di Renato Strumia, "Umanità Nova", N. 18, 23 maggio 2004
Nella seconda settimana di maggio il governo ha deciso all'improvviso
di accellerare sulle pensioni. Al Senato è stata posta la fiducia
sulla delega-previdenza, dopo che per ben 15 mesi il testo licenziato dalla
Camera (ben diverso dall'attuale) era stato ibernato in attesa di sviluppi
da una trattativa con le parti sociali che non è mai decollata.
In questi mesi Maroni ha apportato significativi cambiamenti al testo originale,
tali da stravolgere il progetto di legge del governo, e rivelatori della
crescente debolezza dell'esecutivo nel trovare mediazioni interne e costruire
un fronte compatto in vista dell'inevitabile scontro sociale. In realtà
è cambiato il carattere costitutivo della riforma: eliminata la
decontribuzione per i neo assunti e dilazionata l'entrata in vigore delle
nuove norme, il nuovo testo si inserisce perfettamente nel solco della
continuità, proseguendo il lento e graduale smantellamento della
previdenza pubblica cominciato da Amato nel 1992 e proseguito ininterrotto
con Dini e Prodi sotto le bandiere progressiste del Centro-sinistra.
Il lavoro va avanti, insomma. Vediamo con quali nuove genialate ci
troveremo a confrontarci nei prossimi mesi.
Il testo licenziato dal Senato lascia immutata la situazione fino al
31.12.2007, ad eccezione del fatto che chi matura il diritto alla pensione,
da oggi fino a quella data, potrà continuare a lavorare incassando
totalmente, esentasse, il 32,7% dei contributi precedentemente versati
dal datore di lavoro all'ente di previdenza. In sostanza l'azienda non
paga più l'Inps ma mette questa cifra in busta paga, al netto, al
suo instancabile dipendente. L'effetto immediato di questa norma è
incerto: le aziende non vedono l'ora di liberarsi dei dipendenti più
anziani e costosi e negli ultimi anni l'effetto annuncio della riforma
pensioni ha fortemente accelerato l'uscita di tutti coloro in prossimità
di una "finestra". È probabile che l'effetto di "trattenuta" al
lavoro sia nel suo complesso trascurabile: le aziende preferiscono riassumere
con contratti di consulenza le risorse umane "strategiche" e cacciare con
vari metodi "convincenti" le persone in esubero.
Dal 1.1.2008 invece le cose cambieranno in misura più pesante:
fermo restando i 40 anni di contributi per il diritto alla pensione e le
attuali età anagrafiche per le pensioni di vecchiaia (65 anni uomini,
60 anni donne), subiranno un drastico peggioramento i requisiti per la
pensione d'anzianità. Dal 2008 occorrerà infatti avere 60
anni (61 per gli autonomi) e 35 anni di contributi per poter smettere di
lavorare, che diventeranno 61 anni (62 per gli autonomi) nel 2010 e probabilmente,
dopo una verifica nel 2013, 62 anni (63 per gli autonomi). Resteranno escluse
dalla riforma le donne, che potranno continuare ad andare in pensione a
57 anni d'età e 35 anni di lavoro, ma con una pesante penalizzazione
economica, in quanto dovranno necessariamente optare per il sistema contributivo.
Restano altresì esclusi, oltre ai lavoratori "precoci" ed i
10.000 lavoratori in mobilità in ragione di accordi siglati entro
il 31.3.2004, le forze armate, i militari e le forze dell'ordine, che potranno
continuare a godere delle norme attuali.
