Vittorio Rieser, “Progetto Lavoro”, n. 2, gennaio 2011
Le note che seguono non forniscono un’analisi dettagliata dei recenti comportamenti della FIAT, né sul terreno delle relazioni sindacali né su quello del mercato e delle vendite; né, tanto meno, entrano nel merito del “che fare” per opporsi alla strategia autoritaria della FIAT. Esse si limitano a proporre uno “schema di riflessione”, cioè una serie di punti schematici da cui partire per analizzare e discutere la strategia della FIAT e le implicazioni che questa ha per il movimento operaio.
L’offensiva antisindacale di mr. M
A partire dall’accordo di Pomigliano, la FIAT – Marchionne in prima
persona – ha sviluppato una
durissima offensiva contro il sistema di relazioni industriali esistente
in Italia, con l’obiettivo di liberarsi dai vincoli del contratto nazionale
di categoria e da quel sindacato, la FIOM-CGIL, che non è disposto
ad accettare a priori le decisioni unilaterali dell’azienda.
La formula della New Company riassume questi intenti: liberarsi dal
contratto nazionale (a costo di uscire da Confindustria) e liberarsi della
FIOM (con la possibilità di escluderla anche dalle elezioni delle
RSU). Com'è noto, FIM e UILM, dopo aver dichiarato che Pomigliano
era un “caso particolare” e non generalizzabile, stanno accettando questa
strategia complessiva. La motivazione ufficialmente addotta per questi
comportamenti è che gli stabilimenti italiani della Fiat sono gli
unici che non danno profitto. Alla base di questo starebbe il tipo di relazioni
industriali esistente in Italia, che determina un costo del lavoro troppo
elevato e – soprattutto – vincoli sull’uso della forza-lavoro che diminuiscono
la produttività.
Il lavoro e la produttività in Fiat
Al momento del suo insediamento, Marchionne aveva messo in evidenza
un dato oggettivo: il costo del lavoro incide per il 7-8% sui costi totali,
e – quindi – aveva detto che non era il caso di fare barricate su questo
problema.
Cos’è cambiato da allora? Certo non c’è stata un'impennata
dei salari, né – in particolare alla FIAT – un livello di conflittualità
operaia e sindacale che abbia pesantemente ridotto i margini di utilizzo
del “fattore lavoro”. Gli episodi di conflittualità, quando ci sono
stati, sono stati – tra l’altro – provocati da Marchionne stesso, con la
decisione di non pagare la seconda tranche del premio di risultato e con
i licenziamenti di alcuni attivisti sindacali.
E’ però vero che gli stabilimenti italiani della FIAT hanno
una bassa produttività-redditività. Com’è ormai noto,
ciò dipende da una loro bassa utilizzazione, per cui lavorano molto
al di sotto delle loro capacità produttive (i frequenti e sempre
più lunghi periodi di Cassa Integrazione ne sono il segno evidente).Ma
questo rinvia alla questione più generale di “come sta la FIAT”
sul mercato italiano e mondiale.In un quadro di generale riduzione della
domanda dovuto alla crisi, essa perde quote di mercato in Italia come in
Europa, cioè registra un declino di vendite ben superiore alla media
generale (e ai dati di imprese concorrenti), mentre all’inizio della crisi
avveniva l’opposto: in un quadro di generale declino delle vendite, la
FIAT calava meno degli altri. Si è da più parti sottolineato
come questo abbia forse a che fare col fatto che la FIAT da tempo non propone
nuovi modelli. Ma non entriamo nel merito di questi problemi: ciò
che vogliamo sottolineare è che, in questo quadro, gli obiettivi
produttivi e di utilizzazione degli impianti italiani che Marchionne sbandiera
nel suo progetto “Fabbrica Italia” e su cui fonda la sua offensiva antisindacale
sono del tutto irrealistici.
Il ruolo dell’“aiuto pubblico”
In realtà, il “vantaggio competitivo” di stabilimenti FIAT come
quello polacco o come quello in fase di riavviamento in Serbia è
dato non solo e non tanto dal minore costo del lavoro e da una supposta
maggiore produttività del lavoro stesso, quanto dalle facilitazioni
finanziarie e fiscali offerte dal lo stato in quei paesi: aree attrezzate
e offerte quasi gratuitamente, sgravi od esenzioni fiscali e contributive,
ecc.
