Andrea Papi, "rivista anarchica", ottobre 2010
Accanto a un continuo aumento di nuove forme di schiavismo nei luoghi di lavoro, c’è un aumento progressivo e costante della povertà in ogni strato della società.
Fino a qualche mese fa Marchionne, l’italo-canadese-svizzero massimo
manager della Fiat, era universalmente accreditato come erede di Adriano
Olivetti e delle sue idee sulla fabbrica felice. Il cambio d’immagine c’è
stato quando è apparso evidente che non fa altro che il manager
d’una multinazionale, per cui è lautamente pagato.
Nel momento in cui la situazione internazionale ha messo tutti all’angolo,
le maschere sono scivolate via e sono apparsi i volti veri, in tutta la
loro concreta crudezza. Il manager d’alto livello è tornato allora
ad essere e apparire quello che è sempre stato: un attore manageriale
del mercato globale, dove muoversi significa fare scelte cinicamente legate
agli esclusivi interessi delle aziende, molto più di ieri a discapito
di tutto il resto, esseri umani compresi. È ciò che la vicenda
Fiat degli ultimi mesi ha messo a nudo.
Dapprima allo stabilimento di Termini Imerese in Sicilia, che la dirigenza
Fiat ha deciso di chiudere entro il 2011 perché la qualità
della sua produzione, date le condizioni strutturali del sito, non riesce
ad essere competitiva. Poi in Campania a Pomigliano d’Arco, dove la vecchia
azienda sarà sostituita da una newco, non iscritta all’Unione Industriali
di Napoli e con un contratto separato da quello nazionale, in cui le forme
di lotta dovranno essere sottoposte al vaglio aziendale prima di essere
praticate. Solo chi, tra i 5.200 lavoratori, accetterà le nuove
regole passerà progressivamente nella nuova società a partire
da settembre 2011, mentre per gli altri prima cassa integrazione poi mobilità.
Anche i sindacati che non firmeranno il contratto per il nuovo stabilimento
campano saranno esclusi.
Poi ancora il Lingotto di Torino, messo in discussione davanti alla
possibilità di trasferire in Serbia la linea di produzione, dal
momento che il governo serbo, per favorire un aumento dell’occupazione,
offre alle aziende sul suo territorio condizioni d’impresa molto allettanti.
Infine nello stabilimento di Melfi in Basilicata un braccio di ferro all’apparenza
assurdo. Tre operai prima licenziati con l’accusa di sabotaggio, poi reintegrati
per ordinanza della magistratura, ma esclusi di forza da un effettivo impiego
nella produzione. In attesa della definitiva sentenza di ricorso, ricevono
ugualmente il salario senza poter lavorare.
Tutte scelte aziendali imposte con prepotenza e ricatti, che dimostrano
una sistematica recrudescenza autoritaria da parte della Fiat e che hanno
suscitato immediata indignazione. Ma è un lamento che fluisce e
si spegne, assorbito dall’insieme dei rumori di plauso ricevuti da Marchionne
per il “coraggio” dimostrato. Al management internazionale il lamento degli
ultimi e dei sottomessi non interessa affatto, anzi infastidisce. Non è
funzionale agli investimenti finanziari che premono con sempre più
forza sulle scelte produttive. Così i manager di livello oggi agiscono
compatti nel contrarre i diritti e le condizioni dei lavoratori per sacrificarli
alle esigenze del trend finanziario.
Un nuovo patto sociale
Le scelte di Marchionne sono perfettamente in linea con questa tendenza
planetaria e si impongono con agilità in ogni distretto multinazionale
della Fiat. Da manager abituato a muoversi a livello globale, sente il
diritto/dovere (per lui) di tentare di piegare la situazione operaia a
quello che ora è la tendenza internazionale del lavoro salariato
industriale. Le condizioni del lavoro operaio sono ormai un tema desueto,
un ronzio insopportabile da riciclare come un ferrivecchi. Al meeting di
Rimini ha detto con chiarezza che propone all’Italia un nuovo patto sociale,
secondo una visione per cui il rapporto di lavoro fa ridefinito, reinventato,
aggiornato alle esigenze del mercato globale. Ricondotto, aggiungiamo noi,
alla ripetitività delle componenti delle catene di montaggio, quindi
non valorizzabile se non come parte di un assemblaggio dove i bisogni e
la creatività individuali sono assenti, anzi ripudiati.
