di Domenico Moro, sollevazione.blogspot.it, 1 settembre 2012
Nel 1981 la Banca d’Italia divorziò dal Tesoro e praticamente
cessò di acquistare Titoli di Stato. Da allora essi vennero dati
in pasto, con interessi crescenti, prima al mercato interno, e poi alla
speculazione finanziaria mondiale. Perché questo avvenne? Quali
le conseguenze?
In questi giorni la stampa tedesca ha attaccato con forza Draghi. Sulla
Frankfurter Allgemeine Zeitung, Holger Steltzner, lo ha accusato di voler
trasferire alla Bce i metodi della Banca d’Italia. Questa sarebbe al servizio
dello Stato, di cui alimenterebbe le casse. Se ora la Bce finanziasse i
debiti statali acquistandone i titoli, scatenerebbe l’inflazione e aggraverebbe
la crisi dell’eurozona.
Come ha fatto notare anche il Sole 24ore, le critiche di Steltzner
alla Banca d’Italia sono infondate. A partire dal 1981 la Banca d’Italia
( su decisione di Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi) ha “divorziato”
dal Tesoro e non è più intervenuta nell’acquisto di titoli
di Stato. Ciò che non viene detto, però, è che quella
lontana decisione contribuì a produrre non solo l’enorme debito
pubblico ma anche il primo attacco ai salari. L’attuale debito pubblico
italiano si formò tra gli anni ’80 e ’90, passando dal 57,7% sul
Pil nel 1980 al 124,3% nel 1994. Tale crescita, molto più consistente
di quella degli altri Paesi europei, non fu dovuta ad una impennata della
spesa dello Stato, che rimase sempre al di sotto della media della Ue e
dell’eurozona e, tra 1991 e 2005, sempre al di sotto di quella tedesca.
Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito –
il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso
periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6%
e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava
allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per interessi
sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli
altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel
1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre
nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella
dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%.
Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse fu addirittura triplo,
il 13% in Italia contro il 4,4% della zona euro e il 4,3% della Ue. La
crescita dei debiti pubblici dipende da molte cause, soprattutto dalla
necessità di sostenere le crisi e la caduta dei profitti privati
che, dal ’74-75, caratterizzano ciclicamente i Paesi più avanzati.
Tuttavia, è evidente che politiche sbagliate di finanza pubblica
possono rendere ingestibile la situazione del debito, come è avvenuto
in Italia. Visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di
stato, ovvero quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla
domanda dei titoli stessi, l’eliminazione di una componente importante
della domanda, quale è la Banca centrale, ha avuto l’effetto di
far schizzare verso l’alto gli interessi e, quindi, di far esplodere il
debito totale.
Inoltre, la mancanza del cordone protettivo della Banca d’Italia espose
il nostro debito alle manovre speculative degli investitori internazionali.
Fu quanto accadde nel 1992, quando gli attacchi speculativi alla lira costrinsero
l’Italia ad uscire dal Sistema monetario europeo e a svalutare. Insomma,
non solo Steltzner ha torto riguardo alla Banca d’Italia, ma è il
principio stesso dell’“autonomia” della Banca centrale, da lui tanto tenacemente
difeso, ad aver dato per trent’anni in Italia gli stessi risultati negativi
che ora sta producendo nell’eurozona.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto quale fu la ragione del divorzio
tra Banca d’Italia e Tesoro. Ce lo spiega il suo autore, l’allora ministro
del Tesoro Beniamino Andreatta. Uno degli obiettivi era quello di abbattere
i salari, imponendo una deflazione che desse la possibilità di annullare
“il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dall’accordo
tra Confindustria e sindacati”. Infatti, nel 1984 con gli accordi di San
Valentino la scala mobile fu indebolita e nel 1992 definitivamente eliminata.
Anche oggi, come allora, le presunte “necessità” di bilancio pubblico
sono la leva attraverso cui ridurre il salario, in Italia e in Europa.
Con la differenza che oggi l’attacco si estende al salario indiretto, cioè
al welfare.