di Andrea Papi, "A rivista anarchica", N. 303, novembre 2004
Sono ancora vive, con tutto il loro terrificante realismo, le immagini
della carneficina nella scuola di Beslan in Ossezia del 3 settembre: centinaia
di corpi dilaniati, oltre la metà bambini. Quattro giorni dopo in
Iraq, parte di una guerra senza fine frettolosamente dichiarata conclusa
più di un anno e mezzo fa dallo stato maggiore USA, lo sconcertante
rapimento delle due Simone, volontarie pacifiste dell’ONG “Un ponte per…”,
vittime incolpevoli di una delle innumerevoli componenti dell’opposizione
armata irachena, usate come immagine simbolo d’uno snervante terrorismo
mediatico finito, fortunatamente, senza spargimento di sangue.
Ennesimi rapimenti ed ennesima azione terroristica, ai quali sono seguiti
altri rapimenti con conseguente taglio della gola ripreso da telecamera,
ai quali sicuramente ne seguiranno chissà quanti altri, falcidiando
vite umane, distruggendo ed inducendo a distruggere.
I fruitori dei media continuano a rimanere senza fiato, ogni volta
ancora più confusi e allibiti. Come per il precedente rapimento
più assassinio del giornalista di casa nostra Enzo Baldoni, come
per tutti gli altri di diverse nazionalità, operai, giornalisti,
volontari. Come dopo l’abbattimento delle Twin Towers dell’11 settembre
2001, o dopo l’11 marzo 2004 in Spagna, i media della carta stampata anche
in queste occasioni ci continuano a propinare fiumi di parole, più
o meno colte e più o meno efficaci, complemento delle immagini televisive,
che ci stravolgono e ci travolgono nell’immane cruento disastro umano.
Sono due le parole che più di ogni altra esprimono il senso e i
sentimenti reattivi davanti a tali spettacoli di devastazione: orrore e
terrore. E dall’orrore e dal terrore, infatti, ci sentiamo avvolti, quasi
serrati in una sacca orripilante senza vie di scampo, il cui unico scopo
è quello di farci vegetare fino all’inevitabile estinzione.
“Danni collaterali”
Ciò che forse ci sconvolge maggiormente di fronte a questi fatti
è che, nella loro cruda evidenza, fanno saltare completamente l’immaginario
consolidatosi di che cosa debba essere una guerra. In qualche modo lo svolgimento
delle battaglie cui nei millenni ci eravamo abituati, che abbiamo interiorizzato
quasi fosse un valore, si dovrebbe svolgere tra contendenti che combattono
perché sono addetti a farlo, cioè tra soldati di opposte
fazioni. Gli altri, tutti gli altri, non a caso continuano ad essere chiamati
civili, visti e considerati come esterni al conflitto, che quindi non dovrebbero
essere coinvolti se non per errore o, come si usa dire eufemisticamente
da qualche anno, per causa di “danni collaterali”.
Nella guerra globale in atto, invece, sistematicamente questa regola
non scritta di origine cavalleresca sta saltando giorno dopo giorno, mostrando
la perversa nudità di una spirale impazzita, che, al di là
dell’immaginario mistificante, tragicamente ci sta suggerendo quale sia
il vero volto dell’essenza della guerra, di ogni guerra: l’orrore e solo
l’orrore.
Purtroppo, nella percezione collettiva del mutamento delle modalità
del modo di combattere cui stiamo assistendo c’è qualcosa che non
funziona. Nel cambiamento in atto dell’immaginario bellico mi sembra di
identificare un elemento di conservazione, che allontana dalla comprensione
del senso reale della guerra e, magari inconsapevolmente, ristabilisce
nelle coscienze l’accettazione della logica di guerra. Gli ultimi orrori,
che quotidianamente ci bersagliano attraverso l’informazione mediatica,
quelli che ci suscitano immediata sacrosanta ripulsa, appartengono ufficialmente
ad una sola parte contendente.
Quasi a suggerire che, suffragato proprio dai fatti sconcertanti da
cui siamo partiti, nelle cose belliche persiste l’arcaica divisione tra
buoni e cattivi.
Da una parte, quella buona, l’esercito de “i nostri”, che combattono
in modo tradizionale la guerra “leale”, nel rispetto delle regole e delle
convezioni internazionali, spinti dalla necessità di combattere
il terrorismo, presentato come il male assoluto.
