di Nadje Al-Ali, "La nonviolenza in cammino", n. 1004, 27 luglio 2005
Diffondiamo il seguente intervento di Nadje Al-Ali, che conferma una delle tesi che "La nonviolenza in cammino" sostiene da anni: che la lotta per la pace e la liberazione dei popoli e delle persone richiede la scelta della nonviolenza; che l'opposizione alla guerra deve essere anche opposizione ad ogni forma di terrorismo, di dittatura, di militarismo, di autoritarismo, di maschilismo, di dominazione violenta; che occorre opporsi a tutte le uccisioni e a tutte le brutalita'. Nessuna ambiguita' e' ammissibile. Nadje Al-Ali, autorevole docente di antropologia sociale all'Istituto di studi arabi e islamici dell'Universita' di Exeter, nel Regno Unito, e' tra le fondatrici di "Act Togheter. Women's Action in Iraq", e attivista delle "Donne in Nero" di Londra
Per quelle e quelli di noi che vivono a Londra, i recenti attentati
nella capitale britannica hanno portato in casa la violenza quotidiana,
l'orrore e la paura di milioni di persone che vivono in molti posti del
mondo. Per la prima volta, sono stati i nostri parenti in Iraq che hanno
chiesto ansiosamente notizie sulla nostra salute e benessere, e non viceversa
come e' stato per anni. In questo momento l'Iraq deve essere un posto estremamente
pericoloso sia a causa delle forze di occupazione sia a causa della resistenza
armata. Altra gente in molte altre citta' del mondo convive con quella
quotidiana paura: a Baghdad, a Ramallah, a Gerusalemme o a Kabul, la violenza
anche quando non e un evento effettivo e' un peso quotidiano nella mente
di ognuno.
Sebbene molte amiche e molti amici con cui sono stata impegnata nel
contesto dell'attivismo anti-sanzioni e anti-guerra concordino che la cosiddetta
"guerra al terrore" non possa essere combattuta con le bombe, solo poche
e pochi sembrano riconoscere che non possiamo neanche combattere l'imperialismo
Usa con la violenza.
Soprattutto quando le vittime di questa violenza sono per lo piu' civili.
In Iraq, per esempio, migliaia di uomini, donne e bambini sono stati uccisi
solo perche' si trovavano a passare di la', o erano davanti a un distributore
di benzina, un supermercato, una moschea, una stazione di polizia, o in
strada, nel momento sbagliato. Possiamo definire "resistenza" gli assassinii
di civili iracheni/e, di assistenti umanitari/e stranieri/e (e, aggiungerei,
di diplomatici)? Per me, l'idea che questi assassinii siano un necessario
seppur deplorevole "sottoprodotto" della lotta contro l'imperialismo e'
contorta e perversa quanto l'infamante affermazione di M. Albright su "un
prezzo che vale la pena pagare" riferita alle migliaia di bambini/e iracheni/e
morti/e durante le sanzioni economiche nel tentativo di reprimere Saddam
Hussein.
*
Piu' chiaramente: nel mio attivismo e nei miei testi, sono stata anti-sanzioni,
anti-guerra e anti-occupazione. Ma essendo contro queste cose, non ho mai
inteso essere automaticamente a favore di qualcuno o qualcosa. Questo era
vero sia per la dittatura di Saddam Hussein in passato sia per i combattenti
che terrorizzano la popolazione irachena oggi. Cio' che ho trovato davvero
demoralizzante e frustrante quando ho partecipato ad iniziative anti-guerra
e anti-occupazione nei mesi scorsi e' la raffigurazione del mondo in bianco
e nero e la mancanza di chiarezza riguardo alla resistenza irachena.
Al recente Tribunale mondiale per l'Iraq di Istanbul, per esempio,
quasi ogni speaker ha o iniziato o finito il proprio intervento con affermazioni
del tipo: "dobbiamo sostenere la resistenza irachena". Molti speaker hanno
aggiunto che questo non era solo per combattere l'occupazione in Iraq ma
faceva parte di una piu' ampia lotta contro un neo-colonialismo, un neo-liberismo
e un imperialismo invadenti.
Ma nessuno di loro ha spiegato alla giuria di coscienza, all'opinione
pubblica e ai/alle suoi/sue delegati/e cosa intendessero per "resistenza".
Nessuno ha ritenuto necessario differenziare tra il diritto all'autodifesa
e il tentativo patriottico di resistere all'occupazione straniera da una
parte, e, dall'altra, gli indiscriminati illeciti assassinii di non-combattenti.
Ne' qualcuno ha chiesto le motivazioni e gli obiettivi di molti dei
numerosi gruppi, reti, individui e gang raggruppati troppo casualmente
sotto la "resistenza" - un termine che attraverso la mancanza di una chiara
definizione e' stato usato per racchiudere varie forme di opposizione:
da quella politica nonviolenta, fino alla resistenza armata, al terrorismo
e alla criminalita' di tipo mafioso. Ancora, non definendo e non differenziando
esplicitamente, i/le proponenti lo slogan del sostegno incondizionato hanno
finito per raggruppare insieme la maggior parte della popolazione irachena
che si oppone all'occupazione Usa ed e' impegnata in quotidiane forme di
resistenza, con cio' che resta del passato regime, le milizie irachene-islamiche,
jihad straniere, mercenari e criminali.
