente, continua Venu, i primi
a trarre vantaggio dalla campagna del Partito contro il dipartimento forestale
sono stati i ‘mukhia’ (capi villaggio), la brigata Dwij. Hanno usato la
loro forza lavoro e le loro risorse per accaparrarsi quanta più
terra hanno potuto, finché è stato possibile. Ma poi la gente
ha cominciato a mettere il Partito di fronte alle sue “contraddizioni interne”,
come le definisce in modo pittoresco il compagno Venu. Il Partito ha cominciato
a occuparsi dei problemi di giustizia e di classe all’interno della società
tribale. I latifondisti intravedevano guai all’orizzonte. Mentre l’influenza
del Partito cresceva,
la loro diminuiva. Sempre più spesso, i contadini si rivolgevano
al Partito per i loro problemi, e non ai ‘mukhia’. Cominciavano a mettere
in discussione alcune forme di sfruttamento. Tradizionalmente, il primo
giorno della stagione delle piogge i contadini lavoravano la terra del
‘mukhia’ anziché la propria. Non è più stato così:
nessuno era più disposto a regalare al ‘mukhia’ il suo primo giorno
di raccolto o i prodotti della foresta. Ovviamente, bisognava correre ai
ripari.
Ed è qui che entra in scena Mahendra Karma, uno dei più
grandi latifondisti della regione, e allora membro del Partito comunista
dell’India (Cpi). Nel 1990, insieme a un gruppo di ‘mukhia’ e proprietari
terrieri, lanciò la campagna ‘Jan jagran abhiyaan’ (campagna del
pubblico risveglio). Per “risvegliare il pubblico” pensò di organizzare
una squadra di circa trecento uomini col compito di rastrellare la foresta,
uccidere, bruciare le case e violentare le donne. L’allora governo del
Madhya
Pradesh - il Chhattisgarh non esisteva ancora - si impegnò a
fornire il sostegno della polizia. Nel Maharashtra nacque un’organizzazione
simile, il Fronte democratico, che cominciò a sferrare il suo attacco.
Il Partito della guerra di popolo reagì in perfetto stile maoista,
uccidendo alcuni dei più famigerati latifondisti. Nel giro di pochi
mesi, il ‘Jan jagran abhiyaan’ - il “terrore bianco”, come lo definisce
il compagno Venu - scomparve. Nel 1998 Mahendra Karma, che nel frattempo
era entrato nel Partito del congresso, provò a rilanciare la campagna
del ‘Jan jagran abhiyaan’. Ma questa volta svaporò ancora più
rapidamente.
Gli affari prima di tutto
Poi, nell’estate del 2005, Mahendra Karma ebbe un colpo di fortuna.
In aprile, il governo del Chhattisgarh guidato dal ‘Bharatiya janata party’
(Bjp) aveva firmato due protocolli d’intesa (i cui termini restano segreti)
per la costruzione di acciaierie integrate. Uno di settanta miliardi di
rupie con la ‘Esser steel’ a Baladila, l’altro di cento miliardi di rupie
con ‘Tata steel’ a Lohandiguda. Quello stesso mese, il primo ministro Manmohan
Singh aveva rilasciato la famosa dichiarazione in cui
definiva i maoisti “la più grave minaccia per la sicurezza interna
indiana”: un’affermazione piuttosto curiosa, visto che all’epoca era vero
il contrario. Il Partito del congresso al governo nell’Andhra Pradesh aveva
appena sconfitto strategicamente i maoisti, decimandoli. Il Partito aveva
perso circa 1.600 dei suoi quadri e si trovava nel caos più completo.
La dichiarazione del primo ministro fece impennare il valore azionario
delle compagnie minerarie. E mandò un segnale ai mezzi
d’informazione: chiunque volesse dare la caccia ai maoisti era autorizzato
a farlo. Nel giugno del 2005, Mahendra Karma convocò una riunione
segreta di ‘mukhia’ nel villaggio di Kutroo, e istituì il ‘Salwa
judum’ (caccia purificatrice). Una bella miscela di concretezza tribale
e razzismo nazi-Dwij.
A differenza del ‘Jan jagran abhiyaan’, il ‘Salwa judum’ era un’operazione
di sgombero dei territori e trasferimento forzato dei tribali dai loro
villaggi in campi lungo le strade, dove la polizia poteva tenerli sotto
controllo. In termini militari si chiama ‘strategic hamleting’, raggruppamento
strategico della popolazione. Fu il generale Harold Briggs a inventarlo,
nel 1950, quando gli inglesi combattevano contro i comunisti in Malesia.
Il piano Briggs è diventato molto popolare nell’esercito indiano,
che lo ha usato in Nagaland, Mizoram e Telangana. Il primo ministro
del Chhattisgarh, Raman Singh, leader del Bjp, annunciò che chiunque
avesse rifiutato il trasferimento nei campi sarebbe stato considerato un
maoista. Così, nel Bastar, restarsene a casa equivaleva a “indulgere
in pericolose attività terroristiche”.
Oltre a una tazza metallica di tè nero, un omaggio speciale,
qualcuno mi porge un paio di cuffie e accende un lettore mp3. E una registrazione
disturbata del signor Manhar, allora commissario di polizia a Bijapur,
che istruisce via radio uno dei suoi agenti su premi e incentivi che lo
stato e i governi centrali offrono ai villaggi ‘jagrit’ (risvegliati) e
ai tribali che accettano di trasferirsi nei campi.
Dopodiché dà chiare istruzioni di bruciare i villaggi
che non si arrendono, e di sparare a vista ai giornalisti che vogliono
scrivere dei naxaliti (questo l’avevo letto sui giornali tanto tempo fa.
Quando la storia è venuta fuori, per punizione - non saprei dire
di chi - il commissario è stato trasferito alla commissione di stato
sui diritti umani).
Il primo villaggio bruciato dal ‘Salwa judum’ (il 18 giugno 2005) è
stato Ambeli. Tra giugno e dicembre del 2005 la milizia ha bruciato, ucciso,
stuprato e saccheggiato in centinaia di villaggi nel Dantewada meridionale.
I suoi centri operativi si trovavano nei distretti di Bijapur e Bhairamgarh,
vicino a Bailadila, dov’era stato progettato lo stabilimento della ‘Essar
steel’. Per l’appunto, quei distretti erano anche roccaforti maoiste, dove
i ‘Janatana sarkar’ avevano fatto un gran lavoro, soprattutto costruendo
strutture per la raccolta delle acque. E i ‘Janatana sarkar’ sono diventati
il principale bersaglio degli attacchi del ‘Salwa judum’. Centinaia di
persone sono state uccise nei modi più atroci. Circa sessantamila
persone si sono trasferite nei campi, alcune volontariamente, altre per
paura. Di queste, circa tremila sono state nominate Spo, con uno stipendio
di 1.500 rupie.
Per queste misere briciole, i ragazzi come il fratello di Nilesh si
sono autocondannati all’ergastolo dentro una recinzione di filo spinato.
Per quanto crudeli siano stati, potrebbero essere proprio loro le prime
vittime di questa guerra orrenda. Nessun decreto della Corte suprema che
ordini lo smantellamento del ‘Salwa judum’ potrà cambiare il loro
destino.
Centinaia di migliaia di tribali, nel frattempo, sono scomparsi dal
radar del governo. (Ma non i fondi per lo sviluppo dei loro 644 villaggi.
Che fine farà quella piccola miniera d’oro?). Molti sono riusciti
ad arrivare in Andhra Pradesh e Orissa, dove di solito emigravano come
manodopera durante la stagione della raccolta dei peperoni. Ma in decine
di migliaia sono fuggiti nella foresta, dove vivono ancora, senza un riparo,
tornando ai loro campi e alle loro case solo di giorno.
Nella scia del ‘Salwa judum’ è spuntata una schiera di stazioni
di polizia e campi militari. L’idea era quella di creare una rete capillare
di sorveglianza per impedire la “rioccupazione strisciante” del territorio
controllato dai maoisti. Si dava per scontato che i maoisti non avrebbero
osato attaccare una simile concentrazione di forze di sicurezza. I maoisti,
dal canto loro, sapevano che non farlo equivaleva ad abbandonare la gente
di cui avevano conquistato la fiducia e con cui avevano vissuto
e lavorato per venticinque anni. Così hanno reagito con una
serie di attacchi al cuore della rete di sorveglianza.
Il 26 gennaio del 2006 il ‘People’s liberation guerrilla army’ (Plga)
ha attaccato un campo della polizia a Gan laur uccidendo sette persone.
Il 17 luglio 2006, nell’assalto al campo del ‘Salwa judum’ a Erabor, ne
hanno uccise venti e ferite centocinquanta (forse ne avrete letto: “I maoisti
hanno attaccato il centro di accoglienza aperto dal governo statale per
offrire riparo ai contadini in fuga dai loro villaggi a causa del terrore
seminato dai naxaliti”). Il 13 dicembre 2006 hanno attaccato il campo di
“accoglienza” di Basaguda e ucciso tre Spo e un agente di polizia.
Il 15 marzo 2007 l’assalto più audace. Centoventi guerriglieri
del Plga hanno attaccato il ‘Rani Bodili Kanva ashram’, un ostello femminile
trasformato in caserma dove vivevano ottanta uomini della polizia (e Spo)
del Chhattisgarh, che usavano come scudi umani le ragazze che continuavano
a viverci. Il Plga è entrato nel complesso, ha isolato l’ala dell’edificio
che ospitava le ragazze e preso d’assalto la caserma, uccidendo 55 uomini,
tra poliziotti e Spo. Nessuna delle ragazze è ferita (lo schietto
commissario del Dandakaranya mi aveva mostrato la sua presentazione in
PowerPoint con le foto raccapriccianti dei corpi bruciati e sventrati dei
poliziotti tra le macerie dell’edificio scolastico esploso. Erano talmente
macabri che era impossibile non distogliere lo sguardo. E lui sembrava
compiaciuto della mia reazione).
L’attacco al Rani Bodili ha scatenato il finimondo nel paese. Le organizzazioni
per i diritti umani hanno condannato i maoisti non solo per la loro violenza,
ma perché attaccavano le scuole. Nel Dandakaranya, però,
il Rani Bodili è diventato una leggenda: ne parlano canzoni, poesie
e lavori teatrali. La controffensiva maoista è riuscita a rompere
la rete di sorveglianza e a restituire spazio vitale alle persone. La polizia
e il ‘Salwa judum’ si sono ritirati nei loro campi, da cui oggi emergono
- di solito nel cuore della notte - solo in branchi di centinaia di
uomini, per condurre operazioni di “cordonamento e controllo” dei villaggi.
