Maurizio Matteuzzi, "il manifesto", 1 febbraio 2007
Molte cose sono cambiate e stanno cambiando, ma in fondo una parte importante del retaggio del pinochetismo è ancora ben salda nel Cile «socialista e moderato». Nonostante l'anomalia di Michelle Bachelet Con i soldi del rame il governo potrebbe facilmente ricomprarsi alcuni dei servizi pubblici essenziali venduti da Pinochet, o mettere mano alle pensioni pubbliche e private, entrambe miserabili, o rispondere alle domande degli studenti. Ma non fa niente di simile
Strano paese il Cile. Da lontano questo che, geograficamente e psicologicamente,
è uno dei paesi più «lontani» al mondo, è
visto in modi molto diversi, a volte opposti.
Da 17 anni, dopo il ritorno della democrazia nel 1990, è governato
da una coalizione di centro-sinistra - la Concertacion por la democracia
- e da 7 da un presidente socialista - prima Ricardo Lagos e ora Michelle
Bachelet - dopo i primi due democristiani - Patricio Aylwin e Eduardo Frei;
eppure le sue fondamenta politiche e soprattutto economiche sono ancora
quelle gettate con il sangue e il terrore dal generale Pinochet e dai Chicago
boys nei 17 anni precedenti della dittatura militare.
La sua stabilità politica e soprattutto economica strappa l'ammirazione
e l'invidia degli altri paesi dell'America latina e gli elogi degli Stati
uniti e dell'Europa; eppure ostenta orgogliosamente, quasi sfacciatamente,
quel neo-liberismo che altrove, dopo tanti disastri, viene infine contestato,
contenuto, respinto. Finalmente, in dicembre, è schiattato Pinochet;
eppure il vecchio macellaio e ladrone ha potuto andarsene all'inferno senza
aver mai ricevuto una condanna penale, a eterno scorno della giustizia
(e della democrazia) cilena e l'esercito - si assicura - nonostante qualche
pantomima di facciata, continua a essere «per l'80% pinochettista».
Qualche militare torturatore e assassino è andato sotto processo
ed è finito in galera ma il governo e il parlamento non hanno trovato
finora il coraggio di proclamare la nullità di quell'obbrobrio legale
ed etico che è la legge di auto-amnistia imposta dal regime nel
1978, come è accaduto nell'Argentina di Kirchner, come ha imposto
in ottobre la Corte inter-americana per i diritti umani e come al momento
di insediarsi si erano impegnati a fare tutti i presidenti democratici
da Aylwin in poi. Il tempo della «democrazia limitata» sembra
ormai passato, il presidente della repubblica ha recuperato il potere di
nominare e revocare i comandanti delle forze armate, il senato si è
liberato dei 9 senatori non eletti ma «designati» in grado
di bloccare qualsiasi riforma sgradita dell'ancien regime; eppure, nonostante
gli impegni formali di ogni nuovo presidente, finora non si è trovato
il modo di rivedere il perverso sistema maggioritario binominale che consente
alla destra di avere quasi lo stesso numero di deputati con la metà
dei voti e, in questi ultimi 17 anni democratici, ha tenuto fuori dal parlamento
i poveri comunisti che, pur con tutti i loro limiti politici, alle elezioni
parlamentari del dicembre 2005 ebbero il 7,4% e che a ogni ballottaggio
presidenziale sono per così dire «costretti» a riversare
il loro voto, spesso decisivo, sul candidato di centrosinistra per sbarrare
la strada alla destra, ma a titolo completamente gratuito.
Da 15 anni l'economia cilena cresce a un ritmo sostenuto - 4,5% nel
2006, 5-6% previsto per il 2007 - e l'inflazione è estremamente
bassa - 2,6% -, il rame tira a più non posso alla Borsa metalli
di Londra e sui mercati internazionali, nonostante «l'oro rosso»
non ne rappresenti più di un terzo, le esportazioni sempre nel 2006
hanno battuto ogni record - 60 miliardi di dollari - e la banca cilena
ha esibito livelli favolosi di profitti, il 19%, che secondo la Superintendencia
de Bancos y Instituciones Financieras la collocano «in posizione
leader a livello internazionale davanti alle banche di America latina,
Asia, Stati uniti e dei paesi emergenti d'Europa». Gli investimenti
stranieri sono aumentati di più del doppio l'anno scorso - 3,4 miliardi
di dollari solo fra gennaio e agosto contro 1,9 miliardi di tutto il 2005
- la povertà, che era il prezzo da pagare al modello di Chicago
e che nel 1987 era al 50% della popolazione, pare si sia ridotta al 15%
l'anno passato; il Wall Street Journal pone il Cile all'undicesimo posto
nel mondo (su un totale di 128 paesi) nell'indice di «economic freedom
2007», eppure nell'indice di «diseguaglianza» l'Onu lo
piazza al centotredicesimo posto. La povertà è diminuita,
la diseguaglianza no, anzi probabilmente è aumentata.