In qualche modo, Marchionne chiede allo stato italiano di “competere”
su questo terreno. Giustamente rileva il carattere effimero di misure come
gli aiuti alla rottamazione, ma “dimentica” tutti gli aiuti che lo stato
ha dato alla FIAT in varie forme – basti pensare (per fare solo un esempio
relativamente recente) ai finanziamenti agli investimenti per lo stabilimento
di Melfi. Al di là di questo, come potrebbe lo stato italiano “sostituirsi
alla domanda” che cala, e all’incapacità della Fiat di “intercettare”
adeguatamente la domanda, benché calante?
Qui, naturalmente, sorge anche il problema di come l’Unione Europea
– in base alla sua “linea liberista” - permetta forme di dumping sociale
al suo interno o nei paesi che vogliono entrarvi, come quella che possiamo
osservare nel caso degli stabilimenti polacco e serbo.
La Fiat da Valletta a mr. M: continuità e differenze
L’attacco al sindacato e più precisamente alla FIOM-CGIL non
è certo una novità nella storia della FIAT – per certi versi
è un elemento di continuità: ma con significative differenze.
Valletta sviluppò la sua offensiva anti-FIOM in un contesto
preciso, e diverso dall’attuale: in termini immediati, esso serviva per
avere gli aiuti statunitensi; ma, soprattutto, esso avveniva in una fase
di impetuoso sviluppo economico, di cui la FIAT seppe cogliere le conseguenze
sulla domanda di auto, e seppe incontrarle con la proposta innovativa di
modelli adeguati.
La FIAT di Valletta, per alcuni anni, fu quindi in grado di offrire
ai suoi lavoratori condizioni relativamente favorevoli di salario e in
sede di “benefici collaterali”. Non a caso quando queste condizioni di
“miglior favore” cessarono il sistema vallettiano di relazioni industriali
collassò.
Nelle fasi seguenti, la FIAT dovette per un certo tempo “subire” relazioni
industriali più avanzate, cioè con maggior potere contrattuale
del sindacato. Ma non si rassegnò mai a questo fatto, in attesa
di una “rivincita” che avvenne nel 1980. Da allora la FIAT ha goduto di
relazioni industriali relativamente “non-conflittuali”, ma questo le è
servito per momenti di rilancio e ripresa solo transitori, che non hanno
impedito che precipitasse in quella situazione di crisi profonda, da cui
– è l’idea corrente - “l’ha salvata Marchionne”.
Già a partire da queste vicende val la pena di fare una considerazione
specifica sul rapporto tra organizzazione del lavoro-relazioni industriali-efficienza/produttività
alla FIAT.
Sotto Valletta, la repressione antisindacale coincise con l’applicazione
massiccia del taylorismo: un sistema autoritario, che traeva vantaggio
dalla mancanza di controllo sindacale, il quale garantiva aumenti di produttività,
soprattutto in produzioni di grande serie e di “bassa gamma” (quindi senza
requisiti elevati di qualità) come quelle che caratterizzavano la
domanda di allora.
Dopo il 1980 insieme alla “ripresa di comando” della FIAT, vi fu la
“crisi del taylorismo”, legata anche alle mutate condizioni del mercato
e della concorrenza. Di qui l’affermarsi di modelli “giapponesizzanti”,
cioè che rivalutavano il ruolo attivo del lavoro operaio. Alla FIAT
questo si tradusse nel modello della “fabbrica integrata”. Ma la mancanza
di un controllo sindacale fece sì che gli aspetti innovativi (beninteso
in un’ottica di intensificazione dello sfruttamento in condizioni mutate)
di quel modello fossero largamente “svuotati” – con effetti negativi sulla
competitività.
Oggi Marchionne ripropone il “modello vallettiano”, ma in un contesto
assai meno favorevole di quello di allora, e per certi versi ancora più
fragile di quello della “fase romitiana”. Da un lato, le condizioni di
mercato sono oggi più precarie che mai. Dall’altro, il puro ripristino
della “unilateralità gerarchica” rende improbabile che la FIAT riesca
a risolvere i suoi “problemi storici”, di efficienza e di qualità,
che in larga misura si collegano proprio al funzionamento del suo sistema
gerarchico.
