di Carlo Oliva, rivista anarchica, aprile 2005
Il papa in ospedale. I giornalisti per strada. Le telecamere puntate. Tutto è pronto, ma...
Inizi di febbraio. Il papa è malato e la prima notizia del telegiornale
riguarda il suo stato di salute. Il conduttore dell’edizione di mezza sera
– siamo su RAI 3, ma potrebbe essere qualsiasi altro canale – ci guarda
con aria compunta e ci comunica che la crisi è stata superata. “E
adesso” aggiunge con un guizzo di allegria “ vi passo il nostro … – il
nome e il cognome francamente non li ricordo – che se ne sta al buio e
al gelo fuori dal Policlinico Gemelli”. E in diretta dal marciapiede antistante
l’ospedale appare sullo schermo il solito giornalista ben pettinato, con
il suo bravo giaccone tecno dal bavero rialzato, che, sbuffando nuvolette
di vapore a prova di quanto freddo faccia davvero laggiù – ci conferma
che il papa, grazie al cielo, sta meglio.
Perché quel poveretto (il giornalista, dico, non il papa) debba
sottoporsi a tanto disagio non è, a dire il vero, chiarissimo. Il
Gemelli, con tutti i pezzi grossi che è uso ospitare, è indubbiamente
provvisto di una sala stampa ben riscaldata. Se quell’inviato se ne sta
fuori al buio e al gelo, è perché ha deciso, lui o chi per
lui, che è meglio così. Suppongo che si tratti di una scelta
dimostrativa, nel senso che serve a testimoniare come nessun ostacolo e
nessun disagio possa impedire ai nostri intrepidi colleghi di fare il loro
dovere.
Già, ma di che dovere esattamente si tratta? Di quello di dare
notizie, certo, ma la notizia importante, quella che il papa sta meglio,
ce l’ha già data il conduttore da studio e di altro, in termini
informativi, non abbiamo bisogno. Per quanto il meschino resti a barbellare
al buio, non potrebbe aggiungervi nulla di significativo. Il papa sta meglio
e se, Dio non voglia, sopravvenisse una crisi, i medici certo non si precipiterebbero
in strada a comunicarlo in diretta (almeno si spera). Eppure, in questo
preciso momento, sui televisori di tutto il mondo, una quantità
di giornalisti di entrambi i sessi, variamente agghindati e debitamente
compunti, stanno annunciando in diretta da analoghe postazioni all’aperto
che non è successo niente.
Gara tra i network
Per l’occasione, i colossi del ramo hanno fatto uno sforzo speciale.
La CNN, a quanto riferisce “Repubblica”, ha mandato da Londra venti persone
in rinforzo della redazione romana. La BBC ne ha in loco trentacinque.
È giunta una squadra dalla Grecia e una dal Borneo. Ap.com, che
per prima, sembra, ha dato in diretta la notizia del ricovero, ha schierato
dodici elementi aggiuntivi e, del resto, non è un mistero che tutte
le televisioni hanno affittato da anni ogni tetto e terrazza con vista
sul Vaticano (il presidio RAI è a Borgo Angelico, a due passi da
San Pietro). “E si dice che i principali network americani abbiano affittato
da tempo immemorabile l’accesso al satellite per i primi dieci minuti di
ogni ora, per poter essere in grado di trasmettere subito.”
Siccome anche i giornalisti, ogni tanto, provano un po’ di vergogna,
né l’articolista di “Repubblica” né altri giornali specificano
che cosa debba fare tutta questa brava gente. L’unico commentatore che
ha azzardato un’ipotesi in merito è stato, che io sappia, Filippo
Gentiloni sul “Manifesto”, che notoriamente non conta. Ma, tanto, che cosa
stanno facendo lo sappiamo tutti: stanno aspettando che l’augusto paziente,
se non oggi domani, e se non domani qualche altro giorno, tolga definitivamente
il disturbo. La gara tra i network, quella che giustifica affittanze di
terrazzi e prelazioni di satelliti, è a chi sarà il primo
ad annunciare al mondo che il papa è morto. E anche se la crisi,
per ora, è passata è poco ma sicuro che da lì, finché
il pontefice sarà ricoverato al Gemelli, non li schioda nessuno.
Fa un po’ impressione – anche in questi tempi duri – l’idea di tutta
questa gente in trepida attesa della morte di un vecchio malato, come gli
avvoltoi nelle vignette o gli eredi cattivi in un feuilleton ottocentesco.
E visto che morto un papa se ne fa notoriamente un altro, pensate quante
altre persone stanno aspettando con altrettanta ansia, quali preoccupazioni
circolino ai vertici della Chiesa, che trame si stiano tessendo, quali
alleanze si stringano, che promesse vengano scambiate: in Vaticano, si
sa, la campagna elettorale è in corso da anni. Ma in Vaticano, in
fondo, fanno il loro mestiere e gli interessi dei vari prelati si possono
considerare legittimi. Su quanto sia legittimo l’interesse della stampa
e dei mezzi di comunicazione, sul fatto che anche loro stiano facendo soltanto
il proprio mestiere, forse sarebbe giusto avere qualche riserva in più.
Il diritto alla privacy spetta a tutti, anche al papa, e per quanto concerne
il pubblico, la grande comunità dei fedeli, chi si interessa comunque
alle cose di chiesa, poco dovrebbe importare che riceva la notizia in diretta
da un abbaino con vista sui palazzi apostolici o più canonicamente
attraverso un comunicato dell’ufficio stampa del Vaticano, che certo non
tarderebbe più di qualche minuto.
La logica della informazione spettacolo, ancora una volta, ha travolto
quella della informazione. Da quel punto di vista, l’inviato al freddo
sul marciapiede e i suoi colleghi appostati sui tetti sono protagonisti
allo stesso titolo dell’uomo che giace malato all’ultimo piano. Una occorrenza
luttuosa quanto si vuole, ma naturale e, ahimé, affatto prevedibile
ha assunto un valore mediatico assoluto, a prescindere da ogni considerazione
di opportunità, coerenza o necessità informativa. L’obiettivo
(non dichiarato) è ancora una volta quello di spacciare l’inevitabile
per imprevisto, l’ovvio per sensazionale, a costo di passare sul cadavere
del diretto interessato. La “vera” notizia, quando sarà data, non
sarà quella della morte del papa, ma quella di chi ha dato la notizia
della morte del papa, che rappresenta, diciamolo pure, un bel caso di autoreferenzialità
e di disinteresse (per non dire disprezzo) per i propri compiti istituzionali.
In pasto alle folle
Quanto al papa, bisogna dire che un po’ se l’è cercata. Nella grande scommessa ideologica della sua carriera, ha giocato fin dall’inizio la carta della immagine pubblica. Si è dato coscientemente in pasto alle folle, con i suoi viaggi e i suoi messaggi, i suoi interventi e le sue sofferenze, ha identificato così strettamente la funzione pontificale con la persona (e il personaggio) di Karol Wojtyla da non lasciare nessun possibile spazio alla discrezione. È il prezzo che oggi deve pagare chiunque aspiri a una posizione di preminenza: lo fanno tutti, dall’ultima delle veline al presidente degli Stati Uniti. Ma la bagarre di questi giorni ci mostra come da quella posizione sia fin troppo facile precipitare, riducendosi da soggetto a oggetto, da protagonista a comparsa, da potente a vittima. Anche quello dell’informazione è un mercato e, come tutti i mercati, è indicibilmente crudele.