L'accelerazione del governo sulle pensioni coincide, per ironia della
sorte, con un analogo provvedimento in discussione alle Camere che mira
ad abbassare l'età pensionabile per i parlamentari, da 2,5 ad un
solo anno di legislatura. Si tratta infatti di sanare una "spiacevole"
circostanza che si è venuta a determinare in seguito alla elezione
contestata di un senatore di Rifondazione Comunista (Giorgio Malentacchi)
e di uno dell'Udc (Gianluigi Magri). Dopo che la giunta per le elezioni
ha accolto il ricorso di due aspiranti senatori di An e dichiarato decaduti
Malentacchi e Magri, si è riusciti a salvare solo Magri (nominandolo
sottosegretario al Tesoro) ma non il senatore rifondarolo, che così
si trova a perdere la pensione. Andreotti ha ironicamente proposto di associare
anche Malentacchi al governo, ma il "sentire comune" dei nostri rappresentanti
preme per un'altra soluzione. Abbassare definitivamente e per tutti i parlamentari
ad un solo anno di legislatura il termine minimo per maturare il diritto
alla pensione!
Scherzi a parte, è evidente che crescono in misura scandalosa
privilegi e deroghe per i corpi separati dello stato e le élite
di governo, mentre peggiorano in concreto e in prospettiva i trattamenti
riservati al resto della società. I tagli alle spese risparmiano
infatti le strutture sociali delegate a costruire il consenso e garantire
passività sociale. È significativa in tal senso la relazione
trimestrale di cassa che fa il punto sull'andamento della spesa statale:
il finanziamento ai partiti politici è passato dagli 85 milioni
di euro del 2001 ai 105 milioni di euro del 2003 (+20%), attraverso l'innalzamento
dei contributi da 4 mila lire a 1 euro per elettore, per ogni anno elettorale
(quindi a 5 euro per legislatura); il finanziamento ai patronati (in pratica
ai sindacati) è salito da 166 a 367 milioni di euro; i finanziamenti
alla Conferenza Episcopale della Chiesa cattolica sono passati da 763 milioni
di euro a oltre un miliardo di euro.
Tornando alla riforma pensioni, va ancora affrontato un tema assai
delicato: i fondi pensioni e l'equiparazione tra tutte le forme di previdenza
integrativa esistenti. Attualmente un dipendente deve aderire ad un fondo
di categoria se vuole che il suo datore di lavoro versi la sua quota di
contributi per la previdenza integrativa. D'ora in avanti può invece
optare per una polizza assicurativa o un fondo pensione individuale, e
ciò non gli impedisce di pretendere dal datore di lavoro il contributo
aziendale e la quota in maturazione del Tfr da far confluire sul suo accantonamento
individuale.
Il governo ha compiuto su questo terreno una evidente forzatura: pur
accogliendo la richiesta sindacale del silenzio-assenso (la possibilità
del lavoratore di decidere, entro sei mesi dall'entrata in vigore della
nuova legge, se conservare il proprio TFR o conferirlo alla previdenza
complementare), il testo di legge mette sullo stesso piano i fondi pensioni
chiusi, i fondi pensione aperti e le polizze previdenziali offerte dalle
compagnie assicurative. Questo fatto ha scatenato delle notevoli risse
tra le varie lobby che aspirano a gestire questo imponente flusso di risorse
finanziarie: i sindacati (principali protagonisti dei fondi pensione chiusi,
di categoria), le banche (forti soprattutto nei fondi pensione aperti),
le assicurazioni (principali beneficiarie dell'allargamento alle polizze
individuali dei benefici del provvedimento). Fabio Cerchiai (manager delle
Generali e presidente dell'Ania) ha salutato con entusiasmo il regalo del
governo e si è indignato per le polemiche e le critiche insorte,
esaltando la liberalizzazione del settore e la possibilità individuale
di scegliere a chi affidare i propri risparmi previdenziali. Si è
dimenticato di ricordare che su alcune polizze si paga anche il 40% come
commissioni d'entrata e spesso lo si scopre solo dopo 30-40 anni di versamenti,
quando è un po' tardi per rimediare. Anche le banche non scherzano:
i fondi pensione aperti hanno commissioni d'ingresso molto contenute, ma
le commissioni di gestione (tra l'1.5% ed il 3% annuo) incidono comunque