Si può inoltre notare come il “modello Marchionne” sia per certi
aspetti ancora più autoritario di quello vallettiano. Basta, in
proposito, un esempio. Sotto Valletta la FIOM poteva presentare sue liste
alle elezioni di commissione interna – anche se non firmava gli accordi
aziendali – a condizione di raccogliere il numero prescritto di firme per
la presentazione: condizione durissima, ma che non impedì alla FIOM
di essere presente alle elezioni (la durissima storia della “raccolta delle
firme” è ben nota, perché più volte raccontata). Nell’attuale
“modello Marchionne” la possibilità – per le organizzazioni non
firmatarie di accordi – di presentarsi alle elezioni delle RSU se raccolgono
le firme del 5% dei lavoratori (indicata nelle pur limitative clausole
dell’accordo del 23 luglio 1993) è cancellata.
L’accordo di Mirafiori, ovvero la “soluzione finale” di mr. M
L’accordo su Mirafiori del 23 dicembre scorso sistematizza le linee
che si potevano intravvedere da Pomigliano in poi. Non a caso, a Pomigliano
dopo l’accordo di Mirafiori si è firmato un nuovo accordo, che completa
e sistematizza quello precedente con qualcosa in più: un – misero
– aumento salariale di circa 30 euro, e un nuovo schema di inquadramento
professionale, che andrà analizzato con attenzione (al momento non
dispongo del testo).
Il nucleo centrale attorno a cui si organizza l’accordo di Mirafiori
è la sostanziale eliminazione dell’iniziativa contrattuale del sindacato.
Infatti tutte le clausole dell’accordo sono “blindate”. Viene soppresso
il diritto delle organizzazioni sindacali firmatarie di indire scioperi
per modificarle, ma anche il diritto soggettivo dei lavoratori di scioperare
contro di esse. Le organizzazioni sindacali sarebbero punite con la cancellazione
dei loro diritti (trattenute sindacali, permessi per i rappresentanti sindacali);
i lavoratori sarebbero passibili di provvedimenti disciplinari fino al
licenziamento. E’ quello che è contenuto nella cosiddetta “clausola
di responsabilità” indicata all’inizio dell’accordo Va in proposito
sottolineato anche un ulteriore aspetto. Su una serie di problemi non trattati
direttamente nell’accordo di Mirafiori (come – diversamente da Pomigliano
– l’inquadramento professionale), esso rimanda, non al contratto nazionale
di categoria (da cui la FIAT è uscita), ma al futuro contratto dell’auto:
è quindi presumibile che la “clausola di responsabilità”
si estenderà a tutte le norme contrattuali.
In tal modo viene soppressa la funzione-base del sindacato: che è
quella di giungere, attraverso il conflitto, a una negoziazione migliorativa
della condizione di lavoro, modificando le norme esistenti. E’ un’affermazione
senza attenuazioni o qualificazioni del comando unilaterale dell’impresa,
che si riflette nello stesso linguaggio dell’accordo, e anche – in modo
più preciso – nella definizione delle funzioni delle commissioni
paritetiche. Queste infatti sono numerose, e dovrebbero essere il “luogo
di negoziazione” surrogatorio dell’impossibilità dell’itinerario
“tradizionale” di conflittonegoziazione.
Ma, a parte il fatto che esse risultano in genere chiamate ad affrontare
problemi di “violazioni sindacali” dell’accordo (e non di violazioni aziendali),
viene su ogni tema ribadita la regola che, se non si raggiunge un accordo
entro un certo termine di tempo, l’impresa procederà unilateralmente
ad attuare le sue decisioni. La “Commissione paritetica di conciliazione”
è dunque l’architrave di una forma mistificata di “partecipazione”,
la definizione dei suoi compiti sintetizza questa logica. Le regole sulla
rappresentanza sindacale sono il logico corollario di quest’impostazione.
Per questo è sbagliato concentrarsi su di esse come aspetto principale
(magari dicendo, come fanno vari esponenti del PD, che l’accordo andrebbe
bene se non ci fosse l’esclusione della FIOM. Ma cosa andrebbe a fare la
FIOM se fosse “ammessa”?). Esse non solo circoscrivono i diritti sindacali
alle organizzazioni che hanno firmato l’accordo ma stabiliscono che i rappresentanti
sindacali non solo saranno nominati dalle organizzazioni anziché
eletti dai lavoratori, ma saranno in misura paritetica tra le diverse organizzazioni.