Un po’ alla volta, gli sfollati nei campi allestiti dal ‘Salwa judum’,
tranne gli Spo e le loro famiglie, hanno cominciato a tornare nei loro
villaggi. I maoisti li hanno riaccolti, e hanno annunciato che anche gli
Spo potrebbero tornare se si pentissero sinceramente e pubblicamente delle
loro azioni. I giovani cominciano a confluire nel Plga (il Plga si è
costituito ufficialmente nel dicembre del 2000.
Nel corso degli ultimi trent’anni le sue squadre combattenti sono cresciute
fino a trasformarsi in sezioni, le sezioni in plotoni, e i plotoni in compagnie.
Ma dopo i saccheggi del ‘Salwa judum’ è cresciuto rapidamente, e
oggi vanta numeri da battaglione).
Il ‘Salwa judum’ non soltanto aveva fallito, ma si era rivelato un
boomerang. Come oggi sappiamo, non erano solo bande di teppisti locali.
Nonostante le notizie confuse date dalla stampa, il ‘Salwa judum’ è
stata un’operazione congiunta del governo del Chhattisgarh e del Partito
del congresso, al potere nell’India centrale. Un’operazione che non poteva
fallire. Non con tutti quei protocolli d’intesa rimasti lì ad aspettare,
come zitelle che invecchiano sognando il principe azzurro. Il governo doveva
assolutamente escogitare un nuovo piano. Ed è nata l’operazione
‘Green hunt’. Ora gli Spo del ‘Salwa judum’ si chiamano Commando Koya.
Il governo ha schierato il ‘Chhattisgarh armed force’ (Caf), la ‘Central
reserve police force’ (Crpf), la ‘Border security force’ (Bsf), la ’Indotibetan
border police’ (Itbp), la ‘Central industrial security force’ (Cisf), le
squadre di Levrieri, Scorpioni e Cobra. E una politica affettuosamente
chiamata Wham: conquistare i cuori e le menti.
Accade spesso che guerre importanti si combattano in luoghi improbabili.
Il capitalismo del libero mercato ha sconfitto il comunismo sovietico sulle
aride montagne dell’Afghanistan. Qui, nelle foreste del Dantewada, infuria
una battaglia per l’anima dell’India. Si è detto molto della crisi
sempre più profonda della democrazia indiana, e della collusione
tra multinazionali, grandi partiti politici e apparati della sicurezza.
Chi volesse fare una rapida verifica sul campo, è nel Dantewada
che dovrebbe andare.
Dal rapporto preliminare Relazioni agricole statali e la sfida incompiuta
della riforma agraria, Vol 1, è emerso che i principali finanziatori
del ‘Salwa judum’ sono state le due compagnie ‘Tata steel’ ed ‘Essar steel’.
Siccome è un rapporto del governo, quando ne hanno parlato i giornali
la cosa ha fatto scalpore. Nel rapporto finale, però, questo fatto
è sparito. E stato un errore innocente, o qualcuno ha ricevuto una
gentile pacca sulla spalla con acciaio integrato?
Il 12 ottobre 2009 l’assemblea pubblica con i rappresentanti di ‘Tata
steel’, che si sarebbe dovuta svolgere a Lohandiguda per consentire la
partecipazione dei locali, si è tenuta in una saletta dell’esattoria
di Jagdalpur, a molti chilometri di distanza, picchettata da un imponente
servizio d’ordine. Un pubblico di cinquanta indigeni prezzolati è
stato fatto entrare scortato da un convoglio armato di jeep del governo.
Dopo l’incontro, l’esattore del distretto si è congratulato con
“la gente
di Lohandiguda” per la collaborazione. I giornali locali, pur sapendo
come stavano le cose, hanno pubblicato la bugia (gli spazi pubblicitari
sono andati a ruba). Nonostante le proteste degli abitanti dei villaggi,
l’acquisizione dei terreni per il progetto industriale è cominciata.
I maoisti non sono gli unici che cercano di destabilizzare il governo
indiano. E già stato destabilizzato molte volte dal fondamentalismo
indù e dal totalitarismo economico. Lohandiguda, a cinque ore di
macchina da Dantewada, non era mai stata una zona naxalita. Ma oggi lo
è. La compagna Joori - quella che era seduta accanto a me mentre
mangiavo il ‘chutney’ di formiche - lavora in quella zona. Dice che hanno
deciso di occuparla quando sui muri dei villaggi sono apparse le prime
scritte che dicevano: “Naxaliti, venite a salvarci!” Qualche mese fa, Vimal
Meshram, presidente del ‘panchayat’ del villaggio, è stato ucciso
a colpi di arma da fuoco al mercato.
“Era un uomo della Tata”, dice Joori. “Costringeva la gente a cedere
la terra e accettare un risarcimento. E un bene che sia morto. Anche noi
abbiamo perso un compagno. Gli hanno sparato.
Vuoi altro ‘chapoli’?”. Ha vent’anni. “Non permetteremo agli uomini
di ‘Tata steel’ di entrare in quella zona. La gente non li vuole” Joori
non è un membro del Plga. Fa parte del ‘Chetna Natya Manch’ (Cnm),
l’ala culturale del Partito. Canta. Scrive canzoni. Viene da Abujhmad (è
sposata con il compagno Madhay. Si è innamorata del suo modo di
cantare quando Madhay è passato dal suo villaggio con gruppo del
Cnm).
Sento che dovrei dire qualcosa, a questo punto. Sull’inutilità
della violenza, sull’inaccettabilità delle esecuzioni sommarie.
Ma cosa dovrei consigliare a questa gente, come alternativa? Di rivolgersi
ai tribunali? Di fare un ‘dharna’, il digiuno e la preghiera rituali, a
New Delhi? Un raduno? Uno sciopero della fame a oltranza? Sarebbe ridicolo.
Dovremmo chiedere ai promotori della ‘New economic policy’, che trovano
così facile dire che “non c’è alternativa”, di suggerire
una politica di resistenza alternativa. Un’alternativa specifica, per queste
specifiche persone, per questa specifica foresta. Qui. Ora. Per quale Partito
dovrebbero votare? A quale istituzione democratica, in questo paese, dovrebbero
rivolgersi? A quale porta non ha bussato il ‘Narmada Bachao Andolan’, nei
tanti anni in cui si è battuto contro le grandi dighe sul fiume
Narmada?
È buio. C’è grande attività nel campo, ma non
si vede niente. Solo puntini di luce che si muovono. Difficile dire se
siano stelle o lucciole o maoisti in movimento. Il piccolo Mangtu sbuca
fuori dal nulla. Ho scoperto che fa parte del primo gruppo di allievi della
Scuola itinerante per giovani comunisti, dove i ragazzi imparano a leggere
e a scrivere, oltre ai principi fondamentali del comunismo (“Indottrinano
le giovani menti!”, si sgolano i nostri grandi mezzi d’informazione. Le
pubblicità tele
visive che fanno il lavaggio del cervello ai bambini prima ancora che
siano in grado di pensare, invece, non sono considerate una forma di indottrinamento).
I giovani comunisti non sono autorizzati a portare armi o a indossare uniformi.
Ma seguono le squadre del Plga con occhi sognanti, come ‘groupie’ al seguito
di una rock band.
Mangtu, che mi ha adottato, mi tratta con piglio gentilmente padronale.
Ha riempito d’acqua la mia bottiglia e dice che dovrei preparare lo zaino.
Il suono di un fischietto. In cinque minuti netti, la tenda blu del ‘jhilli’
smantellata e ripiegata. Un altro fischio e tutti e cento i compagni si
mettono in riga.
Disposti su cinque file. Il capo delle operazioni è il compagno
Raju. Si fa l’appello. Sono in fila anch’io, e grido il mio numero al segnale
della compagna Kamla, che mi sta davanti (contiamo fino a venti e poi ripartiamo
da uno, perché la maggior parte dei gond non sa contare oltre. Per
loro, venti bastano. Forse dovrebbero bastare anche a noi). Chandu è
in tuta, ora, e imbraccia una mitragliatrice.
A bassa voce, il compagno Raju sta dando istruzioni al gruppo. Parla
in gondi, io non capisco niente, ma continuo a sentire la parola “errevù”.
Più tardi, Raju mi spiega che sta per ‘rendez-vous’! E una parola
gondi, ora. “Stabiliamo dei punti rv, dobbiamo dividerci, sappiamo dove
ricomporre il gruppo”. Non immagina quanto questo mi getti nel panico.
Non è tanto la paura che mi sparino addosso, è la paura di
perdermi. Sono una dislessica direzionale, riesco a perdermi tra la camera
da letto e il bagno. Cosa farò in sessantamila chilometri quadrati
di foresta? Cascasse il mondo, io resto incollata al compagno Raju.
Quando stiamo per rimetterci in cammino, il compagno Venu viene da
me: “Allora, compagna. Vengo a salutarti”. Mi coglie di sorpresa. Sembra
una piccola zanzara col cappello e i sandali, lì in mezzo alle sue
guardie, tre donne e tre uomini. Armato fino ai denti. “Ti siamo molto
grati, compagna, di essere venuta fin qui”, dice. Ancora una volta, la
stretta di mano, il pugno chiuso. “Lal salaam, compagna”. E scompare nella
foresta, il Custode delle chiavi. Un attimo dopo è come se non fosse
mai stato qui. Provo un senso di perdita. Ma ho ore di registrazione da
ascoltare. E col passare dei giorni e delle settimane incontrerò
molte persone che aggiungeranno colori e dettagli al quadro tracciato da
Venu. Ci incamminiamo nella direzione opposta. Il compagno Raju, che odora
di Iodex a un chilometro di distanza, dice con un sorriso: “Le mie ginocchia
sono partite. Posso camminare solo dopo aver mandato giù una manciata
di antidolorifici”.
Il compagno Raju parla un hindi perfetto e sa raccontare le storie
più buffe senza scomporsi. Ha militato per diciotto anni a Raipur.
Lui e sua moglie Malti erano iscritti al Partito e facevano parte della
sua rete cittadina locale. Alla fine dei 2007, uno degli esponenti di punta
della rete è stato arrestato, torturato e alla fine trasformato
in informatore. Veniva accompagnato in giro per Raipur a bordo di un’auto
della polizia, e costretto a indicare i suoi ex compagni. La compagna Malti
era una di loro. Il 22 gennaio 2008 è stata arrestata insieme a
molti altri. L’accusa contro di lei era di avere spedito a diversi membri
del parlamento alcuni cd con dei video che documentavano le atrocità
commesse dal ‘Salwa judum’. È ancora in attesa di processo perché
la polizia sa di non avere prove convincenti contro di lei. Ma il ‘Chhattisgarh
special public security act’ (Cspsa) stabilisce che possono trattenerla
per anni, senza fissare una cauzione.
“Ora il governo del Chhattisgarh impiega diversi battaglioni di polizia
per proteggere i poveri membri del parlamento dalla loro corrispondenza”,
dice il cornpagno Raju. Lui non è stato preso perché era
nel Dandakaranya, all’epoca, per partecipare a una riunione. Da allora
è sempre stato qui. I suoi due figli piccoli, che erano rimasti
a casa da soli, sono stati interrogati a lungo dalla polizia.
