1. Dai profitti industriali alle rendite da monopolio
“Dalla metà degli anni novanta è iniziato un declino della
competitività che ha riportato la partecipazione italiana agli scambi
mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni sessanta... La
perdita è diffusa in tutti i mercati... È scarsa la presenza
delle nostre merci nei settori tecnologicamente avanzati... L’aumento degli
acquisti dall’estero per soddisfare una porzione crescente della domanda
interna di prodotti finiti e di beni intermedi ha nettamente superato quello
delle esportazioni”. Lo ha detto Antonio Fazio all’assemblea della Banca
d’Italia del 31 maggio scorso, mandando su tutte le furie il presidente
della Confindustria D’Amato. La verità, però, è ancora
peggiore, e comincia ormai ad aver corso anche su quotidiani e periodici
a larga diffusione. “Nell’ultimo decennio del secolo Ventesimo l’Italia
ha perso la sua grande industria manifatturiera”(1). “Se si guarda alla
mappa del capitalismo italiano si fa una curiosa scoperta. Dopo il tramonto
di Fiat Auto gli unici grandi gruppi rimasti in piedi sono quelli ex-monopolistici
pubblici e di fatto ancora sotto controllo pubblico: Eni e Enel. Anche
l’ultimo grande gruppo privato rimasto, Tronchetti-Telecom, nasce in realtà
come monopolio pubblico. Ci tocca celebrare la scomparsa della grande industria
italiana”.(2)
Fermiamoci sull’ultima citazione. Significa che dobbiamo dire addio
alle grandi famiglie, ai grandi nomi del capitalismo italiano? Assolutamente
no: praticamente nessuno dei vecchi capitalisti industriali è scomparso.
Hanno soltanto cambiato mestiere: adesso riscuotono le nostre bollette.
Negli anni Novanta le grandi famiglie del capitalismo italiano hanno abbandonato
la nave del settore manifatturiero, l’hanno lasciata colare a picco e si
sono imbarcate sulla scialuppa di salvataggio offerta dalle società
pubbliche in via di privatizzazione. Per avere conferma di questo basta
scorrere l’elenco degli azionisti di controllo delle principali società
di fornitura di servizi pubblici (le cosiddette “utilities”) privatizzate.
Oltretutto, talvolta la coincidenza tra il momento del passaggio ai servizi
pubblici e la crisi nei settori di origine è addirittura impressionante.
Così, la Fiat si lancia nell’avventura di Montedison al peggiorare
della situazione nel settore auto.(3) Pirelli si compra Telecom quando
arrivano i primi segnali della crisi nei suoi comparti tradizionali, ed
in particolare nel settore cavi e sistemi di telecomunicazione, poi destinata
ad aggravarsi drasticamente.(4) Infine, Benetton nei primi mesi del 2003
lancia una offerta pubblica di acquisto in borsa sulle azioni di Autostrade;
negli stessi giorni escono i dati del suo conto economico 2002, che evidenziano
la contrazione di tutte le voci principali.(5) Sul manifesto c’è
chi osserva che “fa un po’ pena vedere la famiglia più innovativa
d’Italia abbandonare i colors per indossare il grigio abito dell’esattore
al casello autostradale”. Ma forse non è il caso di commuoversi
troppo: infatti il rendimento sul capitale investito nelle magliette è
(quando va bene) del 7%, quello dei pedaggi autostradali arriva al 18%.(6)
Questo dato chiarisce molto bene il motivo della passione generalizzata
degli ex capitalisti industriali del nostro Paese per le utilities in via
di privatizzazione: queste società rappresentano una fonte di profitti
certa, che può godere di una rendita di monopolio (o, nel peggiore
dei casi, oligopolistica); si tratta tra l’altro di una fonte di profitti
sottratta non soltanto alle fasi alterne del ciclo economico (le bollette
si pagano sempre), ma anche alla concorrenza internazionale. La famiglia
Benetton, insomma, non ha di che lamentarsi. Noi invece sì: perché
un’economia il cui settore manifatturiero dà forfait non ha futuro.