Coerentemente con la logica dell’accordo, ogni rapporto di rappresentanza
dei lavoratori è quindi cancellato. Ha ragione Adriano Serafino
quando scrive, sul Manifesto, che “non è solo la FIOM ad essere
esclusa”: l’accordo colpisce qualsiasi attività contrattuale autonoma
di qualsiasi sindacato.
E’ a partire da quest’impianto di fondo che vengono definite le norme
relative alla condizione di lavoro. Le richiamo sommariamente. Su orario
e turni di lavoro, si pongono tre possibilità (il tradizionale orario
di 8 ore per 5 giorni, ma su 3 turni; un orario di 8 ore che copra 6 giorni,
con riposi “scalati”; il famigerato orario di 10 ore su 4 giorni): si “sperimenterà”,
si discuterà in commissione paritetica, ma la decisione ultima spetta
all’impresa. Sulla pausa mensa a fine turno (che viene riconfermata nell’ultimo
accordo di Pomigliano), proposta in termini “sperimentali” (FIM e UILM
non potevano lasciarsi sputtanare troppo, dopo i risultati del loro tanto
conclamato questionario, che mostravano l’ostilità dei lavoratori
a questa ipotesi), l’impresa concede, bontà sua, che se l’orario
è su 10 ore essa sarà a metà turno. Le pause nel corso
del lavoro sulla linea di montaggio vengono – naturalmente! - ridotte da
40 a 30 minuti, mediante l’imposizione del metodo Ergo-Uas nella determinazione
dei tempi. L’accordo afferma che tale metodo (introdotto da poco, e solo
in alcune situazioni FIAT) “tiene conto di tutto”, dei problemi ergonomici
come di quelli dei ritmi sostenibili, così come di una corretta
allocazione dei lavoratori (compresi quelli “con idoneità specifiche”
– termine politically correct per “inidonei”): quindi, che c’è da
discutere o da contestare? Al massimo, se ne può parlare in commissione
paritetica (fermo restando che poi la FIAT andrà per la sua strada).
Sugli straordinari, l’accordo concede 120 ore annue pro capite “senza preventivo
accordo sindacale”, che potranno arrivare a 200 – in questo caso, gentilmente
concesso, “previo accordo sindacale”.
Infine, sull’assenteismo, si sancisce – con alcune (ovvie ed estreme)
eccezioni – che l’impresa possa non pagare i primi due giorni di malattia
ai lavoratori che siano in malattia (per periodi brevi) a ridosso o a cavallo
di festività o ferie.
Non mi soffermo qui sugli effetti di peggioramento della condizione
di lavoro che queste norme comportano – se non per domandare come fanno
certi dirigenti del PD a dire che l’accordo è positivo “nei contenuti”,
se non fosse per l’antidemocratica esclusione della FIOM dalla rappresentanza
Mi limito a sottolineare come tutto ciò faccia parte di un’“organica”
affermazione di potere unilaterale da parte dell’impresa su condizioni
riguardo alle quali la conquista di un “controllo negoziale” è stata
un filo conduttore dell’azione e dell’avanzata da parte sindacale negli
anni passati (non solo in Italia: si pensi a cosa direbbero i sindacati
tedeschi sullo straordinario senza preventiva contrattazione sindacale).
Qual è la strategia di mr. M?
A questo punto dobbiamo domandarci quale sia la strategia che sta dietro
a queste decisioni molto drastiche di Marchionne. La risposta non è
così scontata ed evidente.
Sul piano politico, il senso di questa strategia è chiaro. Marchionne,
in primo luogo, ha costruito un “asse”, un “patto di acciaio” con altri
due soggetti: il governo, nella persona (in particolare) di Sacconi, e
i sindacati “collaborazionisti”, nella persona (in particolare) di Bonanni.
Certo, l’attuale governo è fragile; ma chi ha detto che quest’“asse”
non funzioni anche con un governo futuro – che sia a maggioranza berlusconiana
oppure a guida PD?
Un po’ più complicato è il quadro dei “rapporti confindustriali”.
Ma non va sopravvalutato il rifiuto, espresso dalla maggioranza degli imprenditori,
di far saltare il contratto nazionale. Certo, sono poche le imprese che
possono costruirsi un “contratto su misura” come la FIAT; e sono poche
quelle che possono permettersi di tagliar fuori la FIOM, o altri sindacati
di categoria della CGIL, essendo essi spesso largamente maggioritari o
addirittura gli unici presenti. Ma la linea espressa nella “clausola di
responsabilità” dell’accordo Mirafiori può far gola a molti,
sulla scia di “benissimo la CGIL, ma facciamo un accordo blindato”. In
questo senso Marchionne può esercitare una sia pur parziale funzione
egemonica.
