Antonio Moscato, "Erre", n. 38, maggio-giugno 2010
Parlare di Cuba non è semplice. Naturalmente è facile
difenderla dagli attacchi dell’imperialismo e dalle calunnie volgari dei
suoi servi, basta per questo ricordare il merito storico del suo gruppo
dirigente che, nonostante i non pochi errori fatti in diversi periodi,
le ha permesso di sopravvivere al lunghissimo assedio: il merito di aver
portato la rivoluzione fino in fondo, eliminando il capitalismo e spezzando
l’apparato statale borghese, a partire dall’esercito.
Ma non si possono ignorare le vecchie e nuove difficoltà che
l’isola attraversa in questa fase. A monte ci sono fattori oggettivi, in
primo luogo le ripercussioni della crisi economica mondiale, che ha colpito
duramente soprattutto il Venezuela, partner importantissimo per Cuba. Ma
pesa anche la rigidità di un gruppo dirigente invecchiato e sospettoso,
che non sa affrontare i segni di una crescente inquietudine.
Se ne sono fatti eco perfino i due cantautori storici della rivoluzione,
Pablo Milanés e Silvio Rodríguez, la cui fedeltà alla
rivoluzione è fuori discussione, e che sono stati anche parlamentari.
Milanés ad esempio ha detto, in un’intervista rilasciata al giornale
Público durante una tournée in Spagna, che non ha fiducia
in nessun dirigente con più di 75 anni, “perché tutti hanno
avuto i loro momenti di gloria, che sono stati molti, ma ora sono pronti
per essere pensionati. Bisogna passare il testimone alle nuove generazioni
per fare un altro socialismo, perché quello attuale si è
impantanato”. Il gruppo dirigente dovrebbe fare riforme, ha detto, perché
“le sue idee rivoluzionarie di una volta sono diventate reazionarie”, e
non lasciano avanzare le nuove generazioni. “La storia assolverà
coloro che hanno ora il potere, ma loro devono ritirarsi”. Hanno fatto
quello che dovevano a suo tempo, ma “ora non stanno facendo quello che
devono fare” E “il cubano non può più vivere di promesse”.
Milanés ha detto che molti “hanno paura di parlare perché
c’è un sistema occulto di censura” da mettere in discussione radicalmente.
Ha aggiunto, in un’altra intervista a La Voz de Galizia, di non avere personalmente
paura di niente: “sono molti anni che sto criticando apertamente quello
che a mio parere si fa male, e non ho mai percepito una rappresaglia nei
miei confronti, per cui sono sicuro di tornare a Cuba con lo stesso atteggiamento,
e di poter criticare quel che è mal fatto, ed elogiare quel che
è ben fatto”. Ma, ha aggiunto, “ci sono effettivamente casi a Cuba
di persone qualunque che hanno il mio atteggiamento e non se la cavano
bene di fronte alle autorità, medie, intermedie e anche superiori;
questo l’ho denunciato in diverse interviste e questa è una delle
ragioni per cui lotto nel mio paese”.
Pablo Milanés in un’altra intervista a el Mundo del 13 marzo
ha detto anche, a chi gli chiedeva quando ci saranno le prossime elezioni
a Cuba, che “più che elezioni, vorrei cambiamenti, perché
non credo molto nelle elezioni. Sono un gioco “democratico” tra virgolette,
che può essere una farsa.
Più o meno nello stesso periodo (il 27 marzo) in un intervista
rilasciata al giornale spagnolo Público in occasione della presentazione
del suo disco “Segunda cita” (Secondo appuntamento), dedicato al mezzo
secolo di rivoluzione guidata da Fidel Castro, Silvio Rodríguez
ha detto che Cuba "chiede ad alta voce una revisione”. Rodríguez,
considerato da molti “la voce della rivoluzione cubana”, ha detto che l’idea
di “reinventare” il sistema socialista dell’isola non è nuova, ma
“non sempre si è realizzata”.
Qualcuno dirà: sono solo due artisti: ma se possiamo sentire
solo loro, è perché, come ha spiegato Milanés, possono
parlare più di altri. Inoltre va detto che a sostenere queste aspirazioni
ai cambiamenti sono in molti, non solo scrittori, ma anche diplomatici,
a partire dall’ex rappresentante di Cuba all’UNESCO Soledad Cruz, o da
un gruppo di militanti raccolti intorno a Pedro Campos (anche lui ex diplomatico)
che hanno firmato un documento destinato al VI Congresso del PCC. Un congresso
sempre rinviato da anni: vorrà dire qualcosa?