Il Cile, visto da lontano, riceve elogi dal diavolo e dall'acqua santa,
da moros y cristianos. In una fase in cui sta riemergendo il «populismo»,
il peggior anatema possibile nel gergo politico corrente - Chavez, Morales,
in qualche misura lo stesso Lula - il pallido e austero centrosinistra
cileno piace a destra e a sinistra. E a sinistra piace sia ai moderati
sia ai radicali. E' piaciuto al ministro degli esteri Massimo D'Alema,
che è venuto qui in dicembre, e sembra piacere al presidente della
camera Fausto Bertinotti, che proprio da Santiago ha iniziato il suo tour
latino-americano e che martedì, dopo un incontro alla Moneda con
la presidenta, ha parlato di «riformismo forte» e di «grande
attenzione sulla lotta alla povertà e alle diseguaglianze».
Giusto un anno fa Michelle Bachelet, nel ballottaggio, travolse il
candidato della destra post-pinochettista Sebastian Piñera diventando
la prima donna presidente in un paese marcatamente machista. Cosa è
cambiato dopo un anno? Il Cile, fra tante cifre generalmente sfavillanti,
ha cominciato a pagare il «debito sociale», quel pesantissimo
fardello da cui nei suoi mille giorni grandiosi e tragici Salvador Allende
aveva cercato di sgravare il paese?
Michelle, figlia di un generale dell'aviazione fatto morire dai suoi
commilitoni perché si era opposto al golpe dell'11 settembre, detenuta
e torturata dalla polizia pinochettista nel lager di Villa Grimaldi, esiliata,
socialista anomala, donna single con tre figli a carico, medico pediatra,
agnostica in un paese bigotto, era una novità non da poco. Non prometteva
l'altro mondo, anzi parlava di «continuità» dell'intoccabile
modello, ma (un po' ambiguamente) di continuità nel superamento.
Sembrava in certa misura un outsider rispetto ai partiti, che anche qui
sono assai screditati e in forte deficit di rappresentanza. Di certo sprizzava
simpatia personale, pur con un carattere che dicono per nulla facile, e
una forte sensibilità sociale. Al momento di insediarsi alla Moneda,
l'11 marzo scorso, dovette scontare il fatto di essere cresciuta sotto
l'ala e di succedere a Ricardo Lagos, il primo socialista tornato alla
presidenza dopo Allende e Pinochet, che 4 anni prima era stato accolto
con molta diffidenza dai militari e dall'establishment economico ma che
4 anni dopo aveva chiuso con le fanfare della sinistra e della destra moderate
e con il velenoso epitafio di Guillermo Teillier, il leader del Pc dopo
la morte di Gladys Marin: «Il miglior presidente che la destra abbia
avuto».
In un anno «la Presidenta», come qui la chiamano ora dopo
averla chiamata per anni «la Doctora», non si può dire
abbia fatto molto ma neanche che non abbia fatto nulla, ben attentata a
non rompere o anche solo intaccare il modello, garantito dal ministro delle
finanze Andres Velasco, un neo-liberista confesso, con laurea a Harvard
e master al Mit. Velasco, leader di Expansiva, un think tank di Harvard
boys, ha tenuto ferma la barra nella direzione di sempre. Nel 2006 il Cile
ha avuto un superavit fiscale di 14 miliardi di dollari, pari più
o meno alla metà del prodotto interno lordo.
Ma i socialisti cileni non sono come «il socialista del ventunesimo
secolo» Hugo Chavez, il «populista» che spende e spande
i miliardi dell'oro nero per l'educazione, la sanità, le case ai
poveri del Venzuela. Loro i miliardi dell'oro rosso li mettono da parte,
al sicuro nei buoni del tesoro americano o nei fondi d'investimento che
maneggiano le pensioni privatizzate. Per paura che altrimenti torni a innescarsi
l'inflazione o, peggio ancora, che si pensi di voler toccare il modello.