Dall’altra, quella cattiva, l’esercito degli irregolari e dei terroristi,
identificati oggi nella galassia del terrorismo islamico, che non hanno
rispetto alcuno per la vita e sono disposti a qualunque nefandezza umanamente
orripilante pur d’infliggere perdite al nemico occidentale, considerato
a loro volta specularmente il male assoluto.
Come Gestapo e GPU
C’è qualcosa che non funziona, perché la realtà
si svolge in modo differente dalla percezione che inconsciamente facciamo
collimare con l’immaginario consolidato.
In verità, infatti, gli orrori sono perpetrati con costanza
e perseveranza anche dalla parte dei “buoni”. Solo che suscitano un impatto
emotivo diverso perché hanno una qualità di esecuzione diversa.
Innanzitutto i “nostri” sono molto più ipocriti perché
sistematicamente, ogni volta che ci riescono, tendono a nascondere i misfatti
di cui sono responsabili, cosicché le loro atrocità non ci
vengono sbattute brutalmente in faccia attraverso immagini mediatiche,
come invece succede per le azioni dei “cattivi”. Quindi ne riusciamo a
conoscere solo una parte, che presumibilmente non è certo quella
più consistente.
Anzi, finché riesce loro, i “nostri” tendono a negare le nefandezze
che compiono, mentre, quando vengono scoperti e si trovano costretti ad
ammettere le proprie responsabilità, chiedono scusa e ufficialmente
dichiarano che si tratta di errori non voluti.
In alcuni casi parlano di danni collaterali, com’essi amano definire
per esempio i massacri calcolati di civili in seguito a bombardamenti devastanti.
In altri casi, come per esempio le torture ai prigionieri iracheni che
tanto scandalo fecero qualche mese addietro, non potendo più negare
l’evidenza di prove ampiamente documentate, scaricano la colpa sulle responsabilità
individuali di coloro che hanno commesso il fatto, tentando di mostrare
che l’apparato, nel nome del quale i torturatori hanno agito, non c’entra
nulla e tutto sarebbe avvenuto contro la volontà dei vertici militari.
Ipocriti! E Guantanamo allora, il carcere speciale per terroristi a
Cuba, dove, come documentano alcune testimonianze sfuggite alle strette
maglie dei controlli, sistematicamente si perpetrano torture che nulla
hanno da invidiare agli odiati sistemi della Gestapo nazista e della GPU
staliniana?
I “cattivi” al contrario non hanno questi problemi d’immagine. Rivendicano
le loro orripilanti azioni e programmano di sbattercele brutalmente in
faccia. Si mostrano per quello che sono senza neppure tentare di mascherarsi
dietro formalismi burocratici o ipocrite disgustose menzogne. In tal modo
ottengono di essere percepiti in tutta la loro concreta spietatezza e ci
danno il messaggio che desiderano: riempirci di terrore, toglierci la sicurezza
arrogante di continuare a vivere nel nostro arrogante benessere.
Non potendo competere sul piano della tecnologia militare con la potenza
nemica contro cui combattono, con grande disinvoltura usano i corpi, propri
e altrui, come terrificante arma letale. A loro non interessa agire, o
far credere di agire, per la salvaguardia della vita umana, per la dignità
della persona, valori che invece per il nostro mondo sono alla base del
senso stesso dell’esistenza. I corpi, le vite umane, gli individui non
sono che strumenti d’azione e mezzi di riscossa, perché sono attratti
molto di più dalla dignità della morte che da quella della
vita, perché per loro la vita acquista senso con la morte e non
viceversa.
Orrore e terrore dunque da entrambe le parti, anche se con una qualità
diversa nella volontà e nel senso dell’attuazione. Personalmente
del resto, per quanti sforzi faccia, nella sostanza delle cose non riesco
a vedere molta differenza tra gli orrori di cui finora ho parlato e i milioni
di morti per fame, come di quelli per le malattie dovute all’indigenza
ed alla miseria nera in cui quotidianamente vengono costretti miliardi
di persone.
Ma anche i milioni di bambini ogni giorno schiavizzati, seviziati e
torturati.