Il loro testo l’hanno dovuto mettere in rete da Barcellona, nonostante
il contenuto non potesse essere certo presentato come “controrivoluzionario”,
a partire dal titolo: “Cuba ha bisogno di un socialismo partecipativo e
democratico. Proposte programmatiche”. È apparso sul sito http://www.kaosenlared.net/,
e anche sul mio sito
col titolo Cuba: propuestas programaticas.
Queste manifestazioni più coraggiose di spirito critico (non
di “dissenso”, brutto termine che dà per scontato che ci sia una
linea unica, eterna e inamovibile, da cui si può al massimo soltanto
“deviare”) si sono infittite dal gennaio 2007, quando coinvolsero una grande
parte dell’intellighenzia cubana in una mobilitazione via internet contro
il ritorno sulla scena di alcuni censori del passato. Sembrava che questo
“risveglio” avesse avuto l’appoggio di qualche dirigente, e dell’unione
degli artisti e scrittori, l’UNEAC, ma la direzione del PCC si è
arroccata in difesa, non ha avuto il coraggio neppure di concedere un’amnistia
per la cinquantina di oppositori rimasti in carcere dal 2003, che sarebbe
costata poco politicamente, e avrebbe reso più difficili le speculazioni
dei tanti nemici di Cuba. E ha gestito male il caso del povero Orlando
Zapata Tamayo, e della staffetta incominciata da Guillermo Fariñas,
illudendosi di contrastare la campagna internazionale facendo ripetere
a pappagallo in ogni paese da un pugno di amici e clienti le calunnie contro
i “criminali comuni” che sarebbero stati istigati al suicidio dall’imperialismo.
E di fronte alle prime manifestazioni coraggiose delle damas de blanco
ha creduto di cavarsela mandando un pugno di facinorosi ad insultarle e
spintonarle, come se questi “atti di ripudio” fossero serviti a qualcosa
al regime che li ha inventati, l’URSS staliniana e brezneviana, che li
ha esportati in tutto il mondo (compreso l’Afghanistan, dove sono stati
usati poco verosimilmente contro l’ospedale di Emergency). Sono stati imitati
anche dagli Stati Uniti in Iraq: ricordiamoci l’inutile messa in scena
dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein davanti a un centinaio
di comparse…
Per capire il panico della gerontocrazia al potere a Cuba di fronte
a ogni possibile mutamento, bisogna capire quali pericoli deve affrontare:
non le parole (per giunta ancora moderate) dei “dissidenti”, ma la loro
possibile capacità di offrire una sponda al malcontento di fronte
a una crisi poco controllabile. In febbraio Raúl Castro ha dovuto
annunciare una imminente “razionalizzazione” che consiste nell’eliminare
il già ridotto sussidio di disoccupazione nel caso i lavoratori
espulsi dalla produzione rifiutino di essere “riorientati” verso “lavori
produttivi di maggiore utilità”, cioè mandati a lavorare
in agricoltura e nelle costruzioni, indipendentemente dalla loro qualifica
ed esperienza lavorativa. Anche il pacchetto di generi assegnati tramite
la libreta, cioè la tessera, dovrebbe essere tagliato (a parte il
fatto che molti prodotti si trovano solo a caro prezzo nel mercato parallelo
in dollari o pesos convertibili).
Queste misure, non risolutive e comunque molto impopolari, vengono
annunciate e non realizzate, per timore di esplosioni sociali maggiori
di quelle del 1994. Ma intanto la situazione continua a deteriorarsi, senza
che si veda uno spiraglio di luce in fondo al tunnel. Invece di aprire
una discussione pubblica sulle misure da prendere, appena un anno fa, nel
marzo 2009, sono stati cacciati in malo modo diversi ministri. In primo
luogo Carlos Lage Dávila, che di fatto era il capo del governo e
il principale responsabile delle riforme avviate dal 1990 dopo il crollo
del sistema sovietico e Felipe Pérez Roque, ex segretario personale
di Fidel e ministro degli Esteri dal 1999, quando era stato bruscamente
accantonato il suo predecessore, Roberto Robaina, come lui giovane e per
alcuni anni considerato il "delfino" di Fidel.
Nella stessa occasione si è deciso di "liberare il compagno
José Luis Rodríguez García dal suo incarico di vicepresidente
del Consiglio dei ministri e di ministro dell'economia e pianificazione".
Tutte decisioni non facilmente interpretabili: Rodríguez era considerato
come un "riformista", più o meno come Lage, mentre Felipe Pérez
Roque era considerato esponente dei cosiddetti "talibani", cioè
dei fidelisti più intransigenti nei confronti degli Stati Uniti.