«Con quelle risorse il governo potrebbe facilmente ricomprarsi
alcuni dei servizi pubblici essenziali venduti da Pinochet o mettere mano
alle pensioni pubbliche e private che sono entrambe miserabili o rispondere
alle domande degli studenti che sono scesi in strada, e che torneranno
in strada appena finiranno le vancanze estive, per chiedere l'abolizione
della Loce, la legge imposta da Pinochet che ha cacciato la scuola, storicamente
pubblica in Cile, nelle mani dei privati, con esiti disastrosi»,
dice un amico, direttore di un giornale di qui ma evidentemente poco in
sintonia con il mood prevalente nel governo amico.
Bachelet ha ristabilito l'antica «rete di protezione sociale»
dell'era pre-Pinochet, ha raddoppiato le pensioni pubbliche, ha fronteggiato
le prolungate proteste degli studenti delle secondarie - i «pinguini»
- mettendo al lavoro una commissione che dovrebbe presentare delle proposte
di riforma della Loce pinochettista. Ma la protezione sociale è
a livelli infimi, le pensioni pubbliche pure. E non si parla affatto di
abolire quell'autentica truffa che si sono dimostrate le Administradoras
de fondos de pensiones (Afp), la brillante invenzione commissionata nel
1980 da Pinochet a un genio della libertà di mercato chiamato José
Piñera, il fratello maggiore di Sebastian, che non contento dei
disastri provocati in patria va ora in giro per il mondo a diffondere il
verbo (forse dopo gli Stati uniti e l'est europeo post-comunista, potrebbe
chiamarlo a consulto anche il governo di centro-sinistra italiano). Anche
della legge sull'insegnamento privato in discussione è la sua riforma,
non l'abolizione.
«Non è vero che non vogliamo cambiare il sistema binominale
perché alla fine favorisce anche i partiti della Concertacion -
dice Antonio Leal, antico amico e compagno comunista tornato in patria
dal lungo esilio in Italia e attualmente presidente della Camera per il
Ppd, Partido por la democracia, tenuamente socialdemocratico. Con il proporzionale,
alle elezioni del dicembre scorso, non sono solo i comunisti che avrebbero
ottenuto fra i 5 e i 9 seggi, anche la nostra coalizione avrebbe avuto
4 o 5 seggi in più. E' che non abbiamo i numeri in parlamento per
cambiare la legge elettorale». Per questo, anche in questo caso,
è stato messo in piedi un «tavolo di consultazioni»
parlamentare cercando di tirare dalla parte giusta se non la Udi, il partito
del pinochettismo duro, Renovacion nacional, il pinochettismo morbido di
Sebastian Piñera che guarda al 2004 per ritentare la scalata alla
Moneda e ha bisogno di riconvertirsi a un centro moderato - chissà,
magari convergendo con la Dc nel caso le fibrillazioni interne alla Concertacion,
ora che non c'è più il collante dell'opposizione a Pinochet,
porti alla rottura della coalizione di centro-sinistra.
Ma, finora, al momento di decidere gli interessi di bottega (e del
business) hanno sempre impedito di voltare pagina.
Anche qui nel Cile così «moderno», libero dal «populismo»
latino-americano, neo-liberista all'americana in economia, molto «europeo»
in politica, i partiti appaiono sempre di più staccati dalla società,
macchine di potere e di corruzione auto-referenziali.
Per questo Michelle piace meno all'establishment e più «alla
gente», che la vede come una di loro con quella sua aria un po' naïve
e con la sua sensibilità sociale che qualche giorno fa l'ha portata,
per dirne una, a imporre con un decreto presidenziale, contro la chiesa
che grida all'aborto e una prima sentenza della corte costituzionale, l'adozione
della pillola del giorno dopo per le ragazze dai 14 anni in su pur senza
l'assenso dei genitori. Anche se in questo primo anno, dice sempre l'ostinato
amico direttore di giornale, «non ha fatto niente di sinistra»,
il suo indice di gradimento è risalito - ora veleggia intorno al
55% - e in un sondaggio sui 10 personaggi politici più popolari
è lei in testa, mentre il primo della destra, il solito Piñera,
arranca all'ottavo posto.
Strano paese, il Cile. Piccoli passi, spesso impercettibili: difficile
capire verso dove ma comunque piuttosto lontani, in apparenza e nonostante
le cifre altisonanti, da quello che Fausto Bertinotti chiama con una bella
espressione «il rinascimento dell'America latina». E' come
se il trauma del '73 e gli orrori dei 17 anni successivi non siano stati
mai superati del tutto. Una sorta di paura inconscia. Pinochet è
morto, il pinochettismo non ancora.