Alla fine la casa è stata svuotata e i bambini sono andati a
vivere con uno zio. Il compagno Raju ha avuto loro notizie per la prima
volta solo qualche settimana fa.
Cos’è che gli dà questa forza, questa capacità
di non rinunciare al suo umorismo caustico? Cos’è che fa andare
avanti tutte queste persone, nonostante quello che hanno sopportato? La
fiducia e la speranza - e l’amore - che ripongono nel Partito. Sono sentimenti
che incontro continuamente, espressi nei modi più profondi e personali.
Ci muoviamo in fila per uno, ora. Io e cento ribelli “irrazionalmente
violenti” e assetati di sangue.
Prima di lasciare il campo mi sono guardata intorno. A parte la cenere
dov’erano stati accesi i fuochi, non c’era traccia di un accampamento di
quasi cento persone. E incredibile, questo esercito. Dal punto di vista
del consumo, è più gandhiano di un gandhiano, e ha un impatto
ambientale più leggero di quello di un qualsiasi apostolo del cambiamento
climatico. Per ora, perfino il suo approccio al sabotaggio è gandhiano:
prima di bruciare un’auto della polizia, per esempio, i guerriglieri
la smontano per riciclarne tutte le parti. Il volante viene raddrizzato
e trasformato in un fucile a carica frontale, la tappezzeria in resina
viene usata per farne borse da munizioni, e la batteria come carica solare
(le nuove disposizioni del comando supremo sono che le vetture catturate
devono essere sotterrate, e non bruciate. Così, potranno essere
recuperate al bisogno). E se scrivessi una commedia intitolata ‘Gandhi
prendi il fucile’? Sarei linciata?
Avanziamo nel buio e nel silenzio più totali. Io sono l’unica
che usa una torcia. Puntandola per terra, nel suo cerchio di luce vedo
solo i calcagni nudi della compagna Kamla, infilati nei sandali neri e
logori, che mi indicano esattamente dove mettere i piedi. Kamla porta un
peso che è dieci volte quello che porto io. Lo zaino, il fucile,
una grossa borsa di provviste sulla testa, una delle grandi pentole per
cucinare e due sacchi pieni di ortaggi in spalla. Tiene la borsa in perfetto
equilibrio sulla
testa, scapicollandosi lungo ripidi pendii e sentieri scoscesi, senza
mai neppure sfiorarla. Quella donna è un miracolo. Il viaggio a
piedi sarà lungo. Sono grata alla lezione di storia perché,
a parte tutto, ha permesso ai miei piedi di riposare per una giornata intera.
E una cosa stupenda camminare di notte nella foresta. E lo farò
tutte le notti.
Siamo diretti alle celebrazioni per il centenario della rivolta di
Bhumkal del 1910, quando i koya sono insorti contro gli inglesi. Bhumkal
significa terremoto. Il compagno Raju dice che le persone camminano per
giorni per partecipare ai festeggiamenti. La foresta dev’essere piena di
persone in viaggio. Si festeggia in tutte le divisioni del Dandakaranya.
Noi siamo fortunati perché col nostro gruppo viaggia il compagno
Leng, il cerimoniere. In gondi, Leng significa “la voce”. Il compagno
Leng è un uomo alto, di mezza età, originario dell’Andhra
Pradesh e collega del leggendario e amato poeta-cantante Gaddar, che ha
fondato l’organizzazione culturale radicale ‘Jan natya manch’ (Jnm) nel
1972. Alla fine, il Jnm è confluito ufficialmente nel Pwg, quando
nell’Andhra Pradesh il Partito aveva già un seguito di decine di
migliaia di persone. Leng è entrato nell’organizzazione nel 1977,
diventando anche lui un cantante famoso. Viveva nell’Andhra ai tempi della
repressione più dura, quella dei “falsi incontri”, in cui quasi
ogni giorno morivano suoi amici. Lui stesso è stato prelevato dal
suo letto di ospedale da una commissaria di polizia travestita da medico.
E stato portato nella foresta fuori da Warangal per essere “incontrato”.
Fortunatamente, Gaddar è venuto a saperlo ed è riuscito a
dare l’allarme. Quando, nel 1998, il Partito ha deciso di creare un’organizzazione
culturale nel Dandakaranya, ha inviato il compagno Leng a dirigere il ‘Chetna
Natya Manch’ (Cnm).
E ora eccolo qui, che cammina con me.
Per qualche motivo indossa una camicia verde e dei ‘pajama’ con coniglietti
rosa. “Oggi il Cnm ha diecimila iscritti”, mi ha detto. “Abbiamo un repertorio
di cinquecento canzoni, in hindi, gondi, chhattisgarhi e halbi. Abbiamo
pubblicato un libro con 140 delle nostre canzoni. Tutti scrivono canzoni”.
La prima volta che gli ho parlato aveva un tono molto grave, molto
determinato. Ma qualche giorno dopo, seduto con noi intorno al fuoco, sempre
con gli stessi pantaloni coi coniglietti, ci racconta di un regista famoso
(un suo amico) che nei suoi film in telugu interpreta sempre un naxalita.
“Gli ho chiesto”, racconta il compagno Leng, parlando in hindi ma col
suo gradevole accento telugu, “perché pensi che i naxaliti siano
tutti così?”. E si è esibito nella brillante caricatura di
un uomo che sbuca dalla foresta impugnando il suo Ak-47, e avanza con passo
felpato sulle ginocchia piegate, come un animale braccato. Siamo morti
dal ridere.
Non so se ho tanta voglia di assistere alle celebrazioni del Bhumkal.
Ho paura che vedrò danze tradizionali irrigidite dalla propaganda
maoista, discorsi pieni di enfasi retorica, e un pubblico devoto e con
gli occhi lucidi. Arriviamo sul posto la sera tardi. E stato eretto un
monumento provvisorio, fatto di impalcature di bambù rivestite di
tessuto rosso. Sulla cima, sopra la falce e martello del Partito maoista,
ci sono l’arco e la freccia del ‘Janatana sarkar’, avvolti nella carta
stagnola. Gerarchia appropriata. Il palco immenso, provvisorio anche quello,
poggia su una robusta impalcatura coperta da uno spesso strato di intonaco
di fango. Ci sono piccoli falò sparsi qua e là: i partecipanti
hanno cominciato ad arrivare e si sono messi a preparare la cena. Sono
solo sagome nel buio. Ci facciamo strada fra loro (‘lalsalaam, lalsalaam,
lalsalaam’) e avanziamo per circa un quarto d’ora finché non rientriamo
nella foresta.
Nel nostro nuovo accampamento dobbiamo rimetterci in riga. Un altro
appello. E poi è il momento delle istruzioni sulle postazioni delle
sentinelle e gli “archi di tiro”, per assegnare le varie zone da coprire
in caso di attacco della polizia. Di nuovo, vengono fissati i punti rv.
Un’avanguardia è arrivata prima di noi e ha già preparato
la cena. Per dessert, Kamla mi porta un ‘guava’ selvatico che ha colto
durante il cammino e messo da parte per me. A partire dall’alba si avverte
la presenza di un numero sempre maggiore di persone che arrivano per le
celebrazioni. Il mormorio di eccitazione aumenta. Persone che non si vedevano
da tanto tempo si ritrovano. Sentiamo i rumori delle prove microfono. Vediamo
spuntare bandiere, bandierine, striscioni e cartelli. Appare un cartello
con le foto delle cinque persone uccise a Ongnaar il giorno del nostro
arrivo.
Un tè con i biscotti nella foresta
Sto bevendo tè con la compagna Narmada, la compagna Maase e la
compagna Rupi. La compagna Narmada parla dei molti anni in cui ha lavorato
a Gadchiroli prima di diventare responsabile del ‘Krantikari adivasi mahila
sangathan’, nel Dandakaranya. Rupi e Maase hanno militato nelle zone urbane
dell’Andhra Pradesh, e mi raccontano dei lunghi anni di lotta delle donne
all’interno del Partito, non solo per affermare i loro diritti, ma per
convincere il Partito che l’uguaglianza tra
uomini e donne doveva essere al centro di un ideale di società
giusta. Parliamo di anni settanta, e di storie di donne che all’interno
del movimento naxalita erano deluse dai compagni maschi che si credevano
grandi rivoluzionari mentre erano schiavi dello stesso vecchio patriarcato,
dello stesso vecchio sciovinismo. Maase dice che le cose sono molto cambiate
da allora, anche se c’è ancora molta strada da fare (nel comitato
centrale e nell’ufficio politico del Partito non ci sono ancora).
Verso mezzogiorno arriva un altro contingente del Plga. E guidato da
un ragazzo alto e scattante che sembra un bambino. È ben vestito,
in ‘civil’ (che in gondi significa “in abiti civili”) anziché in
‘dress’ (la divisa maoista), sembra quasi un giovane manager. Gli chiedo
perché non indossa l’uniforme. Dice che è stato in viaggio
e che è appena tornato dalle montagne di Keshkal, vicino a Kanker.
Da alcuni rapporti risulta che una certa compagnia Vedanta abbia messo
gli occhi su tre
milioni di tonnellate di bauxite. Bingo. Il mio istinto ha fatto centro.
Sukhdev dice che è andato lì per misurare la temperatura.
Per vedere se le persone sono pronte a combattere. “Vogliono subito le
squadre. E i fucili”. Scoppia in una risata, gettando la testa indietro.
“Gli ho detto: non è così facile, fratello”. Dai brani
sparsi di conversazione e dalla disinvoltura con cui porta il suo Ak-47,
capisco che è anche un veterano del Plga.
Arriva la posta della giungla. C’è un biscotto per me! E da
parte del compagno Venu. Su un pezzettino di carta, piegato e ripiegato,
ha scritto i versi di una canzone che aveva promesso di spedirmi.
La compagna Narmada sorride, leggendoli. Conosce la storia. Risale
agli anni ottanta, all’epoca in cui la gente ha cominciato a fidarsi del
Partito e a sottoporgli i suoi problemi, le sue “contraddizioni interne”
come le ha definite il compagno Venu. Le donne sono state le prime a farsi
avanti. Una sera, un’anziana che era seduta davanti al fuoco si è
alzata in piedi e ha cantato una canzone per il ‘dada log’. Apparteneva
alla tribù maadiya, dove tradizionalmente alle donne sposate veniva
imposto di togliere la parte di sopra del vestito e restare a seno nudo.
“Dicono che non possiamo tenerci la blusa, Dada, Dakoniley
Ci costringono a toglierla, Dada,
In che modo abbiamo peccato, Dada?
Il mondo è cambiato, non è vero, Dada?
