di Lorenzo Procopio, "Prometeo", N. 3, giugno 2001
Con il solito scarno comunicato, lo scorso mese di maggio, la Federal
Reserve, la banca centrale statunitense, ha annunciato la quinta riduzione
dall’inizio dell’anno del tasso di sconto. L’ennesimo intervento della
banca centrale è l’ulteriore dimostrazione che l’economia statunitense
è entrata nella più pesante recessione di questo secondo
dopoguerra e solo i più incalliti ed ottusi difensori del capitale
si ostinano ad indicare gli Stati Uniti come il modello da seguire per
garantire al proprio paese un radioso sviluppo economico. Dopo aver vissuto
il più lungo periodo d’espansione economica la locomotiva americana,
che per anni ha trainato l’intera economia mondiale, è quasi ferma,
e il suo rallentamento non può che produrre disastri anche
negli angoli più disparati del pianeta. La frenata dell’economia
statunitense, peraltro ampiamente prevista dagli economisti borghesi più
illuminati, sta assumendo delle dimensioni tali da tenere con il fiato
sospeso gli operatori di tutto il mondo. Il quasi dimezzamento dei tassi
d’interessi statunitensi evidenzia come le difficoltà dell’economia
americana siano ben più gravi di quanto la classe dirigente tende
a far credere.
Per comprendere in pieno la gravità della recessione in atto
nell’economia americana e nello stesso tempo cogliere gli elementi di novità
di questa crisi, è fondamentale saper valutare le modificazioni
intervenute negli ultimi vent’anni nell’economia statunitense e nelle forme
del dominio imperialistico. Già in passato avevamo avuto modo di
sottolineare come il decennale boom dell’economia statunitense fosse il
prodotto quasi esclusivo dell’azione combinata della finanza e del ruolo
giocato dal dollaro nell’ambito del sistema monetario internazionale [i].
Infatti, a differenza del grande boom economico degli anni cinquanta/sessanta,
durante il quale gli Stati Uniti non temevano alcuna concorrenza sui mercati
internazionali e rappresentavano il più grande creditore del mondo,
negli ultimi dieci anni la crescita americana si è accompagnata
ad un costante aumento del deficit commerciale e della bilancia dei pagamenti.
In altri termini, durante questi anni la crescita dell’economia americana
è stata sostenuta grazie alle importazioni dall’estero, che hanno
determinato nel solo duemila l’astronomico passivo della bilancia commerciale
di 421 miliardi di dollari, una cifra che rappresenta il 4% del prodotto
interno lordo statunitense. Qualsiasi altro paese di fronte ad un tale
passivo avrebbe subito una svalutazione della propria moneta di dimensioni
catastrofiche. Infatti, in presenza di un passivo della bilancia commerciale
la moneta di qualsiasi paese tenderebbe a svalutarsi per far recuperare
a tale paese competitività sui mercati internazionali. Ora, gli
Stati Uniti vivono una situazione particolare in quanto pur essendo diventati
il paese più indebitato del mondo godono del privilegio di avere
una moneta, il dollaro, che è la moneta più utilizzata nei
mercati mondiali. Il fatto che il dollaro sia utilizzato come moneta di
riserva da parte di tutte le altre banche centrali del mondo, e abbia quasi
l’esclusiva negli scambi commerciali internazionali, in primo luogo nel
mercato del petrolio, attribuisce un indubbio vantaggio agli Stati Uniti.
Infatti, grazie a tale situazione non solo ottengono delle merci dando
in cambio carta, ma possono esercitare il loro dominio imperialistico appropriandosi
di gran parte della rendita finanziaria estorta su scala internazionale.
Si calcola che gli Stati Uniti traggono dal ruolo dominante del dollaro
dei vantaggi in termini economici quantificabili in circa 500 miliardi
di dollari all’anno.
L’esplosione del deficit commerciale si è accompagnato in questi
ultimi dieci anni ad un afflusso negli Stati Uniti di ingenti masse di
capitali provenienti da ogni angolo del pianeta, attratti sia dagli elevati
tassi d’interessi presenti sul mercato statunitense rispetto alle altre
centrali dell’imperialismo sia dal costante aumento del dollaro rispetto
alle altre monete. La rivalutazione del dollaro negli ultimi anni ha permesso
al capitalismo statunitense di alimentare l’afflusso di capitali e merci
dall’estero. La massa di capitali è servita per sottoscrivere i
titoli del debito pubblico e soprattutto per alimentare la crescita di
Wall Street. Grazie all’afflusso di capitali dall’estero gli indici della
borsa di New York sono cresciuti nel decennio 1990/2000 a ritmi sbalorditivi.