La maggior parte dei commentatori sostiene che la sostituzione del
ministro degli Esteri sarebbe stata una concessione a Obama, per facilitare
la distensione tra i due paesi e la fine dell'embargo, mentre altri sostengono
esattamente il contrario, e cioè che la sua colpa sarebbe stata
un'eccessiva apertura agli Stati Uniti. Difficile destreggiarsi in questa
selva di ipotesi, se non per dubitare della reale disponibilità
di Obama a rinunciare al principio dell'embargo, anche se è possibile
che riduca alcune delle misure restrittive agli scambi tra i due paesi
e alle rimesse e ai ricongiungimenti familiari che erano state introdotte
da Bush. D'altra parte negli ultimi anni le deroghe all'embargo si sono
accresciute, sotto la pressione degli Stati agricoli, sicché le
esportazioni di prodotti alimentari statunitensi a Cuba hanno raggiunto
dimensioni importanti, e certo non saranno ridotte in questi tempi di crisi.
Ma se possiamo rifiutare di partecipare al gioco di previsioni dei
"cubanologi", non possiamo ignorare che i metodi utilizzati per arrivare
a decisioni simili facilitino la "dietrologia". Tanto è vero che
anche a Cuba l'annuncio delle sostituzioni e destituzioni ha suscitato
sorpresa e disorientamento, soprattutto perché venivano considerate
generalmente come un colpo agli "uomini di Fidel". Non a caso il vecchio
líder máximo ha ritenuto di doversi dissociare dai due principali
dirigenti destituiti, accusandoli di essere stati attratti dal "miele del
potere, per il quale non hanno conosciuto nessun sacrificio" (allusione
alla loro non partecipazione alla guerriglia, inevitabile per l'età
relativamente giovanile soprattutto di Felipe), e che avrebbe "risvegliato
in loro ambizioni che li hanno condotti a un comportamento indegno".
Tuttavia non ci si è fermati qui. Sul "Granma", organo del partito
comunista di Cuba, è apparsa il giorno dopo una lettera di Lage
e Pérez Roque in cui dichiaravano di riconoscere gli errori commessi
e di lasciare ogni incarico, le cariche di deputato e di membro del comitato
centrale. Era già accaduto con Robaina, con Aldana, con diversi
altri dirigenti (compreso Ochoa). Ma quali fossero questi errori, non lo
dicevano e non si può sapere. L’unica certezza, ampiamente commentata
da “Radio Bemba”, è che c’era stata una divisione nel gruppo dirigente.
È un metodo inquietante, tanto più se si collega al ritorno
di uomini del passato, come Ramiro Valdés Menéndez, che fu
ministro degli interni durante il periodo più repressivo del regime,
dal 1961 al 1969, quando Fidel l’aveva allontanato dalla carica . Era stato
poi recuperato di nuovo nel 1978, ma nel 1986, all'inizio della rectificación,
era stato di nuovo destituito da Fidel Castro ed allontanato anche dall'Ufficio
Politico. Oggi ha 77 anni e ha assunto da un anno un ruolo importante (vicepresidente
incaricato del "coordinamento e controllo"), al posto del quarantenne Otto
Rivero, che era stato a lungo responsabile della "Battaglia delle Idee"
voluta da Fidel.
Una delle voci più inquietanti che circola all’Avana è
che – come fu fatto per Robaina – si prepari un processo ai ministri destituiti,
per espellerli dal partito o imprigionarli, additandoli come capri espiatori,
responsabili per il deterioramento della situazione economica.
Con quanta efficacia, è difficile dirlo. È un gioco che
è stato troppe volte ripetuto per essere convincente, quello di
scaricare le colpe (senza precisarle) su qualche ministro e qualche dirigente
del partito.
E se i dirigenti cubani si illudono di poter controbilanciare le critiche
dell’opinione pubblica internazionale appoggiandosi sui vari difensori
incondizionati e non disinteressati di cui dispongono in ogni paese (in
Italia Gianni Minà, Alessandra Riccio e Luciano Vasapollo), si sbagliano
alla grande. Indipendentemente dal modesto prestigio di cui costoro potevano
inizialmente godere, il silenzio di fronte alle epurazioni del governo
di un anno fa li ha resi ancor meno credibili.
Il prezzo dell’assenza di un dibattito pubblico
Chi ha seguito per anni le vicende del dibattito in URSS e nei regimi
sorti intorno ad essa, non ha avuto dubbi nel respingere sdegnato la denigrazione
degli oppositori, presentati in blocco come mercenari e filoimperialisti.
Il metodo era inconfondibile. Ma quella lontana esperienza ha avuto un
altro risvolto preoccupante su cui riflettere: la ripresa della discussione
dopo il XX Congresso del PCUS del 1956 aveva fatto emergere una generazione
di comunisti che ricercavano una strada originale per superare l’eredità
staliniana, senza allinearsi al presunto “antistalinismo” di Chrusciov.