Inoltre l’accordo Mirafiori può servire a Marchionne nella complessa
gestione degli stabilimenti della sua multinazionale. Non si potrà
più citare “l’esempio italiano” per rivendicare miglioramenti nella
propria condizione.
Ma sul piano produttivo gli effetti possibili dell’accordo lasciano
molti dubbi. Quali miglioramenti competitivi può produrre una “stretta
autoritaria” su tempi di lavoro e pause o sull’effettuazione degli straordinari?
Al livello attuale, di bassa utilizzazione degli impianti italiani, nessuno.
Se la produzione riprende, l’incremento di efficienza derivante da queste
norme è limitatissimo, e può essere vanificato da forme di
“conflittualità selvaggia”.
Bisognerebbe riflettere sul perché Marchionne abbia fatto questa
“svolta”, non nella fase iniziale in cui in qualche modo aveva tirato fuori
la FIAT dalla crisi, e la FIAT ricuperava quote di mercato, ma ora, quando
la FIAT perde quote di mercato rispetto ai suoi principali concorrenti.
Certo, questa situazione è – paradossalmente – un suo punto di forza
verso i lavoratori: il referendum basato sul ricatto “o accetti le mie
condizioni o chiudo lo stabilimento” è più “cogente” di un
referendum fattoin una fabbrica che sta producendo a pieno ritmo. Ma l’ipotesi
che questa sia un’operazione “politica”, fatta in qualche modo per mascherare
le difficoltà produttive e di mercato (cioè che contenga
un elemento di bluf), resta plausibile: anche perché, a Mirafiori
come negli altri stabilimenti, tra gli investimenti effettivamente decisi
e le mirabolanti cifre del “piano” continua ad esserci un abisso. Si ha
spesso l’impressione che Marchionne, da bravo “manager multinazionale”,
“giochi su più tavoli”, su ciascuno promettendo investimenti “a
certe condizioni”, ma che alla fine “i conti non torneranno”, soprattutto
se confrontati con ciò che la FIAT attualmente produce e vende sul
mercato.
Due postille
A queste schematiche considerazioni vanno aggiunte due postille, che
non sono marginali.
La prima. Ho ragionato applicando lo schema – giustamente criticato
nelle applicazioni che ne dà l’economia politica dominante – di
ceteris paribus, cioè prendendo la produzione e il mercato dell’auto
così come sono attualmente, e non affrontando le possibili ipotesi
di riconversione, come quelle adombrate da Guido Viale nei suoi articoli
(che non sono puri discorsi sulla “necessità di produzioni alternative”
ma cercano di offrire ipotesi concrete di riconversione partendo dalle
tecnologie e dalle competenze professionali presenti nell’industria dell’auto).
La seconda. Non ho affrontato direttamente il problema dell’urgente
necessità di un’azione sindacale internazionale, oggi posta drammaticamente
in luce nel rapporto tra stabilimenti italiani della FIAT e stabilimenti
polacchi e serbi. I sindacati firmatari dell’accordo di Pomigliano si illudono
di risolverlo “giocando al ribasso” in Italia: ma è paradossale
che la stessa FIOM non sembri sviluppare un impegno organizzativo in questa
direzione (quanto alla CES – alla Confederazione Europea dei Sindacati
–, che non ha saputo sviluppare all’origine un’azione contro il sistema
di dumping sociale interno all’Europa” propugnato dall’Unione Europea –
lasciamo perdere).
***
Dopo il referendum - diktat a Mirafiori
Come ormai tutti sapranno, il referendum a Mirafiori si è concluso
con il 54% di "sì" e il 46% di "no": un risultato che ha clamorosamente
smentito le speranze di "plebiscito" espresse dai suoi promotori e dai
sostenitori dell'accordo. Vedendo in termini disaggregati i risultati,
possiamo notare:
• hanno prevalso i "no" ai montaggi (l'officina più numerosa)
e in lastroferratura;
• hanno prevalso i "sì" in verniciatura, nel seggio del turno
di notte e in quello degli impiegati.
