Rossana Rossanda, "il manifesto", 24 febbraio 2011
Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che
uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano
stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare
il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel
Medio Oriente ci interpellano su questo.
E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli
che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi
e il governo derivante dal Fln algerino. Non è una domanda diversa
da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste
hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin
e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin,
e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la
domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato
in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti
e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore
e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio
è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali
e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non
lo era. Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato
futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è
capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come
antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in
presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più
o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni
ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo
critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico.
E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale
non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici,
che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo
rivoluzionario". Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano
giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è
complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza
Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista?
La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque,
il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto,
ma a Michel Foucault.
Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.
In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da
quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio
termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa
e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento
delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava,
si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare
la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi
nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti,
ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione
passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso
la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo
il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste
o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero
o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla
sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente
o, peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso
di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro
di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni
cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non
ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di
affari o da appelli basati sull'emotività. E sulle quali la mondializzazione
ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche,
utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà,
e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente
acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati
della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Tahir era in possesso
di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale
si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono
più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto,
come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra
di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è
- non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha
tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che
fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia
dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere
della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah
iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con
un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società
civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.
In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori
fra potere e popolazione.
Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua
natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa
fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente
di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi
una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse,
e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi
ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva
ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà
nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese
da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso
al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente,
chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo,
ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti
di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata,
e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo
potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi
che non siano una loro diretta emanazione. Il problema delle rivolte arabe
- che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi
forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano
costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi
di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto
se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello
come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia
rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo
se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia
dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle
folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia,
non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra
desolante quotidianità.