Si potrebbe obiettare che tra le molte privatizzazioni effettuate negli
anni Novanta non poche riguardavano aziende industriali (spesso a suo tempo
acquisite dallo stato perché i loro proprietari le avevano condotte
sull’orlo del fallimento): si tratta di circa un terzo delle società
vendute, e per lo più di grandi imprese. Che fine hanno fatto? Se
le sono comprate grandi gruppi multinazionali, traendone notevoli vantaggi
in termini strategici. Ecco come sono andate le cose: “Krupp ha comprato
la Acciai Speciali Terni diventando il primo produttore mondiale di laminati
piani in acciaio inossidabile. La Nestlé con Italgel è entrata
nel settore dei surgelati, con Motta, Alemagna e Antica Gelateria del Corso
nei gelati, completando la sua gamma di prodotti. La Pilkington, con la
Siv, ha raddoppiato la sua quota in Europa nei vetri per autoveicoli raggiungendo
con il 36% la Saint Gobain. Prendendo l’Alcantara dall’ENI, il gruppo giapponese
Toray ha raggiunto il 50% della produzione mondiale di tessuti tipo suede
a base di ultramicrofibre. Con la Inca, la Dow Chemical è entrata
in un mercato dal quale era assente: i granuli di Pet per bottiglie di
acque minerali. La General Electric ha preso la Nuovo Pignone che, con
una quota del 25%, rappresenta il maggior produttore mondiale nei compressori
per impianti petroliferi. Una delle vendite più dolorose per l’industria
italiana italiana è stata la Elsag Baily finita alla Abb, colosso
svizzero-svedese, leader mondiale nei flussometri e tra i primi nell’automazione
industriale”.(7) Citando questo elenco, due dati balzano subito agli occhi:
in primo luogo, non abbiamo a che fare con aziende “decotte” né
a basso contenuto tecnologico; in secondo luogo, queste acquisizioni, a
differenza della quasi totalità di quelle effettuate dai capitalisti
di casa nostra, sono funzionali ad un ulteriore sviluppo nel settore manifatturiero
delle multinazionali acquirenti.
Le privatizzazioni italiane, insomma, sono state un Giano bifronte:
da una parte la privatizzazione delle utilities, che ha offerto alle principali
dinastie imprenditoriali nostrane una comoda e redditizia via di fuga dal
settore manifatturiero; dall’altra, quella delle imprese industriali, che
ha consentito il controllo di una buona fetta dell'apparato industriale
del nostro paese da parte di imprese multinazionali.
2. L’ideologia delle privatizzazioni: l’“efficienza del privato”
Questi gli effetti delle privatizzazioni. I motivi addotti a suo tempo
per privatizzare, ovviamente, non erano questi. Ci dissero allora (Rita
Martufi e Luciano Vasapollo lo ricordano nel loro bel libro su questi argomenti)
che le privatizzazioni non erano soltanto una dura necessità, una
via obbligata per “fare cassa” e pagarsi il biglietto per entrare nel club
dell’euro, ma avrebbero consentito di modernizzare il nostro Paese.(8)
In che modo? In tre modi: 1) ridimensionando la presenza pubblica nell’economia
(eliminando lo “Stato imprenditore”), 2) rafforzando il mercato finanziario
italiano, e – soprattutto – 3) restituendo efficienza alle imprese privatizzate.
In particolare su quest’ultimo punto la vittoria del fronte pro-privatizzazione
è stata totale, anche a sinistra: la tesi secondo cui l’impresa
pubblica sarebbe per definizione (e non, poniamo, a causa delle ruberie
di DC e PSI) inefficiente rispetto all’impresa privata è diventata
senso comune. Peccato che sia falsa. Tanto per cominciare, come è
stato ricordato in un utile saggio su questi argomenti, “le numerose ricerche
condotte per misurare l’efficienza relativa impresa pubblica-impresa privata
fino ad ora non hanno dato risposte univoche”: in altri termini, non esiste
alcuna dimostrazione della superiorità, in termini di efficienza,
dell’impresa privata sull’impresa pubblica. Non solo: “ciò che è
ritenuto espressione di inefficienza delle imprese pubbliche, ... spesso
altro non è che la conseguenza di una funzione obiettiva stabilita
dal soggetto politico che non considera prioritaria l’efficienza”. In altri
termini: “le imprese pubbliche sono in grado di essere efficienti; possono
tuttavia essere chiamate dal referente politico a perseguire obiettivi
generali, quali ad esempio redistribuzione del reddito, salvaguardia dell’occupazione,
sostegno della produzione nazionale e/o alle aree depresse, soddisfacimento
di particolari interessi.” Insomma, non c’è una “intrinseca incapacità
ad essere efficienti” delle imprese pubbliche.