Ma quando andiamo al mercato, Dada,
Dobbiamo andarci seminude, Dada,
Noi non vogliamo questa vita, Dada,
Dillo ai nostri antenati, Dada”.
Ecco la prima questione femminile per cui il Partito ha deciso di battersi.
Doveva essere affrontata con delicatezza, con strumenti chirurgici. Così,
nel 1986 è nato lo ‘Adivasi mahila sangathan’ (Ams), che poi è
diventato il ‘Krantikari adivasi mahila sangathan’ e oggi ha novantamila
iscritte. Probabilmente è la più grande organizzazione femminile
del paese (sono maoiste, tra l’altro, tutte e novantamila. Saranno “annientate”?
E i diecimila membri del Cnm? Anche loro?). Il Kams conduce campagne contro
le tradizioni adivasi del matrimonio forzato e del rapimento di donne.
Contro l’usanza di costringere le donne che hanno le mestruazioni a vivere
fuori dal villaggio, in una capanna nella foresta. Contro la bigamia e
la violenza domestica.
Non avrà vinto tutte le battaglie, ma quali femministe le hanno
vinte? Per esempio, ancora oggi nel Dan dakaranya alle donne è interdetta
la semina. Alle riunioni del Partito, gli uomini concordano che è
una tradizione ingiusta e andrebbe abolita. Ma poi, in pratica, la gente
non lo permette. Così, il Partito ha deciso di consentire alle donne
di lavorare le terre comuni di proprietà del Janatana sarkar. Su
quelle terre possono seminare, coltivare ortaggi e costruire piccole dighe
di sbarramento.
Una vittoria, anche se a metà. Con l’intensificarsi della repressione
nel Bastar, le donne del Kams sono diventate una forza straordinaria e
si radunano a centinaia, a volte anche migliaia, per battersi fisicamente
contro la polizia. L’esistenza stessa del Kams ha modificato radicalmente
le usanze tribali e attenuato molte forme tradizionali di discriminazione
femminile. Per molte ragazze entrare nel Partito, soprattutto nel Plga,
è un modo per sfuggire alla morsa soffocante della loro
società.
La compagna Sushila, dirigente anziana del Kams, parla del furore del
‘Salwa judum’ contro le donne dell’organizzazione. Racconta che uno dei
loro slogan era ‘Hum do bibi layenge! Layenge!’ (Avremo due mogli! Le avremo!).
Una gran parte delle violenze e delle bestiali mutilazioni venivano inflitte
proprio alle donne del Kams. Molte delle giovani testimoni di quegli orrori
sono entrate nel Plga e oggi sono il 45 per cento dei suoi quadri. La compagna
Narmada ne manda a chiamare
alcune, che dopo poco ci raggiungono.
La compagna Rinki ha i capelli cortissimi. Un caschetto, come lo chiamano
in gondi. È una scelta coraggiosa, perché qui “caschetto”
significa “maoista”. Per la polizia basta a giustificare un’esecuzione
sommaria. Il suo villaggio, Korma, è stato attaccato dal battaglione
Naga e dal ‘Salwa judum’ nel 2005. All’epoca, Rinki faceva parte della
milizia del villaggio, come le sue amiche Lukki e Sukki, anche loro nel
Kams. Dopo aver bruciato il villaggio, gli uomini del battaglione
Naga hanno catturato Lukki, Sukki e una terza ragazza, le hanno stuprate
e poi uccise. “Le hanno violentate sul prato”, racconta Rinki, “e quando
hanno finito, di erba non ce n’era più”. Sono passati anni, ormai,
il battaglione Naga non esiste più, ma la polizia arriva ancora.
“Vengono quando hanno bisogno di donne, o di polli”.
Anche Ajitha ha il caschetto. Lo ‘Judum’ è arrivato a Korseel,
il suo villaggio, e ha ucciso tre persone annegandole in un fiume. Ajitha
era con la milizia e ha seguito lo ‘Judum’ a distanza fino a Paral Nar
Todak, un posto vicino al villaggio. Li ha visti violentare sei donne e
sparare alla gola di un uomo. La compagna Laxmi, una bella ragazza con
una lunga treccia, mi racconta di aver visto lo ‘Judum’ bruciare trenta
case nel suo villaggio, Jojor. “Non avevamo armi, allora”, dice. “Potevamo
solo restare a guardare”. Poco dopo è entrata a far parte del
Plga. Laxmi era fra i centocinquanta guerriglieri che hanno marciato nella
giungla per tre mesi e mezzo, nel 2008, fino a Nayagarh nell’Orissa, per
assaltare un’armeria della polizia da cui hanno portato via 1.200 fucili
e duecentomila proiettili.
La compagna Sumitra è entrata nel Plga nel 2004, prima che il
‘Salwa judum’ cominciasse le sue scorrerie. C’è entrata, dice, per
scappare di casa. “Le donne sono controllate in tutti i sensi”, mi ha raccontato.
“Nel nostro villaggio, le ragazze non potevano arrampicarsi sugli alberi.
Se lo facevi, dovevi pagare una multa: cinquecento rupie o una gallina.
Se un uomo picchia una donna e la donna reagisce picchiandolo a sua volta,
deve dare al villaggio una capra. Gli uomini stanno via
per mesi, sulle colline, per cacciare. Le donne non possono neppure
avvicinarsi alla selvaggina, la parte migliore della carne va agli uomini.
Non possono neanche mangiare le uova”. Un buon motivo per unirsi a un esercito
di guerriglia? Sumitra racconta la storia di due sue amiche, Telam Parvati
e Kamla, che lavoravano per il Kams. Telam Parvati era di Polekaya, un
villaggio nel sud del Bastar. Come tutti i suoi compaesani, anche lei aveva
visto il ‘Salwa judum’ bruciare il suo villaggio.
Poi era entrata nel Plga ed era andata a lavorare sulle montagne di
Keshkal. Nel 2009 lei e Kamla avevano appena finito di organizzare le celebrazioni
dell’8 marzo, la festa della donna, in quella zona. Si trovavano insieme
in una piccola capanna appena fuori dal villaggio di Vadgo. La polizia
ha circondato la capanna di notte e ha cominciato a sparare. Kamla ha risposto
al fuoco, ma è rimasta uccisa. Parvati è fuggita, ma è
stata trovata e uccisa il giorno dopo.
Questo è quello che è successo l’anno scorso, il giorno
della festa della donna. Ed ecco l’articolo di un quotidiano nazionale,
sull’8 marzo di quest’anno:
“I ribelli del Bastar si battono per i diritti delle donne", di Sahar
Khan, Mail Today, Raipur, 7 marzo 2010.
"Il governo ha messo in campo tutte le sue forze per combattere la
minaccia maoista nel paese. Ma una sezione di ribelli del Chhattisgarh
ha questioni più urgenti di cui occuparsi, che non la sopravvivenza.
In previsione della Festa internazionale della donna, i maoisti della regione
del Bastar hanno indetto una settimana di “celebrazioni” per promuovere
i diritti delle donne. Sono stati affissi manifesti anche a Bijapur, un’area
del distretto di Bastar. La campagna dei sedicenti difensori dei diritti
delle donne ha lasciato di stucco la polizia di stato. L’ispettore generale
della polizia del Bastar, T.J. Longkumer, ha dichiarato: “Non mi aspettavo
niente di simile dai naxaliti, che credono solo nella violenza e nello
spargimento di sangue”. E poi l’articolo prosegue: “Credo che i maoisti
stiano cercando di contrastare il grande successo della ‘Jan jagran abhiyaan’
(campagna di consapevolezza di massa). Abbiamo lanciato quella campagna
per promuovere l’operazione ‘Green hunt’, con cui la polizia intende sradicare
gli estremisti di sinistra”, ha dichiarato l’ispettore generale”.
Malizia e ignoranza
Questo cocktail di malizia e ignoranza non è insolito. Ne sa
qualcosa Gudsa Usendi, il cronista del Partito. Il suo piccolo computer
e il registratore mp3 sono pieni zeppi di comunicati stampa, smentite,
rettifiche, documenti di Partito, liste di morti, materiali audio e video.
“La cosa peggiore del lavoro del portavoce”, spiega, “è inviare
rettifiche che non vengono mai pubblicate. Con tutte le rettifiche non
pubblicate che abbiamo inviato per smentire le bugie scritte su di noi,
potremmo farci un
libro alto così”. Parla senza ombra di indignazione, in realtà,
quasi divertito.
“Qual è l’accusa più ridicola che avete dovuto negare?”.
Lui ci pensa un attimo. “Nel 2007 abbiamo dovuto rilasciare una dichiarazione
che diceva: `No, fratelli, non siamo stati noi a uccidere le mucche a martellate’.
Nel 2007 il governo di Raman Singh ha annunciato un ‘Gaj yojana’ (piano
mucche), una promessa elettorale: una mucca per ogni adivasi. Un giorno
la tv e i giornali hanno dato la notizia che i naxaliti avevano attaccato
una mandria di mucche e le avevano uccise a martellate
perché erano contro l’induismo, contro il Bharatiyaparty. Puoi
immaginare cosa è successo. Abbiamo rilasciato una smentita. Quasi
nessuno l’ha pubblicata. Più tardi, si è scoperto che l’uomo
a cui erano state date le mucche per distribuirle era un delinquente. Le
aveva vendute e aveva detto che gli avevamo teso un’imboscata e le avevamo
uccise”.
E la più grave?
“Oh, ce ne sono decine. D’altra parte, c’è una campagna in corso.
Quando è nato il ‘Salwa judum’, il primo giorno ha attaccato il
villaggio di Ambeli e l’ha bruciato. Dopodiché tutti i suoi uomini
- gli Spo, il battaglione Naga, la polizia - si sono diretti a Kotrapal.
Avrai sentito parlare di Kotrapal. È un villaggio famoso. Era già
stato bruciato 22 volte perché i suoi abitanti si erano rifiutati
di arrendersi. Quando lo ‘Judum’ è arrivato a Kotrapal, la nostra
milizia lo stava aspettando. Gli abbiamo teso un’imboscata. Due Spo sono
morti. Ne abbiamo catturati sette, gli altri sono fuggiti. Il giorno dopo,
i giornali hanno scritto che i naxaliti avevano massacrato dei poveri adivasi.
Alcuni hanno scritto che ne avevamo uccisi centinaia. Perfino una rivista
autorevole come Frontline ha scritto che avevamo
ucciso diciotto adivasi innocenti. Perfino Kandalla Balagopal, l’attivista
per i diritti umani scomparso da poco, di solito molto meticoloso nella
ricostruzione dei fatti, perfino lui l’ha detto. Abbiamo inviato una smentita.
Nessuno l’ha pubblicata. In seguito, nel suo libro, Balagopal ha riconosciuto
il suo errore. Ma chi se n’è accorto?”.
Gli ho chiesto che fine avessero fatto le sette persone catturate.
