Domenico Moro*, dal sito http://www.economiaepolitica.it, 27 ottobre 2010
Il problema della pressione fiscale è molto avvertito nel nostro
Paese, soprattutto per il peso eccessivo a carico dei lavoratori dipendenti
e dei redditi più bassi. Sotto questo aspetto gli interventi recenti
non hanno migliorato le cose, preoccupandosi di ridurre il numero degli
scaglioni dell’Irpef nazionale, introdurre addizionali Irpef regionali
e aumentare la tassazione indiretta, cioè sui consumi.
La riduzione a cinque degli scaglioni Irpef ha limitato la progressività
della tassazione diretta, quella sui redditi, che pesa sui lavoratori dipendenti.
Inoltre, le addizionali Irpef regionali, al contrario dell’Irpef nazionale,
non rispettano per nulla il criterio di progressività. Ad esempio,
nel Lazio l’aliquota addizionale è dell’1,4% per tutti i redditi.
Anche in Veneto c’è una sola aliquota, ma è dello 0,9%. In
Piemonte, invece, ci sono tre aliquote che però variano in modo
non progressivo. Ad esempio, coloro che hanno un reddito inferiore a 15mila
euro pagano lo 0,9%; l’aliquota passa all’1,3% con un reddito oltre 15mila
euro e all’1,4% oltre i 22mila euro; ma sempre su tutto l’imponibile e
non, come avviene a livello nazionale, solo sulla parte che eccede lo scaglione
precedente. Il panorama delle addizionali è insomma una vera giungla,
in cui ogni regione adotta criteri propri, aumentando la confusione - anche
a causa dell’intricato ventaglio di deduzioni (18) detrazioni (39) ed esenzioni
fiscali (46) - e la disparità di trattamento dei cittadini-contribuenti
lungo lo stivale.
A tutto questo si è aggiunto l’aumento della pressione delle
tasse indirette sui consumi, dall’Iva alle accise, ai pedaggi autostradali.
Scegliere di aumentare le tasse indirette appare un buon escamotage per
governi attenti al consenso, in quanto appaiono più “neutre” e sono
meno evidenti agli occhi di chi le subisce rispetto alla tassazione diretta.
C’è però un grave neo: non sono progressive cioè pesano
ugualmente su tutti, su Montezemolo e su Cipputi, che, quando comprano
un prodotto o un servizio, pagano la stessa tassa, pur avendo redditi molto
differenti.
Il risultato di queste misure è una tassazione fortemente ingiusta
dal punto di vista sociale, ed anche anticostituzionale. Infatti, la Costituzione
all’articolo 53 afferma che le tasse devono essere progressive, devono
aumentare all’aumentare del reddito.
In un quadro siffatto il dibattito recente ha portato molti a concludere
che il federalismo potrebbe allentare la pressione fiscale e risolvere
la carenza di servizi-infrastrutture in cui versa il nostro Paese, costringendo
la classe politica a più efficienti allocazioni delle risorse. Ma
sarà veramente così? O non si rischia di accentuare le inique
tendenze della fiscalità degli ultimi anni?
Per appurarlo vediamo cosa prevede lo schema di Decreto legislativo in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario, approvato recentemente dal consiglio dei ministri (D.Lgs. 11/10/2010). In primo luogo, emergono i seguenti punti:
• Aumento delle tasse. Il decreto prevede la possibilità per
le amministrazioni locali di aumentare ancora la tassazione diretta. Il
tetto dell’addizionale regionale Irpef sarà dell’1,4% fino al 2013,
del 2% dal 2014, e del 3% dal 2015 (art. 5, comma 1). A questo proposito
è falso quanto riportato da alcuni giornali, secondo cui i primi
due scaglioni di reddito sarebbero stati esentati dall’aumento. In realtà,
sempre l’art. 5, al comma 2, dice che “la maggiorazione oltre lo 0,5 per
cento non deve comportare aggravio, sino ai primi due scaglioni di reddito”.
Se ne ricava che una maggiorazione entro lo 0,5% è prevista per
tutti.[1]
• Redistribuzione del reddito nazionale a favore delle imprese. Mentre
la tassa sui redditi da lavoro dipendente, l’Irpef, aumenterà, è
prevista la riduzione e finanche l’azzeramento dell’Irap, la “tassa” pagata
dalle aziende per la salute di chi lavora. Fra l’altro è falso che
l’Irap non può essere ridotta se viene aumentata l’Irpef, perché
all’articolo 4 comma 3 si dice solo che, in caso di riduzione dell’Irap,
l’aumento dell’Irpef non può superare lo 0,5%. È da notare,
infine, che l’Irap non è propriamente definibile una tassa. Rappresenta
il vecchio contributo alla assistenza sanitaria dei lavoratori che nel
1997 venne inclusa, insieme ad altre voci, nell’Irap. Si tratta in pratica
di una parte del salario, quella “indiretta”, pagata in servizi pubblici.
• Riduzione della progressività della tassazione. Col federalismo
fiscale aumenterà l’importanza dell’Iva e delle altre imposte indirette,
come l’accisa sulla benzina e la tassa automobilistica, perché queste
dovranno compensare la soppressione dei trasferimenti dello Stato centrale
alle regioni (articoli 14 e 15). Con l’Iva, ad esempio, si alimenterà
il fondo perequativo per le spese regionali (art. 11, comma 5). Si viene
così a creare un meccanismo che spingerà ad incrementare
proprio la tassazione sui consumi, ovvero la tassazione per eccellenza
non progressiva.