In proposito, vanno fatte alcune osservazioni:
• gli impiegati che sono stati chiamati al voto (e che hanno determinato
la vittoria del "sì")
non sono la massa degli impiegati Fiat, concentrati negli uffici centrali
amministrativi, commerciali e tecnici, ma gli "impiegati di officina",
cioè in larga misura capi intermedi, e inoltre impiegati amministrativi
e tecnici che lavorano in stretto contatto (e dipendenza) con loro; • il
turno di notte è composto da operai che fanno la "notte fissa" per
necessità economiche che gliela impongono al fine di ottenere quel
tanto di salario in più che il turno di notte determina; inoltre,
nel seggio del turno di notte, era presente quel piccolo numero di lavoratori
con qualifica impiegatizia che fa il turno di notte; quindi, la stessa
affermazione che il "sì" avrebbe prevalso, sia pure per soli 9 voti,
tra gli operai, è inesatta: tra gli operai ha vinto il "no".
La rilevanza di questo risultato si può vedere anche confrontandolo
con i risultati delle ultime elezioni per le RSU. Allora, le organizzazioni
che si sono opposte all'attuale accordo separato (cioè la FIOM e
i COBAS) ottennero circa il 30% dei voti; oggi il "no" è al 46%.
La differenza è ancora maggiore se espressa in cifre assolute: data
l'affluenza un po' minore alle votazioni per le RSU, i voti - tra FIOM
e COBAS - erano circa 1300; oggi i voti per il "no" sono 2325 - e in una
condizione molto più difficile, "sottoposta a ricatto". Di qui si
possono trarre due considerazioni:
• la prima è che l'area di potenziale opposizione alla politica
di Marchionne è molto più ampia della "incidenza elettorale"
di FIOM e COBAS; ancora di più se si pensa che, come risulta dalle
interviste ai lavoratori, fatte anche da TV e dai "giornali borghesi",
molti di quelli che hanno votato "sì" l'hanno fatto "per necessità"
e sono talvolta ancora più incazzati di quelli che hanno votato
"no";
• la seconda è una "considerazione autocritica": il confronto
tra i due risultati mostra che FIOM e COBAS non erano riuscite a intercettare
l'area di potenziale consenso alle "posizioni di classe" esistente in fabbrica;
segno probabilmente di una insufficiente presenza e iniziativa quotidiana
sulla condizione e nel luogo di lavoro.
La Fiat (e con lei i sindacati firmatari dell'accordo) hanno (sia pure
a denti stretti) "cantato vittoria", e la Fiat ha confermato i suoi "impegni"
(in cui è tutta da verificare la componente di "bluff"). Il PD -
che si era diviso tra espliciti sostenitori del "sì" e voci
critiche sull'accordo - trova oggi un denominatore comune sul fatto che
l'accordo è ormai approvato (e salutato con entusiasmo da alcuni
"oltranzisti" come Chiamparino e Fassino), ma che bisogna far rientrare
la FIOM nelle relazioni industriali alla Fiat.
E' chiaro che i risultati del referendum aprono alla FIOM e ai COBAS
nuovi e più impegnativi compiti e possibilità. Non sarà
però facile metterli in pratica, per diverse ragioni. Il primo terreno
su cui sarebbe necessario misurarsi è quello dell'impegno sulle
concrete condizioni di lavoro – rompendo i "limiti dittatoriali" imposti
dall'accordo. Questo impegno, tra l'altro, può sfruttare il fatto
che, fino all'avvio della "new company", i sindacati godono ancora degli
stessi diritti di prima. Ma questo "periodo di interregno" sarà
anche - in misura prevalente - un periodo di Cassa Integrazione. E' quindi
importante approntare forme di collegamento, informazione e organizzazione
che raggiungano anche i lavoratori in Cassa Integrazione.
Vi è un secondo terreno, più "istituzionale", che ha
due aspetti. Uno è quello dei ricorsi giuridici (a diversi livelli):
che vanno utilizzati tutti, ma i cui tempi sono lenti. L'altro è
quello delle regole della rappresentanza - su cui tra l'altro la FIM ha
fatto caute aperture: terreno importante, su cui bisogna muoversi, ma stando
attenti ad evitare insidiose contropartite che possono essere richieste
in proposito. Torneremo in modo più approfondito su tutti questi
problemi. Resta, intanto, il fatto che i lavoratori di Mirafiori hanno
espresso una capacità di resistenza e una coscienza di classe, che
non vanno deluse.