A Marchionne non si possono negare coerenza e continuità a livello
internazionale. Dietro ricatto della disoccupazione alla Chrysler di Detroit
ha ottenuto che mentre l’operaio di serie A prende 24 dollari l’ora quello
di serie B, il neoassunto, facendo lo stesso lavoro ne prende 14. Disparità
prevista dal contratto nazionale del 2007, quando, per non rinunciare ai
benefici, il sindacato cedette sulle paghe dei più giovani. Sta
di fatto che negli ultimi 4 anni ogni operaio di GM, Ford e Chrysler ha
rinunciato dai 7.000 ai 30. 000 dollari tra paga e benefit. A Tychy, in
Polonia, un operaio gli costa 600 euro al mese, invece dei 1200 circa come
in Italia. A Kragujevac in Serbia ancora meno, 400. In queste sue scelte
c’è un chiaro messaggio, seppur non dichiarato, di voler fare da
apripista per un riassetto in Italia del rapporto tra capitale e lavoro.
Non a caso riscuote il plauso dell’intera classe manageriale e finanziaria
nazionale.
Il manager massimo Fiat è attratto dalla Serbia per il consistente
“pacco dono” garantitogli dal governo serbo. 67 ettari regalati in comodato
d’uso. 70 riservati gratis agli insediamenti per l’indotto. 25 milioni
di euro per i nuovi assunti. Dieci anni di esenzione fiscale. Garanzie
che verranno costruite le infrastrutture necessarie. Ljubic, presidente
della Zastava, la Fiat serba, e superconsigliere del ministero per l’economia
spiega: «Non è un regalo, né un pacchetto su misura
per il lingotto; abbiamo fatto lo stesso per Michelin, Us Steel, Philip
Morris, che sono già qui. Per noi sono investimenti il cui ritorno
non si misura in soldi, ma in posti di lavoro». È proprio
il caso di dire che nell’era del capitalismo globale gli stati, fra le
altre cose, si stanno reinventando come piazzisti di incentivi a caccia
di occupazione, ovviamente sulla pelle dei lavoratori.
Oligarchie finanziarie e borghesia manageriale
«Marchionne vuole polacchizzarci perché costiamo troppo.
Quello è un banchiere non un manager!», affermano con grande
sagacia alcuni operai del Lingotto. In tutto il mondo il management è
diventato infatti innanzitutto una funzione della speculazione finanziaria,
dove l’elemento essere umano sistematicamente non conta. Nell’industria
automatizzata, computerizzata e robotizzata di oggi, l’individualità
operaia è del tutto priva di valore e sempre più osteggiata.
L’individuo operaio non è più computabile quale essere umano
che presta la propria forza lavoro, mentre è sempre di più
un pezzo intercambiabile, deprivato di una sapienza produttiva propria,
sostituito dall’efficienza tecnologica e meccanica dei computer e dell’automazione.
È in atto una vera e propria disumanizzazione del lavoro, una
crociata planetaria dal sapore antiumanista da parte delle oligarchie manageriali
e finanziarie dominanti, che stanno impostando forme aggiornate di neo/schiavismo
per ottenere, non soltanto nei luoghi di produzione, ma soprattutto nei
livelli esistenziali, una sottomissione generalizzata e indiscussa, diffusa
nelle stratificazioni sociali. Accanto a un continuo aumento di nuove forme
di schiavismo nei luoghi di lavoro possiamo infatti anche notare un aumento
progressivo e costante della povertà in ogni strato della società.
Soltanto i ceti e gli strati dirigenziali ad alto livello, al contrario,
trovano un aumento costante della libertà di movimento e della ricchezza
personale.
La vecchia lotta di classe non riesce più ad essere, ammesso
che lo sia mai veramente stata, uno strumento ermeneutico per comprendere
il divenire delle trasformazioni sociali, né tanto meno un valido
aiuto per identificare quale tipo di opposizione si possa mettere in campo
per riprendere un percorso di vera emancipazione. La lente interpretativa
del classico conflitto tra capitale e lavoro è ormai un filtro consunto
e desueto, incapace di farci comprendere la vera portata dello scontro.
Il conflitto tra capitale e lavoro non si è esaurito, come invece
ha sostenuto con enfasi Marchionne al meeting di Rimini. Quel conflitto
non solo continua ad esserci, ma tende ad acuirsi, proprio per il peggioramento
delle condizioni di lavoro e di vita che la globalizzazione impone. Solo
che non è più ascrivibile all’interno della lotta di classe,
quella che vorrebbe il proletariato al potere dopo aver sconfitto la borghesia
nella “guerra di classe”.