Dal punto di vista dell’efficienza(9) “il contesto concorrenziale in
cui opera l’impresa è più importante dell’assetto proprietario:
è la presenza di concorrenti che costringe l’operatore pubblico
o privato ad adottare comportamenti efficienti, pena l’emarginazione dal
mercato”.(10) E, viceversa, è il possesso di una rendita monopolistica
che rende inefficiente un’impresa. Questo punto è importante, perché
le imprese di stato che forniscono servizi pubblici sono state privatizzate,
ma in genere i loro mercati non sono stati liberalizzati. Ora, quando si
privatizza senza liberalizzare, non si fa che sostituire ai monopolisti
pubblici monopolisti privati.(11) Con l’aggravante che in questo secondo
caso l’assetto proprietario impedisce che lo Stato possa adottare misure,
quali la fissazione di tetti ai prezzi, per contenere lo sfruttamento della
rendita di monopolio. Come ben sanno i lavoratori, il cui potere d’acquisto
negli ultimi anni è stato eroso in misura significativa anche dall’aumento
dei prezzi dei servizi pubblici.
Infine, non va dimenticato che nella storia italiana degli ultimi anni
non ci sono soltanto monopoli rimasti tali, ma anche concentrazioni create
a seguito delle privatizzazioni. A questo proposito una ricerca prodotta
da Mediobanca e presentata al Parlamento nell’ottobre 2000 ha potuto concludere
che “gli effetti sull’industria delle privatizzazioni hanno comportato
in generale un aumento della concentrazione, e quindi – in via di principio
– una riduzione della concorrenza”.(12)
3. ...e la “nuova democrazia economica” dei piccoli investitori
Se quanto all’”efficienza” la situazione non appare particolarmente
allegra, non diversamente vanno le cose per quanto riguarda un altro obiettivo
delle privatizzazioni: la creazione di un mercato finanziario sviluppato,
in linea con gli altri principali Paesi europei. Questo obiettivo si componeva,
a sua volta, di due obiettivi-condizioni. 1) la diffusione dell’investimento
azionario a livello di massa, presentato come un fattore di “democrazia
economica”; 2) la quotazione in borsa di un numero maggiore di imprese
private. Le privatizzazioni avrebbero potuto contribuire a raggiungere
tali obiettivi in questo modo: le società privatizzate sarebbero
state quotate in borsa, facendone delle public companies (aziende ad azionariato
molto frammentato) ed invogliando i risparmiatori ad acquisirne delle quote.
Così la quantità dei titoli trattati alla borsa di Milano
sarebbe cresciuta, lo spessore del mercato sarebbe aumentato, e questo
avrebbe indotto alla quotazione molti proprietari di imprese non quotate.
Questa operazione è riuscita solo a metà: la prima metà.
Infatti è vero che molti risparmiatori hanno partecipato alle privatizzazioni.
Ma i capitalisti italiani, salvo pochissime eccezioni, si sono ben guardati
dal portare le proprie imprese in borsa.(13) In compenso, hanno acquisito
quelle privatizzate assumendone il controllo. In questo modo, “la maggior
parte delle principali società privatizzate ad azionariato diffuso
sono state oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in alcuni
casi al loro delisting [uscita dal listino di Borsa] o alla determinazione
di un assetto di controllo fortemente concentrato”.(14) Altro che public
company!
In effetti, non solo la concentrazione proprietaria delle principali
società quotate italiane è rimasta molto maggiore della media
europea, ma negli ultimi anni è cresciuta la concentrazione attraverso
le “scatole cinesi”, un meccanismo che consente agli azionisti più
importanti di una determinata società di controllare un quota del
capitale assai maggiore di quella effettivamente detenuta. E quindi consente
la concentrazione del controllo senza che ci sia la concentrazione della
proprietà.(15)
In questo contesto, quale ruolo giocano i risparmiatori, i piccoli
investitori che dovrebbero costituire il pilastro della nuova democrazia
economica? Quello di mettere i soldi nella società e di rendere
possibile agli azionisti principali di controllarla senza doverla possedere.
È, insomma, ancora vero quanto denunciava già Lenin: “La
‘democratizzazione’ del possesso di azioni, dalla quale i sofisti borghesi
e gli opportunisti ‘pseudosocialdemocratici’ si ripromettono (o fingono
di ripromettersi) la ‘democratizzazione del capitale’, l’aumento di importanza
e di funzione della piccola produzione, ecc., nella realtà costituisce
un mezzo per accrescere la potenza dell’oligarchia finanziaria”.(16)
4. Un bilancio per dire “no”
Volendo tracciare un bilancio delle privatizzazioni italiane, si può
dire che tra i suoi obiettivi dichiarati siano stati conseguiti soltanto
quello di “far cassa” (sono state vendute proprietà per un valore
di 220.000 miliardi di lire) e quello di ridimensionare la presenza statale
nell’economia: di fatto è stata eliminata l’”economista mista” che
aveva caratterizzato l’Italia dagli anni Sessanta in poi. È assai
difficile sostenere che i lavoratori, ma più in generale il sistema
economico del nostro Paese, abbiano tratto giovamento da tutto questo.