“Il comitato di zona ha convocato uno ‘jan adalat’ (tribunale del popolo).
Erano presenti quattromila persone. Hanno ascoltato tutta la storia. Due
degli Spo sono stati condannati a morte. Gli altri cinque sono stati ammoniti
e rilasciati.
Ha deciso il popolo. Anche quando si tratta di informatori - che di
questi tempi stanno diventando un grosso problema - la gente ascolta i
fatti, le storie, le confessioni e poi decide: “Non siamo pronti ad assumerci
il rischio di fidarci di questa persona”, o “Siamo pronti ad assumerci
il rischio di fidarci di questa persona”. La stampa dà notizia solo
degli informatori che vengono uccisi. Mai dei tanti che sono rilasciati.
Quindi tutti pensano che sia una pratica sanguinaria che non lascia scampo.
Non è una questione di vendetta, ma di sopravvivenza, di vite
umane da salvare. Certo, ci sono dei problemi, abbiamo fatto errori spaventosi.
Nelle nostre imboscate abbiamo perfino ucciso le persone sbagliate, scambiandole
per poliziotti. Ma i mezzi d’informazione non raccontano le cose come stanno”.
I temuti tribunali del popolo. Come possiamo accettarli? O avallare
questa rozza forma di giustizia?
D’altro canto, cosa dovremmo dire degli “incontri”, veri o falsi che
siano - la forma peggiore di giustizia sommaria - che fruttano a poliziotti
e soldati medaglie al valore, premi in denaro e promozioni speciali da
parte del governo indiano? Più uccidono, più sono ricompensati.
Li chiamano “Braveheart”, questi ‘encounter specialist’ (specialisti degli
incontri). E chiamano “antinazionalisti” quelli di noi che osano metterli
in discussione. E che dire della Corte suprema, che ha sfacciatamente ammesso
di non avere avuto prove sufficienti per condannare a morte Mohammed Afzal
(incriminato per l’attacco al parlamento del dicembre 2001), ma di averlo
condannato lo stesso perché “la coscienza collettiva della società
è soddisfatta solo se al colpevole viene comminata la pena capitale”?
Se non altro, nel caso del ‘jan adalat’ di Kotrapal la collettività
era fisicamente presente e ha potuto decidere. La decisione non è
stata presa da giudici che ormai hanno perso ogni contatto con la realtà
e pretendono di parlare a nome di una collettività assente. Cosa
avrebbero dovuto fare gli abitanti di Kotrapal, mi chiedo? Chiamare la
polizia?
Il suono dei tamburi è diventato molto forte. E l’ora del Bhumkal.
Andiamo sul luogo del raduno. Non credo ai miei occhi. C’è un mare
di gente, la gente più strana e meravigliosa, vestita nei modi più
strani e meravigliosi. Gli uomini sembrano aver curato il loro aspetto
molto più delle donne. Sfoggiano copricapo piumati e tatuaggi colorati
sul volto. Molti si sono truccati gli occhi e imbiancati il viso. Ci sono
molti militari, ragazze che indossano ‘sari’ sgargianti portando con disinvoltura
il
fucile a tracolla. Ci sono anziani, bambini, e un arco di bandierine
rosse nel cielo. Il sole è alto, brucia.
Parla il compagno Leng. Poi tocca ai funzionari dei vari ‘Jantana sarkar’.
La compagna Niti, una donna straordinaria, iscritta al Partito dal 1997,
è una così grande minaccia per il paese che nel gennaio del
2007 più di settecento poliziotti hanno circondato il villaggio
di Innar perché avevano saputo che c’era lei. La compagna Niti è
considerata così pericolosa ed è ricercata con tanto accanimento
non perché abbia guidato molte imboscate (cosa che ha fatto), ma
perché è una donna
adivasi amata dalla gente, e un esempio per i giovani. Parla col suo
Ak in spalla (è un fucile con una storia. Quasi ogni fucile ha una
sua storia, quella che racconta come, a chi e da chi è stato rubato).
Un gruppo del Cnm inscena una commedia sulla rivolta di Bhumkal. I
malvagi colonizzatori bianchi indossano cappelli sotto ai quali spuntano
parrucche di paglia dorata, e tiranneggiano gli adivasi di fronte a un
pubblico estasiato. Qualche altro discorso. Poi attaccano i tamburi e cominciano
le danze. Ogni ‘Janatana sarkar’ ha la sua compagnia. Ogni gruppo ha preparato
un suo pezzo. Arrivano uno dopo l’altro, con grandi tamburi, e danzano
le storie più incredibili. L’unico personaggio
che compare in tutte le coreografie è “l’uomo cattivo delle
miniere”, con casco e occhiali scuri, e di solito una sigaretta in bocca.
Ma non c’è niente di rigido o di meccanico nel loro modo di muoversi.
Mentre danzano, si alza la polvere. Il rumore dei tamburi diventa assordante.
Gradualmente, la folla comincia a ondeggiare. E poi a danzare. Danzano
in file di sei o sette, donne e uomini separati, cingendosi per la vita.
Migliaia di persone. Ecco perché sono venuti. Per questo. La felicità
viene presa molto sul serio qui, nella foresta del Dandakaranya. Gli
abitanti dei villaggi fanno chilometri insieme, per festeggiare e cantare,
per infilarsi piume nei turbanti e fiori nei capelli, per abbracciarsi
e bere ‘mahua’ e danzare tutta la notte. Nessuno canta o danza da solo.
È questo, più di qualsiasi altra cosa, il loro gesto di sfida
verso una civiltà che cerca di annientarli.
Mi sembra impossibile che tutto ciò stia accadendo sotto il
naso della polizia. In piena operazione ‘Green hunt’. All’inizio, i compagni
del Plga se ne stanno in disparte con i loro fucili, a guardare i ballerini.
Poi, uno dopo l’altro, come anatre che non ce la fanno più a restare
a guardare altre anatre che nuotano, si fanno avanti e si mettono a danzare.
Ben presto, ci sono file di verdi danzanti, che volteggiano insieme a tutti
gli altri colori. E ogni volta che sorelle e fratelli e genitori e figli
e amici che non si vedono da mesi, a volte da anni, s’incontrano, le file
si rompono e si riformano, e il verde si mescola a ‘sari’ svolazzanti e
fiori e tamburi. È proprio un esercito del popolo. E quello che
diceva il presidente Mao, che i guerriglieri sono i pesci e il popolo l’acqua
in cui nuotano, in questo momento è letteralmente vero.
Il presidente Mao. È qui anche lui. Un po’ solo, forse, ma presente.
C’è una sua fotografia, su un drappo rosso. Ce n’è anche
una di Marx. E di Charu Mazumdar, il fondatore e principale ideologo del
movimento naxalita. La sua ruvida retorica esalta la violenza, il sangue
e il martirio, spesso con un linguaggio così crudo da suonare quasi
genocida. Qui in piedi, nel giorno del Bhumkal, non posso fare a meno di
pensare quanto sia lontana la sua analisi, così essenziale alla
struttura della
sua rivoluzione, dal suo contesto emotivo. Quando ha dichiarato che
solo “una campagna di annientamento” poteva produrre “l’uomo nuovo che
sfiderà la morte e sarà libero da ogni traccia di interesse
egoistico”, avrebbe mai immaginato che un giorno il suo sogno si sarebbe
appoggiato sulle spalle di questo popolo che ora danza nella notte?
Di tutto quello che sta succedendo qui, l’unica cosa che arriva al
mondo esterno è la rigida e inflessibile retorica degli ideologi
di un Partito nato da un passato problematico. Ed è un pessimo servizio
reso alla realtà dei fatti. Quando Charu Mazumdar pronunciò
la famosa frase, “Il presidente della Cina è il nostro Presidente,
e la via della Cina è la nostra via”, diceva talmente sul serio
che i naxaliti restarono in silenzio mentre il generale Yahya Khan commetteva
un genocidio nel
Pakistan orientale (Bangladesh), perché allora la Cina era alleata
di Islamabad. Silenzio anche sui campi di sterminio dei khmer rossi in
Cambogia. Silenzio sui clamorosi eccessi della rivoluzione cinese e di
quella russa. Silenzio sul Tibet. Anche all’interno del movimento naxalita
ci sono stati eccessi violenti, ed è impossibile difendere molte
delle cose che hanno fatto. Ma qualsiasi cosa abbiano fatto, è paragonabile
alle sordide vittorie del Partito del congresso e del Bjp nel Punjab,
nel Kashmir, a New Delhi, a Mumbai, nel Gujarat? Eppure, nonostante
queste terribili contraddizioni, Charu Mazumdar era per molti versi un
idealista.
Il Partito che ha fondato (con le sue molte emanazioni) ha tenuto vivo
il sogno rivoluzionario in India. Immaginate una società senza quel
sogno. Anche solo per questo, non possiamo giudicarlo troppo severamente.
Soprattutto non quando poi ci nascondiamo dietro alla pia storiella gandhiana
della superiorità della nonviolenza e dell’idea di amministrazione
fiduciaria: “Al ricco sarà lasciato il possesso della sua ricchezza,
di cui userà quanto è ragionevolmente necessario ai suoi
bisogni personali, e farà da fiduciario del resto, che verrà
usato per il bene della società”. Che strano, però. Oggi,
i moderni zar dell’establishment indiano - quello stato che ha così
spietatamente schiacciato i naxaliti - dicono le stesse cose che diceva
Charu Mazumdar tanto tempo fa: “La via della Cina è la nostra via”.
Sottosopra. Alla rovescia. La via della Cina è cambiata. La Cina
è diventata una potenza imperialista, che depreda altri paesi, saccheggia
le risorse di altri popoli. Il partito ha sempre ragione, solo che ha cambiato
idea.
Quando il partito è un pretendente che corteggia la popolazione
ed è attento ai bisogni di tutti (come oggi nel Dandakaranya), allora
è anche un autentico partito del popolo, e il suo esercito un autentico
esercito del popolo. Ma, dopo la rivoluzione, è molto facile che
questo idillio si trasformi in un matrimonio infelice. È facile
che l’esercito del popolo si rivolti contro il suo stesso popolo. Oggi,
nel Dandakaranya, il Partito vuole che la bauxite resti nella montagna.
Domani potrebbe cambiare
idea. Ma è giusto, o necessario, che le preoccupazioni per il
futuro ci paralizzino nel presente?
Le danze proseguiranno tutta la notte. Maase è ancora sveglia.
Chiacchieriamo fino a notte fonda. Le regalo la mia copia dei ‘Versi del
capitano’ di Neruda (l’avevo portato con me, per ogni evenienza). Lei continua
a chiedermi: “Cosa pensano, fuori, di noi? Cosa dicono gli studenti? Raccontami
del movimento delle donne, quali sono le grandi questioni, oggi?”. Mi chiede
di me, del mio lavoro. Io cerco di farle un resoconto onesto del mio caos.