Non più ravvisabili le due eroiche antagoniste strutturali che
marxisticamente avrebbero dovuto fare la storia: da una parte la borghesia
capitalista (il capitalismo dei capitalisti) e dall’altra la classe operaia
dell’industria, entrambe forti della propria condizione oggettiva. Oggi
invece abbiamo da una parte oligarchie finanziarie e borghesia manageriale.
Le oligarchie finanziarie sono le vere salde detentrici del dominio globale,
che fluiscono libere e incontrollabili, niente affatto strutturate come
vorrebbe lo schema strutturalista della lotta di classe, mentre la borghesia
manageriale, che gestisce il livello produttivo industriale, agisce più
che altro sotto l’input delle spinte finanziarie. Dall’altra parte al posto
dell’antica classe proletaria, continuamente evocata ma ormai inidentificabile,
troviamo una serie di condizioni lavorative sempre più assoggettate,
ormai prive di potere contrattuale. Altro che working class, come piacerebbe
all’autodefinentesi sinistra antagonista! Questo assemblaggio di svariate
categorie lavorative assomiglia sempre di più a una “non classe”,
inclassificabile come insieme strutturale, ma sempre più assimilabile
a un insieme di differenti condizioni di lavoro subordinato.
Qualche tempo fa Marchionne dichiarò con ironica solennità:
«Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto
prima di Cristo non mi riguarda e non m’interessa». Il dopo Cristo
per lui comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle
merci e del lavoro. Per sottolineare questa sua aderenza alla contemporaneità,
sempre al meeting di Rimini ha detto: «Non siamo più negli
anni sessanta. Non è possibile gettare le basi del domani continuando
a pensare che ci sia una lotta tra capitale e lavoro, tra padroni e operai».
Mostrandosi come innovatrice la globalizzazione vorrebbe cancellare l’impostura
di un capitalismo che umilia e schiavizza intere masse umane.
Se è vero che non c’è più il padronato dipinto
dalla mitologia ottocentesca, non è affatto vero che si sia esaurito
il conflitto. Ha semplicemente assunto caratteristiche e forme differenti
da quelle della ormai obsoleta lotta di classe. Si è estinto il
padronato proprietario, i classici padroni, ma è stato sostituito
da oligarchie manageriali e finanziarie che tirano le redini dei processi
economici, avendo trasportato il centro dell’interesse capitalistico dal
momento produttivo a quello finanziario. Il problema è che oggi
questi nuovi padroni impongono a chi lavora una sottomissione praticamente
totale, che in moltissimi casi rasenta lo schiavismo. Vogliono gestire
il mondo sulla pelle di tutti, schiacciando ogni diritto ed ogni dignità,
per accumulare guadagni iperbolici. Pretendono il consenso degli umiliati
e schiavizzati, pensando che sia sufficiente la parola magica che siamo
nella globalizzazione dove, sempre secondo Marchionne, «tutto muta
alla velocità della luce».
Bisogno di riscatto
In definitiva è vero che ha perso completamente senso lo scontro
di leniniana memoria finalizzato alla lotta di classe, perché è
totalmente improponibile la presa del potere per la dittatura del proletariato,
a sua volta estintosi come situazione strutturale di classe. Non è
però accettabile pretendere che gli operai accettino di buon grado
di essere impoveriti, di subire un cospicuo aumento di tasso di sfruttamento,
di perdere diritti conquistati in decenni di faticose lotte, senza più
né protestare né lottare, perché messi di fronte al
ricatto della disoccupazione e dello smantellamento dell’impresa.
Forse ora i lavoratori sono un po’ sbigottiti di fronte a questa sfrontatezza
della globalizzazione montante. Sopito al momento ogni sogno di riscatto,
sembrano accettare supini ogni condizione pur di non perdere il lavoro.
Ma un simile sbigottimento non potrà durare in eterno, soprattutto
davanti al costante sfacciato arricchimento dei nuovi padroni. Il bisogno
di riscatto è nell’ordine naturale delle cose. Riprenderà
piede e forma proprio nella globalizzazione. Già se ne sentono i
primi echi con l’ondata di scioperi nelle fabbriche cinesi. Noi dobbiamo
soltanto lavorare per far si che la prossima rivolta sia per un’emancipazione
vera, sganciata dai fallimenti classisti, fondata questa volta sull’autogestione
della solidarietà e sul ripudio di ogni sfruttamento, schiavismo
e sottomissione.