Per quanto riguarda più in particolare il settore manifatturiero,
siamo di fronte ad una crisi senza precedenti. E questa crisi non è
avvenuta nonostante le privatizzazioni, ma a causa anche di esse. Lo ha
ammesso anche un editorialista del Sole come Giangiacomo Nardozzi: “la
grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte
delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire
lo slancio competitivo di importanti pezzi dell’industria, offrendo occasioni
di più facili profitti”.(17)
Nel frattempo, la dismissione delle proprietà pubbliche ha privato
lo Stato di un’importante leva di politica industriale, le tariffe dei
servizi pubblici sono aumentate, le condizioni dei lavoratori sono peggiorate,
e la “democrazia economica” dei piccoli speculatori di borsa si è
rivelata per quello che era – ossia una trappola per allocchi. Prendere
consapevolezza di tutto questo è importante, alla vigilia della
seconda (ed ultima) tornata di privatizzazioni, quella che investirà
in particolare i servizi pubblici locali. È importante per opporsi
con efficacia a questa politica ed alle mistificazioni ideologiche che
la sorreggono.
Note:
1 M. Mucchetti, Licenziare i padroni?, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 160.
2 G. Turani, “Grande industria addio, in Italia si chiude un’era”, la Repubblica, 6 ottobre 2002.
3 Montedison (oggi Edison) non è una società privatizzata, ma vede crescere i suoi spazi potenziali di mercato in occasione del riordino oligopolistico del mercato dell’energia successivo alla parziale privatizzazione dell’Enel.
4 Il 2002 si è chiuso per la Pirelli & C. con una perdita netta di 58,4 milioni di euro e con un giro d’affari in calo del 13,2% (fonte: il Sole 24 ore, 7/5/2003).
5 Fatturato: -5%; risultato operativo: -15%; e, dulcis in fundo, perdita netta di 9,8 milioni di euro (contro l’attivo di 148 milioni del 2001).
6 Galapagos, “United colors of rendita”, il manifesto, 23/2/2003. “C’erano una volta gli united colors of Benetton”, Il Riformista, 8/2/2003.
7 S. Cingolani, “I boiardi son spariti, dove sono i capitalisti?”, Il Riformista, 17/5/2003.
8 R. Martufi, L.Vasapollo, Vizi privati... senza pubbliche virtù. Lo stato delle privatizzazioni e il Reddito Sociale Minimo, Napoli, Mediaprint, 2003, p. 82.
9 G. Bognetti, Il processo di privatizzazione nell’attuale contesto internazionale, “Working Paper” n. 23.2001 (dicembre 2001), Dipartimento Economia Politica e Aziendale, Università degli Studi di Milano, pp. 4-5.
10 G. Bognetti, cit.
11 Va aggiunto che in qualche caso le liberalizzazioni non sono attuabili. Basti pensare ai servizi pubblici a rete, che agiscono in condizioni di monopolio naturale: qui sono le caratteristiche del mercato di riferimento a rendere necessaria l’esistenza di un monopolio. In casi come questi una eventuale liberalizzazione potrebbe infatti avere effetti disastrosi, creando società non in grado di sostenersi economicamente.
12 Le privatizzazioni in Italia dal 1992, a cura della R & S, ottobre 2000, p. 14. Si noti lo stupendo eufemismo rappresentato dalla locuzione “in via di principio”.
13 Le imprese quotate sono infatti diminuite negli ultimi anni: erano 276 alla fine del 2001, oggi sono 265 (A. Fazio, Considerazioni finali, 31 maggio 2003, p. 31).
14 Consob, Relazione per l’anno 2002, p. 3. Il delisting è un caso da manuale di centralizzazione dei capitali.
15 Il sistema delle “scatole cinesi” (o del “controllo a cascata”) è utilizzato da Agnelli, Barilla, Benetton, De Benedetti, Gavazzi, Orlando, Pesenti, Pininfarina, Tronchetti Provera (vedi R. Amoruso, “In quelle casseforti c’è il 30% di borsa”, MF, 1/2/2003). In questo modo, rileva Mucchetti, “la famiglia Agnelli governa su un impero che vale cento rischiando di tasca propria, in proporzione, non più di dodici”, e “Tronchetti decide come vuole in Pirelli avendovi impegnato una quota reale pari a un misero 3,6 per cento del totale”, e – per quanto riguarda Telecom Italia – con un investimento appena dello “0,018 [sic!] per cento del totale” (op.cit., pp. 52 e 100).
16 V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916-7; tr.it. in Scritti economici, a cura di U. Cerroni, Roma, 1977, p. 535.
17 G. Nardozzi, il Sole 24 Ore, 20/10/2002.