Poi anche lei si mette a parlare di sé, di come è
entrata nel Partito. Mi racconta che suo marito è stato ucciso
a maggio dello scorso anno, in un falso scontro. Dopo un lungo silenzio,
mi dice che era stata già sposata una volta, anni fa. “Anche lui
è rimasto ucciso in uno scontro”. E aggiunge, con precisione struggente:
“Ma uno scontro vero”.
La guerra prolungata
Stesa sul mio ‘jhilli’ penso alla tristezza prolungata di Maase, mentre
ascolto i tamburi e i suoni di felicità prolungata della festa,
e penso all’idea di “guerra prolungata” di Charu Mazumdar, il precetto
principale del Partito maoista. E per questo che molti non credono alla
volontà dei maoisti di partecipare ai “colloqui di pace”. Pensano
che sia solo uno stratagemma per prendere tempo e riorganizzarsi, per riarmarsi
e riprendere la loro guerra prolungata. Che cos’è una guerra prolungata?
E qualcosa di terribile in sé, o dipende dalla natura della guerra?
E se la popolazione qui, nel Dandakaranya, non avesse condotto la sua guerra
prolungata negli ultimi trent’anni, dove sarebbe ora?
I maoisti sono gli unici a credere nella guerra prolungata? Quando
l’India è diventata una nazione sovrana, si è trasformata
quasi subito in una potenza coloniale, annettendo territori, facendo guerre.
Non ha mai esitato a ricorrere a interventi militari per affrontare problemi
politici: nel Kashmir, a Hyderabad, Goa, Nagaland, Manipur, Telangana,
Assam, Punjab, nelle rivolte naxalite nel Bengala occidentale, in Andhra
Pradesh e ora nelle zone tribali dell’India centrale. Decine di migliaia
di
persone sono state uccise impunemente, centinaia di migliaia torturate.
Tutto questo dietro la maschera benevola della democrazia.
Contro chi sono state condotte queste guerre? Musulmani, cristiani,
sikh, comunisti, dalit, tribali, e soprattutto quei poveri che osano opporsi
al loro destino, anziché accettare le briciole che gli vengono gettate.
E difficile non vedere che lo stato indiano è essenzialmente uno
stato di caste alte indù (a prescindere dal partito al governo),
animato da un’istintiva ostilità verso l’“altro”. Uno stato che,
in perfetto stile coloniale, invia i naga e i mizo a combattere in Chhattisgarh,
i sikh in Kashmir,
i kashmiri in Orissa, i tamil ad Assam, e così via. Se non è
guerra prolungata questa, cos’è?
Pensieri sgradevoli in una bellissima notte stellata. Sukhdev sorride
tra sé, il volto illuminato dallo schermo del computer. E uno stakanovista,
nel lavoro. Gli chiedo cosa c’è da ridere. “Stavo pensando ai giornalisti
che sono venuti l’anno scorso per le celebrazioni del Bhumkal. Sono rimasti
un paio di giorni. Uno si è messo in posa col mio Ak per farsi fotografare,
e quando poi è tornato a casa ci ha chiamato `macchine di morte’
o qualcosa del genere”.
Le danze proseguono, ed è l’alba. Le file continuano a muoversi,
centinaia di giovani danzano ancora. “Non smetteranno”, dice il compagno
Raju, “finché non togliamo le tende”. Incontro il compagno medico.
Gestisce una piccola infermeria ai bordi della pista da ballo. Mi viene
voglia di dargli un bacio sulle guance paffute. Perché non può
essere almeno trenta persone, anziché una sola? Perché non
può essere mille persone? Gli chiedo in quali condizioni di salute
è il Dandakaranya.
La sua risposta mi gela il sangue. La maggior parte delle persone che
ha visitato, dice, inclusi i guerriglieri del Plga, ha un tasso di emoglobina
che oscilla tra il cinque e il sei (la media per le donne indiane è
di undici). C’è la tubercolosi, causata da più di due anni
di anemia cronica. I bambini soffrono di malnutrizione proteico-energetica
di secondo grado, che nel gergo medico si chiama ‘kwashiorkor’ (poi l’ho
cercato sul dizionario. E una parola che deriva dalla lingua ga delle coste
del Ghana, e significa “la malattia che viene al bambino quando nasce il
nuovo bambino”. In pratica, al primo figlio non viene più dato il
latte materno e non c’è abbastanza cibo per sfamarlo).
“Qui è un’epidemia, come in Biafra”, dice il compagno medico.
“Avevo già lavorato nei villaggi, ma non avevo mai visto niente
di simile”. A parte questo, ci sono malaria, osteoporosi, tenia, gravi
infezioni delle orecchie e dei denti e amenorrea primaria, cioè
quando nel periodo della pubertà la malnutrizione provoca la scomparsa
del ciclo femminile o addirittura ne blocca la comparsa. “Non ci sono ospedali
in questa foresta, tranne uno a Gadchiroli. Niente dottori. Niente medicine”.
È in partenza con la sua piccola squadra, per un viaggio di otto
giorni a piedi fino ad Abujhmad. In divisa anche lui, il compagno medico.
Quindi se lo trovano, lo ammazzano.
Il compagno Raju dice che non è sicuro restare accampati qui.
Dobbiamo spostarci. Lasciare il Bhumkal implica lunghi addii che chiedono
il loro tempo. Qui la cerimonia degli arrivi e delle partenze non è
mai presa alla leggera, perché tutti sanno che quando dici “ci rivedremo
presto”, in realtà stai dicendo “forse non ci rivedremo più”.
La compagna Narmada, la compagna Maase e il compagno Rupi prendono direzioni
diverse. Li rivedrò mai più?
Riprendiamo ancora una volta il cammino. Ogni giorno fa sempre più
caldo. Kamla coglie il primo frutto di ‘tendu’ per me. Sa di ‘chikoo’.
Sono diventata una maniaca del tamarindo. Questa volta ci accampiamo vicino
a un corso d’acqua. Donne e uomini fanno il bagno a turno, in gruppi. La
sera, il compagno Raju riceve un intero pacchetto di “biscotti”. Notizie:
- Sessanta persone della divisione di Manpur, arrestate alla fine di
gennaio 2010, non sono ancora
state portate in tribunale.
- Enormi contingenti di polizia sono arrivati nel Bastar del sud. Attacchi
indiscriminati in corso.
- 8 novembre 2009. Nel villaggio di Kachlaram sono stati uccisi Bijapur
Jila, Dirko Madka (6o anni) e Kovasi Suklu (68 anni).
- 11 dicembre. Villaggio di Gumiapal, divisione di Darba, sette persone
uccise (ancora sconosciuti i nomi).
- 15 dicembre, villaggio di Kotrapal, uccise Veko Sombar e Madavi Matti
(entrambe del Kams).
- 30 dicembre, villaggio di Vechapal, uccisi Poonem Pandu e Poonem
Motu (padre e figlio).
- 10 gennaio, tre persone uccise nel villaggio di PullemPulladi (ancora
nessun nome).
- 25 gennaio, sette persone uccise nel villaggio di Takilod, zona di
Indravati.
- 10 febbraio (Festa di Bhumkal), Kuumli stuprata e uccisa nel villaggio
di Dumnaar, Abujhma. Veniva da un villaggio chiamato Paiver.
- Duemila soldati della ‘Indo-Tibetan Border Police’ (Itbp) stanziati
nelle foreste del Rajnandgaon.
- Altri cinquemila soldati della ‘Border Security Force’ arrivati a
Kanker.
Sono arrivati anche alcuni vecchi giornali. Si parla molto dei naxaliti.
Un titolo urlato sintetizza perfettamente il clima politico: “Eliminare,
uccidere, costringere alla resa”. Sotto: “La porta della democrazia è
sempre aperta al dialogo”. Un secondo giornale dice che i maoisti coltivano
canapa per fare soldi. Il terzo ha un editoriale in cui si dice che la
zona in cui siamo accampati e che stiamo attraversando a piedi è
interamente sotto il controllo della polizia. I giovani comunisti portano
via i
ritagli per esercitarsi nella lettura. Passeggiano per il campo leggendo
ad alta voce gli articoli antimaoisti con voci da annunciatori radiofonici.
Altro giorno. Altro posto. Siamo accampati fuori dal villaggio di Usir,
sotto immensi alberi di ‘mahua’.
Il ‘mahua’ sta cominciando a fiorire e sparge i suoi boccioli verde
pallido come gioielli sul suolo della foresta. L’aria è impregnata
del suo profumo vagamente inebriante. La compagna Niti (ricercata) e il
compagno Vinod ci accompagnano a fare un lungo giro per mostrarci le strutture
di raccolta delle acque e i bacini d’irrigazione costruiti dai ‘Janatan
sarkar’ locali. La compagna Niti parla dei tanti problemi che devono affrontare.
Solo il due per cento della terra è irrigata. Ad Abujhmad, fino
a dieci anni fa non si conosceva l’aratro. Ma a Gadchiroli già cominciano
ad arrivare i semi ibridi e i pesticidi chimici. “Abbiamo urgente bisogno
di aiuto in campo agricolo”, dice il compagno Vinod. “Abbiamo bisogno di
persone che conoscano i semi, i pesticidi organici, la permacultura. Con
un po’ d’aiuto potremmo fare molto”.
Il compagno Ramu è l’agricoltore responsabile della zona del
‘Janatana sarkar’. Ci accompagna con orgoglio per i campi, dove si coltivano
riso, brinjal, gongura, cipolle, kohlrabi. Poi, con altrettanto orgoglio,
ci mostra un bacino di irrigazione enorme, ma completamente a secco. Che
cos’è? “Questo non ha acqua neppure durante la stagione delle piogge.
E stato scavato nel posto sbagliato”, dice con un sorriso smagliante. “Non
è nostro, l’ha scavato il ‘Looti sarkar’ (il governo
predatore) ”. Ci sono due sistemi paralleli di governo, qui, il ‘Janatana
sarkar’ e il ‘Looti sarkar’.
Penso a quello che mi ha detto il compagno Venu: vogliono distruggerci,
non solo per via dei minerali, ma perché stiamo proponendo al mondo
un modello alternativo. Non è ancora un’alternativa, questa idea
del ‘Gram swaraj’ (il gandhiano autogoverno del villaggio) col fucile.
C’è troppa fame qui, ci sono troppe malattie. Ma certamente ha creato
la possibilità di un’alternativa. Non per tutto il mondo, non per
l’Alaska o per New Delhi, forse neanche per tutto il Chhattisgarh, ma per
sé. Per il Dandakaranya. È un segreto custodito molto gelosamente.
