m. ro., "Cassandra", n. 26/2009
Questo libro non nega, né “riabilita” - come invece ha scritto,
con toni esagitati, un gruppo di redattori del quotidiano Liberazione che
osteggiano l’attuale maggioranza di Rifondazione comunista - gli errori
e gli orrori che accompagnano la storia dell’Unione Sovietica dal 1922
(l’anno in cui Stalin diventa segretario del Partito) al 1953 (l’anno della
sua morte), cioè nel trentennio dell’industrializzazione a tappe
forzate, della drammatica collettivizzazione delle terre, dell’eroica resistenza
all’aggressione e della vittoria sul nazismo, e insieme del dilatarsi dell’
“universo concentrazionario”, dei processi politici e della decimazione
dei quadri comunisti, dell’annullamento della democrazia socialista, del
“culto della personalità”.
Tuttavia, il metodo comparatistico “a tutto campo” seguito da
Losurdo non convince: svela l’ipocrisia insita nelle demonizzazioni unilaterali
dell’URSS staliniana e dei suoi apparati statali che vengono profuse
anche a livello storiografico e l’ampia (e ampiamente documentata) esposizione
dei crimini e dei genocidi perpetrati dalle potenze occidentali liberali
e imperialiste nel corso del XIX° e del XX° secolo è certo
efficace, inoppugnabile; però, come già è stato rilevato
(si veda per es. la recensione di Antonio Moscato in R-Resistenze Ricerche
Rivoluzioni, Marzo Aprile 2009), questo modo di argomentare basato sul
tu quoque (“anche tu hai fatto quello che siamo stati costretti a fare
noi, anzi hai fatto di peggio”) non porta lontano, perché finisce
con il giustificare quasi tutto quanto è accaduto nell’ URSS durante
il tempo “del ferro e del fuoco” che ha marcato il Novecento.
Anche le scelte più dure compiute da Stalin e dai dirigenti
a lui fedeli furono nel complesso obbligate, causa l’arretratezza del paese,
la situazione internazionale, l’accerchiamento da parte delle nazioni imperialiste
e le ricorrenti minacce d’invasione, per garantire la sopravvivenza
dell’URSS: questa è la tesi di fondo proposta dal libro, che di
fatto esclude la possibilità di opzioni diverse, di scelte alternative
più consone ad una prospettiva socialista (in sostanza: la storia
è feroce e, volenti o nolenti, anche alla ferocia bisogna adeguarsi,
senza indulgere al fascino dell’“utopia astrat-ta”, per non essere spazzati
via).
Losurdo, si è detto, non ignora le pagine nere dello stalinismo,
ma scrive: “Non mancano coloro che leggono la storia del paese nato dalla
Rivoluzione d’ottobre lamentando il progressivo ‘tradimento’ delle idee
elaborate da Marx ed Engels; in realtà, sono per certi versi proprio
queste idee ‘originarie’ (l’attesa messianica di una società senza
più Stato e norme giuridiche, senza più confini nazionali
e senza mercato e senza denaro, priva in ultima analisi di ogni reale conflitto)
ad aver giocato un ruolo nefasto, ostacolando il passaggio ad una condizione
di normalità e prolungando e acutizzando lo stato di
eccezione (pro-vocato dalla crisi dell’antico regime, dalla guerra e dalle
successive aggressioni)” (p. 314).
Dunque, le degenerazioni nel (non del) sistema sovietico sarebbero
derivate dal fatto che neppure Stalin e gli altri dirigenti del Partito
riuscirono a liberarsi completamente dalle suggestioni e dai condizionamenti
dell’ “estremismo rivoluzionario” che caratterizzò i primi anni
dell’ URSS. La polemica condotta dall’A. nei confronti dell’“universalismo
astratto”, dell’ “egualitarismo”, dell’ “antistatalismo” è continua,
martellante (uno dei principali bersagli concreti, manco a dirlo, è
Trockij) e c’è da chiedersi se - forse al di là delle intenzioni
- non suggerisca l’ impraticabilità di un cambiamento reale (radicale)
dell’attuale “stato delle cose”, relegandolo nei cieli dell’ “utopia”.
Qui è il limite più grave e inquietante del libro.