sui rendimenti e quindi sulle prestazioni. I più onesti, sul
fronte commissionale, sono senz'altro i fondi chiusi, che generalmente
si accontentano di commissioni annue di gestione attorno allo 0,50%, ma
ciò non toglie che si vengano a creare degli enormi centri di potere
finanziari che vedono direttamente coinvolti i rappresentanti sindacali,
in un evidente conflitto di interessi. Lo spossessamento del TFR maturando
alle imprese sarà in qualche modo finanziato dallo stato, attraverso
prestiti agevolati, e può comportare, come abbiamo visto, il dirottamento
di imponenti risorse verso banche e assicurazioni: in termini molto grossolani,
possiamo dire che un consistente flusso di risorse, che sono poi soldi
dei lavoratori, vengono trasferiti da impieghi produttivi a impieghi improduttivi,
da capitale industriale a rendita finanziaria. Senza fare del ridicolo
nazionalismo, possiamo altresì constatare che risorse produttive
domestiche verranno convogliate verso fondi d'investimento prevalentemente
esteri (specialmente quelli a contenuto azionario), in un'operazione finanziata
essenzialmente dallo stato, cioè da tasse prelevate a lavoratori
dipendenti. Il lavoratore si potrà così trovare nella paradossale
situazione di versare una quota crescente dei propri contributi previdenziali
a banche e assicurazioni, in cambio di rendimenti incerti, e contemporaneamente
pagare delle tasse, che serviranno allo Stato per fare dei trasferimenti
alle imprese, che verseranno il Tfr maturando a banche ed assicurazioni,
che li investiranno in obbligazioni dello stato e azioni di multinazionali
con i più forti trend di crescita. È abbastanza facile prevedere
che il sistema produttivo nazionale subisca un ulteriore indebolimento,
che si arricchisca il settore della rendita finanziaria e che diventi più
aleatoria la prestazione pensionistica finale destinata a soddisfare i
bisogni di reddito di larga parte della popolazione lavorativa attuale.
Un'ultima domanda resta ancora senza risposta: perché il governo
Berlusconi accelera sulle pensioni proprio un mese prima di elezioni decisive
per la propria sopravvivenza, cioè le europee di giugno? Si possono
fare al riguardo varie ipotesi:
1) il testo approvato dal Senato soggiornerà alla Camera fino
a luglio, quindi la sua approvazione finale nel cuore dell'estate non danneggerebbe
più di tanto l'esito delle elezioni e troverebbe una debole reazione
dei sindacati, spiazzati dalla stagione.
2) le elezioni saranno comunque un mezzo disastro, quindi anche approvare
a tutta velocità la legge entro la fine di maggio potrebbe essere
addirittura una prova di coraggio e determinazione da spendere verso ex-alleati
(Confindustria), piccola impresa e censori comunitari.
3) Berlusconi vuole fare della riduzione delle tasse l'argomento principale
della sua campagna, e per rassicurare la U.E. della sostenibilità
dei propri propositi deve dimostrare di non scherzare sui tagli alle pensioni.
4) il governo doveva evitare l'"early warning" della U.E. ed infatti
è riuscito a rinviare al 5 luglio l'ammonimento ufficiale sull'andamento
preoccupante dei conti pubblici soltanto con questo "segnale forte" della
fiducia sul provvedimento pensioni.
Quale delle ipotesi corrisponda al vero, il movimento deve raccogliere
le idee e rispondere alla sfilacciatura dei provvedimenti graduali che
fa parte, organicamente, della strategia attuata dal governo Berlusconi.
Al di là dei soggetti che saranno chiamati a gestire la previdenza
pubblica o quella privata, si tratta di lottare per avere un innalzamento
di risorse destinate alla copertura pensionistica di una popolazione che
invecchia e che viene sostituita, nel ciclo produttivo, da figure meno
garantite e meno tutelate. Si tratta di incrementare gli sforzi per "decrittare"
i provvedimenti del governo, imporre criteri di trasparenza su chi paga
e chi incassa nel cambiamento di utilizzo delle risorse contributive, fare
decollare una discussione allargata sull'uso delle risorse e sulle conseguenze
sociali, di lungo periodo, delle norme in discussione. I prossimi due mesi
rischiano di apparire decisivi.