Ha gettato le basi per un’alternativa al suo stesso annientamento. Ha sfidato
la storia. Partendo con un enorme svantaggio, ha elaborato un progetto
per la sua stessa sopravvivenza. Ha bisogno di aiuto e immaginazione, ha
bisogno di medici, insegnanti, agricoltori. Non ha bisogno di guerra. Ma
se non ottiene altro che guerra, è pronto a combattere.
In questi ultimi giorni, incontro donne che lavorano con il Kams, funzionari
dei ‘Janatana sarkar’, membri del ‘Dandakaranya adivasi kisan mazdoor sangathan’
(Dakms), famiglie di persone uccise, e gente qualsiasi che cerca solo di
tirare avanti in tempi così difficili.
Ho conosciuto tre sorelle - Sukhiari, Sukdai e Sukkali - non giovani,
forse sulla quarantina, del distretto di Narayanpur. Sono iscritte al Kams
da dodici anni. Gli abitanti dei villaggi si affidano a loro per difendersi
dalla polizia. “Gli agenti arrivano in gruppi di due o trecento. Rubano
tutto: gioielli, polli, pentole, frecce e archi”, dice Sukkali, “non lasciano
neppure un coltello”. La sua casa a Innar è stata bruciata due volte.
Sukhiari è stata arrestata ed è rimasta sette mesi in carcere
a Jagdalpur.
“Una volta hanno portato via tutti gli uomini del villaggio, dicendo
che erano tutti naxaliti” Sukhiari li ha seguiti con le donne e i bambini.
Hanno circondato la stazione di polizia e hanno rifiutato di andarsene
finché gli uomini non fossero stati liberati. “Quando portano via
qualcuno”, dice Sudkai, “devi correre immediatamente a riprendertelo. Prima
che scrivano il rapporto. Una volta che hanno scritto su quel libro, diventa
tutto molto difficile”.
Sukhiari, che da bambina è stata rapita e costretta a sposarsi
con un uomo anziano (poi è scappata ed è andata a vivere
con sua sorella), oggi organizza raduni di massa, parla nelle assemblee.
Gli uomini dipendono dalla sua protezione. Le ho chiesto cosa significasse
il Partito per lei: “Naxalvaad è la nostra famiglia”. Quando veniamo
a sapere che c’è stato un attacco, è come se avessero fatto
del male alla nostra famiglia“, dice Sukhiari. Le ho chiesto se sapesse
chi era Mao. Ha sorriso
timidamente: “Era un leader. Noi lavoriamo per realizzare i suoi ideali”.
Ho conosciuto la compagna Somari Gawde. Vent’anni, e ha già
scontato due anni di carcere a Jagdalpur. Era nel villaggio di Innar l’8
gennaio del 2007, il giorno in cui 740 poliziotti lo hanno circondato convinti
che lì si trovasse la compagna Niti (c’era, ma se n’era andata prima
che arrivassero).
Invece hanno trovato la milizia del villaggio, di cui Somari faceva
parte. La polizia ha aperto il fuoco all’alba. Ha ucciso due ragazzi. Poi,
ne ha catturati altri tre, compresa Somari. Due sono stati legati e uccisi
con un colpo di arma da fuoco. Somari è stata picchiata e ridotta
in fin di vita.
La polizia ha preso un trattore con rimorchio e ha caricato i corpi
dei due ragazzi. Somari è stata fatta sedere vicino ai cadaveri,
e portata a Narayanpur.
Ho conosciuto Chamri, madre del compagno Dilip che è stato ucciso
il 6 luglio del 2009. Mi racconta che, dopo averlo ucciso, la polizia ha
legato il figlio a un palo, come un animale, e se l’è portato via
(i poliziotti devono consegnare il corpo della vittima per riscuotere la
ricompensa, prima che arrivi qualcun altro a soffiargliela). Chamri gli
è corsa dietro fino alla stazione di polizia. Quando sono arrivati,
il corpo del ragazzo non aveva più uno straccio addosso. Lungo il
tragitto, racconta
Chamri, i poliziotti hanno parcheggiato il cadavere per la strada e
si sono fermati in un ‘dhaba’ a prendere tè e biscotti (senza neppure
pagare). Immaginatevi per un attimo questa madre che segue il cadavere
del figlio attraverso la foresta e si ferma a distanza ad aspettare che
i suoi assassini abbiano finito il loro tè. Non le hanno permesso
di riavere il corpo del figlio perché potesse dargli una degna sepoltura.
Le hanno solo lasciato gettare un pugno di terra nella fossa in cui è
stato sepolto con gli altri morti quel giorno. Chamri dice che vuole vendetta.
Sangue contro sangue. Ho conosciuto i membri del ‘Marskola janatana sarkar’,
che amministra sei villaggi. Mi hanno descritto un raid della polizia:
arrivano di notte, trecento, quattrocento, a volte anche un migliaio di
uomini. Circondano il villaggio e aspettano in silenzio. All’alba, catturano
le prime persone che escono dal villaggio e le usano come scudi umani,
per farsi indicare i punti dove sono state messe le trappole (la foresta
è piena di trappole, vere e false). Una volta entrati nel villaggio,
gli uomini della polizia saccheggiano e rubano e bruciano case. Arrivano
con i cani. I cani catturano chi tenta la fuga. Rincorrono galline e maiali,
che la polizia uccide e si porta via. Con la polizia arrivano gli Spo.
Sono quelli che sanno dove la gente nasconde soldi e oggetti preziosi.
Arrestano le persone e prima di rilasciarle li rapinano. Si portano sempre
dietro qualche divisa naxalita in più, in caso di
bisogno. Sono pagati per uccidere naxaliti, e a volte se li fabbricano.
Gli abitanti dei villaggi hanno troppa paura per restare a casa.
Nell’apparente tranquillità di questa foresta, la vita sembra
ormai completamente militarizzata. Andare al mercato è un’operazione
militare. I mercati sono pieni di informatori, che la polizia attira dai
villaggi con la promessa dei soldi. Gli uomini non possono più andare
al mercato. Le donne ci vanno, ma sono sorvegliate a vista. Se comprano
anche una sola cosa in più, la polizia le accusa di averla comprata
per i naxaliti. Le farmacie hanno ricevuto ordine di non vendere farmaci
a nessuno,
se non in piccolissime quantità. Le razioni a prezzo ridotto
del Sistema di distribuzione pubblica - zucchero, riso, cherosene - sono
immagazzinate dentro o vicino alle stazioni di polizia, cosa che spesso
rende impossibile acquistarle. L’articolo 2 della convenzione delle Nazioni
unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, lo
definisce così: “Ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione
di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale
o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità
fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente
il gruppo a
condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale
o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; [o]
il trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro”.
Affogarli come topi
Alla fine, sembra che tutto questo camminare abbia avuto la meglio su
di me. Sono stanca. Kamla mi porta una pentola di acqua calda. Mi lavo
dietro un albero, al buio. Salto la cena e m’infilo nel mio sacco a pelo
per dormire. Il compagno Raju mi annuncia che dobbiamo muoverci. Succede
spesso, naturalmente, ma stasera è dura. Ci eravamo appena accampati
in una radura quando abbiamo sentito i colpi dell’artiglieria in lontananza.
Siamo centoquattro. Ancora una volta, in fila
nella notte. I grilli. Il profumo di qualcosa che sembra lavanda. Devono
essere le undici passate quando arriviamo nel posto in cui passeremo la
notte. Una sporgenza rocciosa. In riga. Appello. Qualcuno accende la radio.
La Bbc dice che c’è stato un attacco a un campo degli ‘Eastern frontier
rifles’ a Lalgarh, nel Bengala occidentale. Sessanta maoisti in motocicletta.
Quattordici poliziotti uccisi. Dieci dispersi. Armi rubate. Si leva un
mormorio di soddisfazione. Stanno intervistando il leader maoista Kishenji.
Quando fermerete le violenze e parteciperete ai colloqui di pace? Kishenji:
Quando sarà sospesa l’operazione ‘Green hunt’. In qualsiasi momento.
Parteciperemo ai colloqui. Domanda successiva: ora è buio, avete
messo le mine terrestri e stanno per arrivare rinforzi governativi, attaccherete
anche loro? Kishenji: sì, certo, altrimenti la mia gente mi picchia.
Risate tra i ranghi. Sukhdev, l’uomo delle rettifiche, spiega: “Dicono
sempre mine terrestri. Noi non usiamo mine terrestri. Usiamo gli Ied, ordigni
esplosivi artigianali”. Un’altra suite di lusso nell’albergo a mille stelle.
Sto male. Comincia a piovere. Qualche risatina.
Kamla mi copre con un ‘jhilli’. Mi serve altro? La mattina dopo il
numero dei morti a Lalgarh è salito a 21, dieci i dispersi. Il compagno
Raju è premuroso, stamattina. Non ci muoviamo prima di sera.
Una sera, sono tutti accalcati intorno a una luce, come falene. E il
piccolo computer del compagno Sukhdev, alimentato da un pannello solare,
su cui stanno guardando Mother India, un programma tv sui crimini irrisolti.
Le sagome dei fucili risaltano in controluce sullo sfondo scuro del cielo.
Kamla non sembra interessata. Le chiedo se le piace guardare i film. “No,
sorella. Solo i video delle imboscate”.
Più tardi chiedo al compagno Sukhdev di quei video. Senza battere
ciglio, lui me ne mostra uno. Comincia con alcune immagini del Dandakaranya,
fiumi, cascate, il primo piano del ramo spoglio di un albero, un cuculo
che canta. Poi, all’improvviso, un compagno innesca uno Ied e lo nasconde
sotto le foglie secche. Una carovana di motociclette salta per aria. Ci
sono corpi mutilati e moto in fiamme. Vengono subito prese le armi. Tre
poliziotti, ancora sotto shock per l’esplosione, sono stati legati.
Chi sta facendo le riprese? Chi sta dirigendo le operazioni? Chi sta
rassicurando i poliziotti catturati che saranno rilasciati se si arrendono?
(Sono stati effettivamente rilasciati. Ne avrò la conferma più
tardi). Conosco quella voce gentile e rassicurante. E il compagno Venu.
“È l’imboscata di Kudur”, dice il compagno Sukhdev. Ha anche un
archivio di video di villaggi bruciati, dichiarazioni di testimoni oculari
e parenti dei morti. Sul muro annerito di una casa incendiata c’è
la scritta “Nati per uccidere!”. Ci sono le immagini di un bambino al quale
sono state mozzate le dita per inaugurare l’esordio dell’operazione ‘Green
hunt’ nel Bastar (c’è perfino un’intervista televisiva a me. Il
mio studio. I miei libri. Strano).
Di notte, la radio dà notizia di un altro attacco naxalita.
Questa volta a Jamui, nel Bihar. Dice che 125 maoisti hanno attaccato un
villaggio e ucciso per rappresaglia dieci persone della tribù kora,
colpevoli di aver dato informazioni alla polizia che hanno portato alla
morte di sei loro compagni. Naturalmente, noi sappiamo che quello che dicono
i mezzi d’informazione può essere o non essere vero. Ma se lo è,
è ingiustificabile. I compagni Raju e Sukhdev sembrano decisamente
a disagio.