Ma anche l’immane distruzione delle specie animali in atto, accompagnata
dal progressivo esponenziale inquinamento ambientale perpetrato con maniacale
e criminale pervicacia dai gestori del potere e dell’economia, che incombono
sulle nostre teste come perenni spade di Damocle. Siamo circondati dall’orrore
ed immersi in esso, perché è orrendo il senso profondo della
qualità del nostro rapporto col mondo e con e tra noi stessi.
Del resto, se non fosse così, non avremmo messo in piedi e non
continueremmo a conservare sistemi politici ed economici di conduzione
dell’esistente che continuamente, quasi inevitabilmente, conducono sempre
e comunque a situazioni generalizzate che sono marchiate da un ordinario
fatto di squallore e, appunto, di orrore.
L’annientamento del nemico
Per questo la guerra rappresenta simbolicamente l’estrema e conseguente
sintesi della qualità delle relazioni di potere, perché esprime
e manifesta la logica sistemica su cui si fonda la gestione imposta del
vivere socialmente.
È la logica di guerra in sé che contiene la propagazione
dell’orrore, cioè la distruzione di cose ed esseri viventi, il dilaniamento
dei corpi, l’eccidio, il massacro, la tortura dei prigionieri, dal momento
che l’orrore e non altro rappresenta il modo di essere e di esprimersi
della guerra stessa, il cui fine dichiarato e voluto è l’annientamento
del nemico, o sottomesso o annichilito, per esercitare la supremazia totale
e incontrastata della dominazione sull’altro.
Chi sceglie la logica di guerra entra perciò in un tunnel terrificante
cui, al di là delle sue intenzioni originarie e della sua volontà,
non può e non riesce a sottrarsi. Metaforicamente è un’Idra
di Lerna, mostruoso essere mitologico a più teste, cui ogni volta
che ne veniva recisa una ne assumeva altre due, moltiplicando all’infinito
la sua capacità aggressiva e distruttiva.
Con la tecnologia attuale poi è definitivamente tramontato ogni
eroismo nel combattimento. Il senso che sta dietro la costruzione delle
armi è ormai indirizzato soltanto alla distruzione. Non si producono
più strumenti, pur sempre più efferati, concepiti però
per sostenere il combattimento, ma armi sempre più potenti che hanno
come unico scopo l’efficacia della più completa distruttività.
Il nemico non lo si affronta più, né ci si misura più
con lui. Non c’è più bisogno di guardarlo in faccia per vederlo
cadere sotto i colpi della propria abilità e destrezza.
Non lo si vede nemmeno. I sensori ne identificano la posizione e, ben
protetti, con missili o bombe si colpisce il luogo dove si trova, apportando
sul posto colpito il massimo della devastazione che si riesce ad esprimere,
in modo da esser sicuri che venga annientato assieme all’ambiente circostante
con tutto ciò che vi si trova. Ciò che è considerato
efficace non è né la determinazione né il coraggio,
ma la supremazia tecnologica che si è in grado di mettere in campo.
Paradossalmente, riusciamo ad identificare qualche traccia di eroismo
nei kamikaze, per la scelta che fanno del sacrificio della propria vita,
ma i quali in realtà, nel sacrificarsi colpendo indiscriminatamente
nel mucchio, commettono una delle più grandi vigliaccherie, perché
colpiscono chiunque si trovi alla portata della deflagrazione.
La dimensione guerra è in sé devastante e non può
mettere in moto nessuna risoluzione di nessun problema, mentre può
solo creare ulteriori problemi ed ampliare quelli che già ci sono.
Il tentativo di giustificarla da parte della folta schiera dei guerrafondai
democratici di turno si risolve in una menzogna.
Le loro argomentazioni vengono sistematicamente smentite dalle immagini
che i loro mass-media ci propinano quotidianamente e dal susseguirsi dei
fatti. Non mi è dato di sapere se essi sono effettivamente convinti
di ciò che politicamente sostengono e non mi interessa occuparmi
della loro buona o cattiva fede.
So invece che la guerra pacificatrice, o la guerra umanitaria, come
amano chiamare i loro interventi bellici e a cui sembrano voler ricorrere
con sempre maggior frequenza, o il voler imporre la democrazia o attuare
azioni di peacekeeping con mezzi militari, con grande sistematicità
si risolvono nell’allargamento dei conflitti e in un aumento delle tensioni,
che continuano a covare sotto la cenere.