*
Le opinioni sulla resistenza armata variano tra la popolazione irachena
riflettendo la diversita' della societa': non semplicemente in termini
di background etnici o religiosi come vorrebbero farci credere molti commentatori,
ma diversita' in termini di classe sociale, luogo di residenza, esperienze
specifiche con il passato regime, la persistente occupazione e l'orientamento
politico. Comunque, basandomi su discorsi con amiche ed amici, familiari,
cosi' come su molti sondaggi d'opinione, sosterrei che la maggioranza delle
irachene e degli iracheni non traducono la loro opposizione all'occupazione
nel sostegno ai rivoltosi armati assassini iracheni. Trovo anche difficile
credere che la maggior parte delle irachene e degli iracheni sosterrebbe
veramente il rapimento, la tortura e l'uccisione di straniere e stranieri
a causa dell'occupazione.
Ironicamente oggi e' la mancanza di sicurezza nelle strade delle citta'
irachene che persuade molte persone, che inizialmente volevano fuori dal
paese le forze statunitensi e britanniche, a non chiedere il ritiro immediato.
Ovviamente la mancanza di sicurezza e' un effetto della recente guerra
e della persistente occupazione. Quest'ultima e' indubbiamente la continuazione
brutale di una guerra illegale che ha gia' ucciso e mutilato migliaia di
civili con numerose armi convenzionali e non. Le truppe degli Usa e della
Gran Bretagna sono state coinvolte nella tortura sistematica di prigionieri
cosi' come in altre violazioni delle convenzioni internazionali
per i diritti umani e delle leggi umanitarie. Ma il fatto e' che quando
un iracheno o un'irachena lascia la sua casa al mattino chiedendosi se
rivedra' i suoi cari, potrebbe essere un cecchino o una bomba delle forze
d'occupazione o una bomba suicida ad ucciderlo/a. Per abusare di un vecchio
cliche', le irachene e gli Iracheni si trovano tra due fuochi.
La cultura della violenza e l'ideologia fascista di fondo di molti
dei gruppi che operano sul suolo iracheno oggi non e' una percorribile
alternativa all'imperialismo Usa. Anche se noi tutti sappiamo che Bush
non e' per la liberta' e la democrazia, per favore smettiamo di chiamare
gli attentatori suicidi locali o stranieri "combattenti per la liberta'".
Non sono sicura di quanti dei sostenitori/e incondizionati/e della resistenza
resisterebbero in Iraq se i militanti responsabili di omicidi e rapimenti
di civili iracheni e stranieri dovessero prevalere.
Non c'e' dubbio che la precedente Autorita' provvisoria e poi i vari
Governi di transizione hanno perso credibilita' tra la maggior parte della
popolazione irachena. La ricostruzione e' stata incredibilmente lenta e
piena di corruzione e cattiva gestione.
I germi per una vera trasformazione politica, per la ricostruzione
di spazi politici e per un'opposizione nonviolenta all'occupazione straniera
sono stati resi sempre piu' difficili dalla violenza crescente e dall'instabilita'
create dalla rivolta.
Ma ci sono modi nonviolenti per resistere: le immagini continue di
migliaia di iracheni - uomini, donne e bambini di tutte le eta' e provenienza
- che dimostrano pacificamente per le strade dell'Iraq dovrebbero inviare
un messaggio forte al mondo: messaggio che non dovrebbe essere ignorato
a Washington o a Londra, soprattutto se gli iracheni e le irachene sono
insieme a persone di tutto il mondo che scendono in strada per solidarieta'.
Nello stesso tempo le irachene e gli iracheni, facendo pressione sul loro
governo - tanto difettoso come lo fu il processo elettorale- attraverso
associazioni della societa' civile, municipi e varie altre istituzioni,
possono resistere all'abuso straniero e all'imposizione di attori politici,
valori e sistemi economici esterni. Gli iracheni e le irachene a un livello
popolare hanno iniziato a fare gruppo, a mobilitarsi e a resistere senza
violenza, e continuano a farlo. Le attiviste donne sono state all'avanguardia
per azioni ed iniziative. Eppure, gli spazi politici sono stati ristretti
non semplicemente in funzione dell'occupazione e del tipo di governo in
carica, ma anche, e crucialmente, a causa della mancanza di
sicurezza causata dalla violenza della rivolta.
Per quelle di noi preoccupate per la perdita dei diritti delle donne,
in Iraq sono stati documentati attacchi crescenti alle donne, la pressione
a conformarsi a certi codici di abbigliamento, le restrizioni dei movimenti
e del comportamento, cosi' come casi di acido gettato sui volti delle donne,
e persino omicidi. E' estremamente miope non condannare questi tipi di
aggressioni verso chiunque; per le donne poi diventa una questione di diritto
all'esistenza.
Le donne e le "questioni delle donne", naturalmente, sono state strumentalizzate
- in Afghanistan, ma anche in Iraq. Sappiamo che sia Bush che Blair hanno
provato a utilizzare il linguaggio della democrazia e dei diritti umani,
specialmente dei diritti delle donne. Ma il loro strumentalizzare le donne
non significa che dovremmo condonare o accettare il modo in cui i militanti
islamisti stanno, da parte loro, usando simbolicamente le donne - attaccandole
fisicamente - per esprimere la loro "resistenza".
E' ora per tutte e tutti di essere molto piu' chiari rispetto a quello
che dovremmo sostenere o no. E' ora di abbandonare il sostengo incondizionato
ai terroristi e ai criminali responsabili delle uccisioni di civili irachene
e iracheni. E' ora di riconoscere che gli iracheni e le irachene sono divisi/e
in molte linee differenti e che nascondere queste differenze non aiuta
l'unita' nazionale a lungo termine. E' ora di cercare seriamente mezzi
nonviolenti di resistenza all'occupazione in Iraq e al piu' ampio imperialismo
Usa. E' tempo di dichiarare che il nemico del mio nemico non e' necessariamente
mio amico.