Ma dopo la rivoluzione ungherese a quel “disgelo” era seguito un nuovo
irrigidimento dogmatico. Con Breznev c’era stato perfino un tentativo di
riabilitare formalmente Stalin, mai realizzato in pieno per la ferma resistenza
di alcuni grandi scienziati, soprattutto fisici, indispensabili al potere.
Intanto il soffocamento della dialettica interna alla società, aveva
sospinto in un ghetto le opposizioni, umiliate, deportate o rinchiuse in
manicomi. Non erano state sorrette da un minimo di solidarietà da
parte del movimento operaio di paesi come l’Italia, e dalla riscoperta
del leninismo nelle prime battaglie (penso al generale Grigorenko, o al
matematico Pliusc) erano approdate alla fuga nella religione e all’accettazione
del capitalismo.
È successo lo stesso in Polonia, in Cecoslovacchia, in Ungheria,
e peggio ancora in Romania e in Albania (dove è stata più
facile la farsa del”ricambio” ad opera di pezzi di apparato riciclati).
Sarà questa lo sbocco “inevitabile” del dissenso cubano? Oggi appare
frammentato, non sostenuto a livello di massa, ma cosa potrà accadere
se il governo continuerà ad avvitarsi nel suo soliloquio staccato
dalla realtà?
La campagna di denigrazione degli oppositori, al di là della
sua immoralità, può alla fine dar loro un ruolo che oggi
non hanno. Non sappiamo quanti cubani abbiano digerito le menzogne che
hanno cercato di negare ogni carattere politico alla protesta di Zapata
Tamayo e di Fariñas presentandola come dettata dall’imperialismo.
Ci sono settori della popolazione che possono essere attratti dal loro
coraggio e dalla loro tenacia, senza rendersi conto della povertà
della loro proposta politica (dietro la quale possiamo temere ci sia una
Chiesa cattolica senza meriti, ma tanto più duttile e capace di
parlare alla gente di un ceto politico sempre meno convincente per la sua
“doppia morale”).
La maggior parte dei giovani sono da tempo indifferenti, tranne quelli
inseriti in forma semiprofessionale nell’UJC, la più burocratizzata
delle organizzazioni cubane, quella che Guevara aveva deriso nel 1964 descrivendo
i “giovani dirigenti che si sono messi a pensare a ciò che dovrebbe
fare la gioventù per essere allegra…”
Gli ingenui apologeti di ogni cosa che accade a Cuba, insistono sul
numero esiguo di damas de blanco che scendono in piazza, senza capire il
coraggio che ci vuole per manifestarsi in un regime che pretende di controllare
ogni minuto della vita di ciascuno. Altri deridono il progetto Varela,
perché aveva raccolto solo qualche migliaia di firme in più
delle diecimila previste dalla costituzione per presentare una proposta,
senza capire quanto è difficile firmare quando tanti altri che sono
d’accordo non osano. Pesano più quelle tredicimila o quindicimila
firme che il 99,7% di firme estorte con i meccanismi coercitivi del controllo
organizzato dalla rete capillare di quei CDR che ho visto da vicino all’opera
e che Guevara definiva così già nel 1962: “I Comitati di
difesa, un’istituzione formatasi nel vivo della vigilanza popolare, che
esprimeva l’ansia del popolo di difendere la sua rivoluzione, si sono andati
trasformando (…) in un covo dell’opportunismo; sono diventati un’organizzazione
antipatica al popolo. Comitati di difesa della rivoluzione pieni di gentaglia,
di opportunisti di ogni risma, che in nessun momento si sono soffermati
a riflettere sul danno che stavano arrecando alla rivoluzione.” Guevara
aveva ammonito che “gli esperti nordamericani sanno sfruttare alcuni punti
deboli presenti all’interno dei governi, per progressisti che possano essere”,
che possono imboccare “la via del distacco dalle masse; quella dell’abbinamento,
a volte rigido, di misure corrette ad altre assurde; quella della soppressione
della critica, non solo la soppressione della critica di chi ha il diritto
legittimo di esercitarla, cioè il popolo, ma la soppressione della
vigilanza critica da parte dell’apparato del Partito, che è diventato
un esecutore e, per essere diventato un esecutore, ha perso le sue caratteristiche
di vigilanza, di ispezione.”
Era questo che secondo Guevara stava a monte dei “gravi errori economici”
compiuti, di cui aveva l’abitudine di assumersi la responsabilità
in prima persona. Un metodo dimenticato da chi crede che i dirigenti siano
infallibili…