Le notizie che stanno arrivando dallo Jarkhand e dal Bihar sono preoccupanti.
La macabra decapitazione del poliziotto Francis Induvar è ancora
viva nel ricordo di tutti. Dimostra con quanta facilità la disciplina
della lotta armata possa trasformarsi in atti irresponsabili di violenza
criminale, o in orribili guerre identitarie tra caste e comunità
e gruppi religiosi. Istituzionalizzando l’ingiustizia, lo stato indiano
ha trasformato questo paese in una polveriera carica di enormi tensioni.
Il governo
si sbaglia di grosso se pensa di mettere fine alla violenza usando
“omicidi mirati” per “decapitare” il Cpi (maoista). Al contrario, la violenza
si diffonderà e intensificherà, e il governo non avrà
nessun interlocutore con cui avviare un dialogo.
Durante gli ultimi giorni della mia permanenza, girovaghiamo per la
bellissima valle verde dell’Indravati. Mentre camminiamo lungo il fianco
di una collina, vediamo un’altra fila di persone che avanza nella stessa
direzione, ma sulla riva opposta del fiume. Scopro che stanno andando a
un’assemblea contro la diga nel villaggio di Kundur. Sono allo scoperto
e disarmati. Una manifestazione locale per difendere la valle. Passo dall’altra
parte e mi unisco a loro. La diga di Bodhghat
sommergerà l’intera zona in cui abbiamo camminato per giorni.
Tutta quella parte di foresta, tutta quella storia, tutte quelle vicende
umane. Più di cento villaggi. Sarebbe questo il piano, dunque? Affogare
gli abitanti come topi, perché l’acciaieria integrata di Lohandiguda
e la miniera di bauxite e la raffineria di alluminio sulle montagne di
Keshkal possano prendersi il fiume? All’assemblea, dopo aver camminato
chilometri per arrivare qui, i locali dicono le stesse cose che sentiamo
da
anni. Affogheremo, ma non ci muoviamo! Sono entusiasti che qualcuno
sia venuto qui da New Delhi per loro. Gli dico che New Delhi è una
città crudele, che di loro non sa e non vuole sapere niente.
Poche settimane prima di venire nel Dandakaranya, sono stata a Gujarat.
La diga di Sardar Sarovar ha raggiunto più o meno l’altezza prevista.
E quasi tutto quello che il ‘Narmada badao andolano’ (Nba) aveva previsto
che sarebbe successo, è successo. Le persone sfollate non sono state
risarcite, ma questo era scontato. I canali non sono stati costruiti. Non
ci sono soldi. Così, le acque del Narmada vengono convogliate nel
letto asciutto del fiume Sabarmati (dove era già stata costruita
una diga tanto tempo fa).
Gran parte dell’acqua viene inghiottita dalle città e dalle
grandi industrie. Gli effetti a valle - l’ingresso di acqua salata in un
estuario senza un fiume - stanno diventando impossibili da arginare.
C’è stato un tempo in cui credere che le grandi dighe fossero
i “templi dell’India moderna” poteva essere un errore di valutazione, ma
comprensibile. Oggi però, dopo tutto quello che è successo,
e con tutto quello che sappiamo, bisogna dire chiaramente che le grandi
dighe sono un crimine contro l’umanità. Il progetto per la diga
di Bodhghat è stato archiviato nel 1984, dopo le proteste degli
abitanti del posto. Chi lo fermerà ora? Chi impedirà la posa
della prima pietra? Chi impedirà
che rubino l’Indravati? Qualcuno deve farlo.
‘Lal salaam’, compagni
L’ultima sera ci siamo accampati ai piedi della ripida collina che avremmo
scalato la mattina dopo, per raggiungere la strada dove una motocicletta
doveva venire a prendermi. La foresta è cambiata dalla prima volta
che ci sono entrata. I chiaraunji, i kapok, gli alberi di mango hanno cominciato
a fiorire. Gli abitanti di Kudur ci hanno fatto arrivare una grande pentola
di pesce appena pescato. E una lista per me: 71 tipi di frutta, verdure,
lenticchie e insetti che ricavano dalla foresta e coltivano nei campi,
insieme al prezzo di mercato. E solo una lista. Ma è anche una mappa
del loro mondo.
Arriva la posta della giungla. Due biscotti per me. Una poesia e un
fiore essiccato dalla compagna Narmada. Una bella lettera da Maase (chi
è veramente? Lo saprò mai?). Il compagno Sukhdev chiede se
può scaricare sul suo computer la musica del mio iPod. Ascoltiamo
una registrazione di Iqbal Bano che canta ‘Hum dekhenge’ (Vedremo quel
giorno) di Faiz Ahmad Faiz, durante il famoso concerto di Lahore, negli
anni più duri della repressione del generale Zia.
“Quando gli eretici e gli offesi siederanno in alto Tutte le corone
saranno strappate via, tutti i troni rovesciati”.
Le cinquantamila persone del pubblico intonano un coro di sfida: ‘Inqilab
zindabad! Inqilab zindabad!’ (Lunga vita alla rivoluzione!). Dopo tutti
questi anni, quel coro riecheggia in questa foresta.
Strane le alleanze che si creano. Il ministro degli interni lancia
velate minacce a quelli che “commettono l’errore di offrire sostegno intellettuale
e materiale ai maoisti”. Vale anche per la condivisione di musica?
All’alba dico addio al compagno Madhav e a Joori, al piccolo Mangtu
e a tutti gli altri. Il compagno Chandu è andato a organizzare le
moto e verrà con me fino alla strada principale. Il compagno Raju
non viene (la salita sarebbe un supplizio per le sue ginocchia). La compagna
Niti (superricercata), il compagno Sukhdev, Kamla e cinque altri mi accompagneranno
in cima alla collina.
Appena ci incamminiamo, Niti e Sukhdev tolgono la sicura ai loro Ak,
come niente fosse ma contemporaneamente. E la prima volta che glielo vedo
fare. Ci stiamo avvicinando al “confine”.
“Sai cosa fare se dovessero spararci addosso?”, mi chiede distrattamente
Sukhdev, come se fosse la cosa più normale del mondo.
“Sì”, rispondo io. “Dichiaro immediatamente uno sciopero della
fame a oltranza”.
Si siede su una roccia e ride. Saliamo per una mezz’ora. Arrivati sotto
il livello della strada, ci sediamo all’interno di una piccola nicchia
rocciosa, completamente nascosti, come se stessimo preparando un’imboscata.
Tendiamo l’orecchio al rumore delle motociclette. Quando arriva, il saluto
dev’essere rapido. ‘Lal salaam’, compagni.
Quando mi volto indietro, sono ancora lì. Salutano con la mano.
Un gruppetto sparuto. Gente che vive con i suoi sogni, mentre il resto
del mondo vive con i suoi incubi. Ogni sera ripenso a quel viaggio. A quel
cielo di notte, a quei sentieri nella foresta. Vedo i calcagni della campagna
Kamla nei suoi sandali logori illuminati dalla luce della mia torcia elettrica.
So che si starà spostando. Starà marciando, non solo per
se stessa, ma per tenere viva la speranza per tutti noi.
***
CENNI BIOGRAFICI
Arundhati Roy (Shillong, stato indiano del Meghalaya, 24 novembre 1961)
è una scrittrice indiana, nonché attivista politica impegnata
nei movimenti anti-globalizzazione.
Sua madre è originaria del Kerala e di religione cristiana,
suo padre è un coltivatore di tè bengalese e di religione
induista. Trascorre l'infanzia nel Kerala e a 16 anni va a vivere a Delhi
in condizioni da senzatetto, dimorando in una baracca all'interno del ‘Feroz
Shah Kotla’, il campo da cricket di Delhi. Riesce a studiare
architettura presso la Delhi School of Architecture, dove incontra
il primo marito, l'architetto Gerard Da Cunha. Incontra il suo secondo
marito, il regista Pradeep Kishen, nel 1984 e scrive le sceneggiature dei
film In Which Annie Gives it, Those Ones e Electric Moon, nonché
della serie televisiva Banyan Tree; recita inoltre
la parte di una ragazza contadina nel film Massey Sahib.
Arundhati Roy inizia a scrivere Il Dio delle piccole cose nel 1992
e lo conclude quattro anni dopo. Il libro è semi-autobiografico
e racconta molta dell'infanzia trascorsa ad Aymanam. Il libro riscuote
grande successo e oltre ad essere premiato è stato tradotto e pubblicato
in ventuno nazioni.
A tutt'oggi, Il Dio delle piccole cose è l'unico romanzo scritto
dalla Roy. Da quando ha vinto il Premio Booker, Arundhati Roy ha preferito
concentrare la propria attività di scrittrice scrivendo saggi su
questioni politiche e sociali. Tra i temi affrontati vi sono il progetto
della Diga del Narmada, le armi nucleari dell'India, il fanatismo religioso
induista, le attività della multinazionale Enron in India. È
considerata una delle figure guida del movimento mondiale anti-globalizzazione
e nei suoi testi la critica al neo-imperialismo e al neoliberismo è
forte e veemente.
In risposta ai test nucleari indiani di Pokhran, nel Rajasthan, Arundhati
Roy ha scritto il saggio La fine dell'immaginazione, una critica alla politica
nucleare del governo indiano inclusa nella raccolta Il costo della vita
(The Cost of Living), in cui viene affrontato anche l'impatto sulle popolazioni
interessate del massiccio progetto di costruzione di dighe e centrali idroelettriche
negli stati centrali e occidentali del Maharashtra, Madhya Pradesh e Gujarat.
Una sua raccolta di saggi pubblicata in italiano è Guida all'impero
per la gente comune, dove in una prima parte l'autrice affronta il tema
del neo-imperialismo e della "guerra al terrorismo" globale e in una seconda
parte focalizza la sua attenzione sull'India odierna.
Nel 2002, Arundhati Roy è stata condannata dalla Corte Suprema
di Delhi per oltraggio alla corte medesima, accusata dall'autrice di mettere
a tacere le proteste contro il progetto della diga del Narmada. Tuttavia
la condanna è stata solo alla simbolica pena di un giorno di prigione.
Nel maggio del 2004 ha ricevuto il ‘Sydney Peace Prize’ per il suo
lavoro nel campo sociale e il continuo sostegno alla nonviolenza. Nel gennaio
2006 le è stato conferito il premio della ‘Sahitya Akademi’ per
la sua raccolta di saggi L'algebra della giustizia infinita, ma l'autrice
lo ha rifiutato.
Nell'Archivio del Sapere Condiviso, sul sito di Punto Rosso, sono presenti
suoi diversi saggi.