Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera. Con un saggio di Luciano Canfora, Carocci editore, 2008, pp. 382,  €  29.00

m. ro., "Cassandra", n. 26/2009

 

Questo libro non nega, né “riabilita” - come invece ha scritto, con toni esagitati, un gruppo di redattori del quotidiano Liberazione che osteggiano l’attuale maggioranza di Rifondazione comunista - gli errori e gli orrori che accompagnano la storia dell’Unione Sovietica dal 1922 (l’anno in cui Stalin diventa segretario del Partito) al 1953 (l’anno della sua morte), cioè nel trentennio dell’industrializzazione a tappe forzate, della drammatica collettivizzazione delle terre, dell’eroica resistenza all’aggressione e della vittoria sul nazismo, e insieme del dilatarsi dell’ “universo concentrazionario”, dei processi politici e della decimazione dei quadri comunisti, dell’annullamento della democrazia socialista, del “culto della personalità”.
Tuttavia, il metodo comparatistico  “a tutto campo” seguito da Losurdo non convince: svela l’ipocrisia insita nelle demonizzazioni unilaterali dell’URSS staliniana e dei suoi apparati statali che vengono  profuse anche a livello storiografico e l’ampia (e ampiamente documentata) esposizione dei crimini e dei genocidi perpetrati dalle potenze occidentali liberali e imperialiste nel corso del XIX° e del XX° secolo è certo efficace, inoppugnabile; però, come già è stato rilevato (si veda per es. la recensione di Antonio Moscato in R-Resistenze Ricerche Rivoluzioni, Marzo Aprile 2009), questo modo di argomentare basato sul tu quoque (“anche tu hai fatto quello che siamo stati costretti a fare noi, anzi hai fatto di peggio”) non porta lontano, perché finisce con il giustificare quasi tutto quanto è accaduto nell’ URSS durante il tempo “del ferro e del fuoco” che ha marcato il Novecento.
Anche le scelte più dure compiute da Stalin e dai dirigenti a lui fedeli furono nel complesso obbligate, causa l’arretratezza del paese, la situazione internazionale, l’accerchiamento da parte delle nazioni imperialiste e le ricorrenti minacce d’invasione,  per garantire la sopravvivenza dell’URSS: questa è la tesi di fondo proposta dal libro, che di fatto esclude la possibilità di opzioni diverse, di scelte alternative più consone ad una prospettiva socialista (in sostanza: la storia è feroce e, volenti o nolenti, anche alla ferocia bisogna adeguarsi, senza indulgere al fascino dell’“utopia astrat-ta”, per non essere spazzati via).
Losurdo, si è detto, non ignora le pagine nere dello stalinismo, ma scrive: “Non mancano coloro che leggono la storia del paese nato dalla Rivoluzione d’ottobre lamentando il progressivo ‘tradimento’ delle idee elaborate da Marx ed Engels; in realtà, sono per certi versi proprio queste idee ‘originarie’ (l’attesa messianica di una società senza più Stato e norme giuridiche, senza più confini nazionali e senza mercato e senza denaro, priva in ultima analisi di ogni reale conflitto) ad aver giocato un ruolo nefasto, ostacolando il passaggio ad una condizione di normalità e prolungando e acutizzando lo stato   di eccezione (pro-vocato dalla crisi dell’antico regime, dalla guerra e dalle successive aggressioni)” (p. 314).
Dunque, le degenerazioni nel (non del) sistema sovietico sarebbero derivate dal fatto che neppure Stalin e gli altri dirigenti del Partito riuscirono a liberarsi completamente dalle suggestioni e dai condizionamenti dell’ “estremismo rivoluzionario” che caratterizzò i primi anni dell’ URSS. La polemica condotta dall’A. nei confronti dell’“universalismo astratto”, dell’ “egualitarismo”, dell’ “antistatalismo” è continua, martellante (uno dei principali bersagli concreti, manco a dirlo, è Trockij) e c’è da chiedersi se - forse al di là delle intenzioni - non suggerisca l’ impraticabilità di un cambiamento reale (radicale) dell’attuale “stato delle cose”, relegandolo nei cieli dell’ “utopia”. Qui è il limite più grave e inquietante del libro.