Quali saranno le conseguenze sociali del federalismo fiscale? Saranno gravi da almeno tre punti di vista:
• Aumenterà il gap tra salari e profitti. Negli ultimi venticinque
anni l’8% della ricchezza nazionale si è spostato dai salari ai
profitti[2]. Con il federalismo fiscale il divario si allargherà.
Il salario diretto verrà decurtato con l’aumento del tetto dell’addizionale
Irpef e quello indiretto con la riduzione dei servizi pagati con l’Irap.
Nello stesso tempo i profitti, sgravati interamente o parzialmente dall’Irap,
aumenteranno. Il divario si aggraverà - è bene precisarlo
- anche al Centro-Nord, proprio perché le regioni con meno difficoltà
di bilancio e con l’addizionale Irpef allo 0,9%, saranno maggiormente invogliate
a favorire le imprese, tagliando l’Irap, e a compensarla, aumentando l’addizionale
Irpef.
• Aumenterà il gap tra regioni del Sud e del Nord. Non solo
in termini di divario nella qualità dei servizi e nella disponibilità
di infrastrutture. C’è un altro aspetto che non è stato considerato:
la riduzione e ancor di più l’abolizione dell’Irap faciliteranno
l’attrazione degli investimenti. E, dal momento che solo le regioni con
bilanci in attivo, cioè quelle più ricche del Nord, potranno
farlo, il Sud subirà un’ulteriore riduzione dell’afflusso dei capitali
e una accentuazione della fuga già consistente della produzione
verso il Nord. Il Pil del Mezzogiorno, sceso nel 2009 al livello minimo
dall’Unità d’Italia (23,2% sul totale nazionale)[3], rischia un
ulteriore tracollo.
• La sanità pubblica sarà gravemente ridotta. Con il
federalismo si potrà ridurre l’Irap solo se i conti sono in regola
e/o in presenza di tagli massicci alla spesa, ovvero con la riduzione del
servizio. Già oggi si stanno chiudendo reparti e interi ospedali,
con il federalismo fiscale ci sarà una vera ecatombe. Molti territori
di provincia saranno costretti a fare capo alle strutture sopravvissute
lontane decine di chilometri, con tutto ciò che ne consegue. Molti
lavoratori rimarranno senza assistenza, con il non trascurabile effetto
che la sanità privata avrà più spazi.
Ci sarà, dunque, una spinta a diminuire le tasse alle imprese,
che è il vero obiettivo del federalismo, ed è per questa
ragione appoggiato da Confindustria. Di conseguenza, si compenserà
il taglio alle aziende con la riduzione dei servizi e/o con l’aumento dell’addizionale
Irpef e delle tasse sui consumi, anche perché il taglio dell’Irap
è a carico esclusivo delle regioni (art.4, comma 2).
Il vero nodo della fiscalità italiana è la più
alta evasione fiscale d’Europa, stimata in 100 miliardi di euro, ovvero
il 7% del Pil, un dato superiore al deficit pubblico, che ammonta al 5,2%.
I maggiori responsabili dell’evasione sono gli industriali (32%), e l’incremento
maggiore degli evasori nel 2010 si è registrato al Nord, in particolare
nelle virtuose Lombardia (+10,1%) e Veneto (+9,2%)[4]. La questione fiscale
è e diventerà sempre più importante nel nostro Paese
e in generale nei Paesi più avanzati. Naturalmente è questione
cruciale nella determinazione del salario reale complessivo, riguardando
il salario indiretto ed il welfare, che è sotto attacco in tutta
la Ue. E poi, con il permanere della crisi e la pressione dei mercati a
ridurre deficit e debiti pubblici, la spinta ad aumentare le tasse rischia
di essere sempre più forte. Quindi, decidere chi e in che misura
deve pagare le tasse sarà decisivo.
* Economista, consulente Filmcams-Cgil.
[1] Bisogna, inoltre, considerare che, al di là dei
primi due scaglioni Irpef, il cui limite massimo è stato abbassato
dal governo Berlusconi da 29 a 28mila euro lordi, l’aumento colpisce molti
lavoratori. Infatti, 28mila euro corrispondono a poco più di 1400
euro per 14 mensilità di un lavoratore single o a 1500 euro per
un lavoratore con coniuge e un figlio a carico. Quindi, percepire
importi di 1500 euro o di 1600 euro, non certo redditi da nababbi, comporta
il ricadere in aumenti al di sopra dello 0,5%.
[2] L. Ellis – K. Smith, The global upward trend in the profit share,
Bank for International Settlements, luglio 2007. Vedi anche M. Ricci, Il
declino degli stipendi, la Repubblica, 3 maggio 2008, e M. Mucchetti, “Torna
il tema della redistribuzione”, Corriere della Sera, 24 agosto 2008.
[3] Per i dati storici vedi di Vittorio Daniele e Paolo Malanima,
“Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)”,
Rivista di politica economica anno XCII – serie III, marzo-aprile 2007
fascicolo III-IV, p.267-seguenti. Per il dato 2009 vedi il Sito web dell’Istat,
Tabella allegata a Istat -Statistiche in breve, Principali aggregati dei
conti economici regionali anno 2009, 28 settembre 2010.
[4] Sportello del contribuente (Contribuenti.it-Associazione contribuenti
italiani), Rapporto del contribuente 2010.