Il tasso di crescita delle quotazioni in borsa è passato dall’81%
nel 1994 al 184% nel corso del 1999, superando dell’84% lo stesso prodotto
interno lordo statunitense. La crescita delle quotazioni borsistiche ha
giocato un ruolo fondamentale nel boom economico degli anni novanta. Ridistribuendo
plusvalenze a milioni di americani ha alimentato la domanda interna, fino
al punto che l’intero sistema economico americano si è autoalimentato
grazie alle rendite provenienti dalle attività di borsa.
Durante lo scorso decennio gli Stati Uniti hanno trainato l’economia
mondiale tramite una domanda interna alimentata da queste plusvalenze
e soprattutto grazie al crescente indebitamento pubblico, delle imprese
e delle famiglie. Milioni di statunitensi per molto tempo hanno contratto
dei debiti con le banche per investire in borsa. La crescita delle azioni
legate al mondo di Internet, aveva fatto diffondere l’idea che le quotazioni
delle azioni dell’indice Nasdaq potessero crescere all’infinito; in tal
modo era molto più conveniente contrarre debiti per investire in
borsa in quanto con un piccolo investimento di mille dollari a fine anno
si potevano ottenere dei guadagni anche del 500%, sufficienti a restituire
il debito contratto e nello stesso tempo ad alimentare i consumi.
Il sogno dell’arricchimento facile, frutto di un semplice ordine d’acquisto
o di vendita di azioni fatto dal computer di casa, è svanito la
scorsa primavera con l’inizio del crollo degli indici di tutte le borse
mondiali. I titoli tecnologici, che in precedenza avevano guidato l’ascesa
delle quotazioni, si sono deprezzati con la stessa rapidità con
la quale erano in precedenza cresciuti. Il Nasdaq, l’indice dove vengono
quotate le azioni tecnologiche, ha perso più del 50% dai livelli
massimi registrati nel marzo del 2000. Dopo aver superato i cinquemila
punti nei primi mesi dell’anno 2000, lo scorso mese di aprile il Nasdaq
è sceso sotto la quota di 1800 punti, scatenando il panico tra gli
operatori finanziari e nello stesso tempo spingendo Greenspan ad abbassare
ulteriormente il tasso di sconto. La caduta del Nasdaq ha trascinato al
ribasso tutte le altre piazze finanziarie del pianeta; l’equivalente del
Nasdaq britannico, il Techmark è crollato del 57%, mentre il Nemax
tedesco addirittura del 67%.
Il crollo dei valori delle azioni non rappresenta una semplice correzione
rispetto agli eccessi di dieci anni di continui rialzi ma è la conseguenza
del rallentamento dell’economia reale. I settori legati al mondo delle
alte tecnologie e alla rete telematica hanno visto le loro vendite e i
loro profitti crollare sotto i colpi di una situazione economica internazionale
sempre più difficile. Per la loro particolare struttura economica,
basata più che ogni altro paese sulle attività finanziarie,
gli Stati Uniti rischiano di subire delle conseguenze drammatiche dal crollo
della borsa, trascinando nel vortice della crisi l’intero sistema finanziario.
Come abbiamo più volte sottolineato il boom americano e la rivalutazione
del dollaro rispetto alle altre monete si sono fondati in questi ultimi
anni più che su un reale sviluppo dell’economia e una crescita della
produttività, sull’indebitamento di tutti i soggetti economici.
E’ evidente che uno sviluppo basato sul progressivo indebitamento non può
durare oltre certi limiti perché prima o poi i debiti devono essere
pagati oppure si dichiara fallimento.
Gli Stati Uniti si trovano in una situazione prossima allo stato d’insolvenza
e bastano pochi dati per descrivere le dimensioni del fenomeno. Secondo
la Federal Reserve l’ammontare dei debiti non rimborsabili è passato
da oltre mille miliardi dollari nel 1964 a quasi 26 mila miliardi di dollari
nel 1999, con una crescita media annuale del 10%. Per capire la crescita
della voragine occorre rammentare che durante lo stesso periodo il prodotto
interno lordo è cresciuto ad un tasso di gran lunga inferiore con
la conseguenza che per rimborsare questa massa enorme di debiti arretrati
ci vorrebbe una cifra pari a tre volte il Pil attuale.
