di Laura Pennacchi, "l'Unità", 2 aprile 2006
Nei giorni che ci separano dal voto è cruciale che l’attenzione
degli elettori sia riportata dai «mezzi» ai «fini»
che i programmi politici si propongono di perseguire, disvelando se si
ha o no un’idea di «bene comune» da proporre per il futuro
del Paese. Per fare ciò bisogna ricondurre sotto la luce dei riflettori
parole-chiave: innovazione, ricerca, qualità, istruzione, capitale
umano, benessere, cittadinanza, etica pubblica. Parole che, invece, sono
state confinate nell’ombra dallo spudorato terrorismo mediatico messo in
atto dalla Casa delle libertà per falsificare le posizioni del centrosinistra
sulla pressione fiscale e per nascondere la natura hobbesiana dell'immagine
di società da essa propugnata, in cui ognuno dovrebbe arraffare
per se stesso e tutti dovrebbero essere in guerra ininterrotta gli uni
contro gli altri.
Al fine della possibilità di traguardarsi verso il futuro, il
significato di parole-chiave come innovazione, ricerca, qualità
emerge con più chiarezza dalla ricostruzione degli esiti disastrosi
a cui ci hanno già condotto cinque anni di governo delle destre.
Il dissesto dei conti pubblici è sotto i nostri occhi, rintracciabile
nitidamente nella Trimestrale di cassa, nonostante il “genio della spudoratezza”
Tremonti - ricordate? quello stesso di cui Fini impose un temporaneo licenziamento
per «trucchi contabili» - le voglia imprimere una certa «timidezza»
(parola del Sole 24 0re, il quale ribadisce la necessità di compiere
«un’aperta confessione delle insufficienze e delle inadempienze della
Finanziaria 2006»). L’incredibile è che da una parte il risanamento
già effettuato dal centrosinistra nella seconda metà degli
anni ‘90 sia stato così miserevolmente compromesso, dall’altra che
al dissesto finanziario si accompagnino oggi un’economia e una società
stagnante, impoverita, bloccata, sperequata, divisa. Un’analisi sommaria
limitata alle più importanti variabili “reali” ci consegna un quadro
impressionante.
1) Negli anni in cui l’economia mondiale cresceva a tassi cinque volte
quelli dell’Italia e l’area euro il doppio, il Pil italiano (di cui con
il Dpef del 2001 ci era stata promessa un incremento superiore al 3% annuo
«per l’intera legislatura») è cresciuto mediamente dello
0,8% giungendo alla crescita zero nel 2005, mentre nel quinquennio del
centrosinistra l’incremento medio annuo era stato dell’1,9%.
2) Fatta 100 la produzione industriale del 2000 quella del 2005 è
calata a 96,1 (la manifatturiera addirittura a 94), evidenziando la più
grave e protratta recessione del sistema industriale nazionale nel dopoguerra,
per di più associata alla fine di fatto della partecipazione italiana
ai grandi progetti di ricerca e innovazione tecnologica promossi dall’Unione
Europea, come nei casi del progetto Galileo (volto a consentire ai paesi
partecipanti di avere un sistema di posizionamento satellitare superando
il monopolio GPS degli Stati Uniti) e del consorzio Airbus (per cui il
governo Berlusconi non firmò l’impegno all’acquisto di 16 «A-400»).
3) Per ricerca e sviluppo e tecnologia l’Italia, che nel 2001 era al
22° posto nelle classifiche del World Economic Forum, nel 2005 è
crollata al 50°, mentre tutti i principali indicatori (spesa pubblica
rispetto al Pil, spesa per innovazione, spesa per Information Communication
Technologies) la danno al di sotto della media europea.
4) Nel quinquennio berlusconiano la dinamica della produttività
si è interrotta ed è diventata addirittura negativa, soprattutto
per quando riguarda la «produttività totale dei fattori»,
quella che segnala la capacità di un sistema di introdurre e diffondere
innovazione, progresso tecnologico, avanzamenti tecnici e organizzativi.
Da ciò, e da tutto il resto, è seguita una netta perdita
di competitività: tra il 2000 e il 2004, mentre la domanda internazionale
di beni aumentava di oltre 20 punti, la quota dell’Italia sul mercato mondiale
scendeva dal 3,5 al 2,9, trend inaspritosi vieppiù successivamente.
5) L’occupazione - aumentata tra il 1996 e il 2001, con un vero e proprio
boom, di 1 milione e 363 mila persone - durante il governo Berlusconi è
cresciuta di 831 mila unità (non del milione e mezzo vantato), alle
quali, però, vanno sottratti 650 mila lavoratori immigrati regolarizzati,
riducendosi così a 132 mila i posti di lavoro nuovi effettivamente
creati. In ogni caso la dinamica occupazionale, secondo dati Banca d’Italia,
sembra essersi arrestata dal 2003 (proprio dall’approvazione della legge
30, il cui effetto è stato di moltiplicare il numero dei contratti
atipici più che i posti di lavoro), con conseguenze particolarmente
gravi per il Mezzogiorno (con un tasso di disoccupazione ancora superiore
di 10 punti a quello del Centro Nord) e per le donne, nuovamente scoraggiate
all’entrata nel mercato del lavoro, il che provoca una caduta del tasso
di attività femminile che nel Sud - dove il tasso di disoccupazione
delle donne giovani è del 44% - scende dal 40% al 38,7, lo stesso
valore del 2000.
Perché il centro-destra non fornisce alcuna risposta credibile
su nessuno di questi temi, perché non presenta, come è obbligo
insieme alla «Trimestrale di cassa», l’aggiornamento della
«Relazione previsionale e programmatica» in cui dovrebbe essere
fornito un rendiconto su tutto ciò? Eppure, il crudo quadro della
«economia reale» qui rapidamente tratteggiato risulterebbe
ancor più drammatico se vi aggiungessimo altri indicatori, per esempio
quelli relativi alla perdita di qualità e di efficacia - dopo le
«non-riforme» Moratti - del nostro sistema scolastico e del
nostro sempre più caotico sistema universitario. In ogni caso, per
tutti questi fattori, assistiamo al peggioramento delle condizioni di reddito
e di vita di milioni di cittadini anche di ceto medio, alla diminuzione
del benessere e all’incremento del disagio sociale. Su tale peggioramento
un’influenza corposa è esercitata proprio dal degrado delle politiche
sociali e delle funzioni pubbliche di welfare, sottoposte - in primo luogo
per la sottrazione di risorse finanziarie - ad un intenso processo di dequalificazione
e di svuotamento, di cui è parte il disprezzo gettato sui dipendenti
dello stato: anche da qui si vedono le conseguenze di quella “strisciante”
privatizzazione dei servizi pubblici che la Casa delle libertà ha
sempre visto come altra faccia e vero movente della propria visione del
taglio delle tasse. Un taglio delle tasse che da una parte ha contratto
ancor più i servizi soprattutto attraverso le decurtazioni dei trasferimenti
agli enti locali, dall’altra avendo gratificato solo i benestanti si è
rivelato inesistente per la maggior parte dei cittadini: come dimenticare
che il 63% della popolazione è stato del tutto escluso dai benefici
del secondo modulo della controriforma fiscale voluta da Tremonti e che
essi sono andati nella misura di ben il 40% del totale al 2% più
ricco dei contribuenti?