Tutte queste affermazioni, che hanno l’aria di essere soprattutto giustificazioni
politicanti per l’opinione pubblica cui sentono di dover rendere conto,
nei fatti non sono altro che un ammasso di sonore balle, smentite dai fatti
stessi.
Ormai siamo in tanti a dirlo: la guerra, qualsiasi motivazione si porti
dietro, alimenta soltanto se stessa e, quando non si risolve in una oppressiva
schiacciante e irreversibile vittoria sul nemico, tende per sua natura
a dilatarsi, dilatando di conseguenza l’orrore e il terrore.
Se si volesse veramente por fine a questa perversa spirale, che da
millenni incombe annullando le nostre aspirazioni di pace, si troverebbe
la maniera di neutralizzare ed annullare ciò che permette la sua
perpetuazione, cioè le produzioni di armi e di tecnologie belliche
ed il militarismo.
Una società che sceglie di far a meno della guerra come strumento
di relazione politica non ha bisogno di esercito, non sa che farsene di
apparati militari e di continue forniture di strumenti di morte e distruzione
sempre più avanzati. Una società che sceglie di dedicarsi
al proprio benessere mette insieme i mezzi funzionali a rafforzare le relazioni
pacifiche, coltiva e rafforza la solidarietà e la reciprocità,
si occupa soprattutto dei bisogni di tutti i suoi componenti approntando
strumenti efficaci per aiutare i più deboli.
Basta con la prepotenza militare
Gli anarchici, che sono tali perché vogliono una libertà
autentica e per questo propugnano una società fondata sull’autogoverno
in assenza di strutture gerarchiche, rispetto a questo problema hanno sempre
proposto il rifiuto della logica militarista.
Dicono no agli eserciti, agli apparati militari ed alle strutture di
comando, mentre sostengono il principio antiautoritario della gestione
collettiva e libertaria di tutto ciò che ci riguarda. Bisogna smettere
di produrre armi, di venderle e di usarle, di ragionare in termini di supremazia
e di permettere ai pochi, ricchissimi e pieni di potere, che sono riusciti
ad avere in mano le sorti di tutti noi di continuare a decidere per tutti
e ad imporsi.
I conflitti eventuali, che guarda caso oggi sono sempre generati da
interessi economici e politici di parte, non debbono più essere
risolti con la prepotenza militare degli stati, perché alla violenza
prepotente si resiste e si cerca di rispondere come si può con le
armi che si hanno a disposizione, prolungando di conseguenza le guerre
verso esiti incontrollabili. Bisognerebbe propagare una pratica di costante
ed efficace solidarietà, praticando il dialogo, il confronto e dov’è
possibile l’accordo, all’interno di una visione di accettazione e valorizzazione
reciproche delle diversità.
Ma per far ciò bisogna crederci e predisporsi a realizzarlo.
È evidente che l’aumento e il perfezionamento continui degli apparati
bellici di distruzione non possa certamente portare a intraprendere la
strada del confronto e della ricerca della reciprocità.
Purtroppo, da sempre, noi anarchici continuano ad essere inascoltati
e derisi. Eppure, anche a livello intuitivo, non è difficile capire
che se il mondo continua ad esser governato attraverso i sistemi di potere
vigenti non potranno che permanere, se non aumentare, il degrado, l’infelicità,
la sofferenza, nonché le devastazioni cui assistiamo quotidianamente.
Se proprio non ci si vuole ascoltare perché considerati fuori
dalla realtà, almeno si tentassero altre strade ufficiali, che contino
veramente, che però, a differenza di ora, siano all’insegna di un
mutamento alle radici, chiaro ed evidente, capace di invertire la rotta
devastante che il mondo sta percorrendo con sconcertante noncuranza.
Il fatto è, mi sembra, che a livello di senso è difficile
identificare altre strade, perché la causa di una tale degenerazione
risiede innanzitutto nella voracità di dominare, di possedere e
di prevaricare che, con costanza e sempre di più, è la molla
che determina le scelte desolanti che distinguono i potenti di turno.
Per quanta buona volontà e buona fede ci possano mettere, i
dominatori del mondo, per la natura stessa delle cose che vogliono conservare,
debbono, oltre a volerlo, usare strumenti che in qualsiasi maniera portano
irrimediabilmente ai risultati che sono sotto i nostri occhi e che non
vorremmo.