La situazione debitoria delle imprese non è certamente più
rosea. Il loro indebitamento, che è servito in massima parte per
finanziare i processi di concentrazione nei più disparati settori
dell’economia, ha superato i settemila miliardi di dollari nel corso del
1999. Nel solo settore bancario negli ultimi 20 anni ci sono state ben
8000 fusioni ed acquisizioni che hanno di fatto trasformato l’intero settore.
La sbornia finanziaria degli ultimi anni ha contribuito ad innalzare a
livelli parossistici anche l’indebitamento delle famiglie. I prestiti contratti
dalle famiglie rappresentano il 34% del reddito individuale; il tasso
di risparmio, che era dell’8% nei primi anni Novanta, è diventato
negativo nel corso del 1999. Infatti, le famiglie americane prendono a
prestito più di quanto risparmino. Nel primo trimestre del 2001
sono state dichiarate ben 367 mila bancarotte, imprese, ma soprattutto
famiglie e singole persone, con un aumento del 20% rispetto allo stesso
periodo dell’anno scorso. Se il trend dovesse essere confermato, e i presupposti
esistono tutti visto l’aumento dei debiti, entro la fine dell’anno dovrebbero
esserci quasi un milione e mezzo di dichiarazioni di fallimento. A conferma
della gravità della situazione, il vice presidente dell’American
bankruptcy istitute, il più rappresentativo organismo che studia
le dinamiche dell’indebitamento americano, ha di recente dichiarato: “non
ci eravamo mai così indebitati. Stiamo pagando dieci anni di bagordi.
La grande cavalcata economica ha indotto molta gente a vivere al di sopra
delle sue possibilità. Se non ci sarà ripresa nel prossimo
trimestre ne vedremo delle belle” [ii].
Il costante aumento dell’indebitamento dell’economia statunitense impone
alla borghesia americana di mantenere alto il valore del dollaro per mantenere
costante l’afflusso di capitali dall’estero. Un dollaro alto rappresenta
per gli Stati Uniti una garanzia che il resto del mondo investa sul proprio
mercato i capitali necessari per finanziare il debito. Per evitare che
l’economia statunitense si pieghi su se stessa necessita di continue iniezioni
di capitali esteri per un ammontare annuo di 400/500 miliardi di dollari.
La stessa Federal Riserve, in un suo recente rapporto sullo stato dell’economia
ha dichiarato espressamente che uno dei motori dei processi d’accumulazione
dell’economia americana è rappresentato dal differenziale dei tassi
d’interessi presenti tra il mercato americano e quello dell’area dell’euro.
La fortissima pressione praticata dalla banca centrale statunitense nei
confronti della Bce affinché quest’ultima abbassasse i propri tassi
d’interessi deriva dalla necessità di mantenere costante tale differenziale
nonostante i consecutivi 5 tagli praticati dalla Federal Riserve, infatti
diventa ogni giorno sempre più difficile reperire i capitali necessari
a finanziare il debito. La, recessione, da un lato, spinge le autorità
ad abbassare i tassi d’interessi, dall’altro,tale riduzione allontana i
capitali dal mercato statunitense. Solo grazie alla loro potenza imperialistica
e del suo strumento economico principale, il dollaro, gli Stati Uniti riescono
ancora oggi a sopperire a questa palese contraddizione e a reperire i capitali
dall’estero. Attualmente gli Stati Uniti si accaparrano l’80% del risparmio
mondiale nonostante il peso della sua economia rappresenti “solo” il 30%
del prodotto interno lordo dell’intero pianeta. Come un grande buco nero,
il sistema finanziario statunitense, grazie al dollaro e alla sua potenza
imperialistica, attrae nella sua orbita quasi l’intero risparmio del pianeta,
senza dare alcune garanzie ai creditori finanziari, ma solo carta da utilizzare
negli scambi commerciali e finanziari internazionali. Così come
il precedente boom economico è avvenuto grazie all’indebitamento
dell’intero sistema, l’attuale recessione, dunque, potrebbe innescare una
fuga senza ritorno dal dollaro e da Wall Street tale da determinare un
crollo dell’intero sistema finanziario internazionale. Ma proprio perché
questo rischio esiste, è evidente che gli Stati Uniti non possono
stare con le mani in mano a subire supinamente il destino. e pur di perpetuare
il proprio dominio sul mondo non esiteranno a scatenare l’inferno anche
negli angoli più disparati del mondo. Le avvisaglie ci sono già.