Giulio Marcon, "il manifesto" 1 febbraio 2007
Per gli storici le guerre nei Balcani hanno avuto origine in Kosovo
e lì sarebbero finite. Basta che in Kosovo non ricomincino. E' il
timore che nasce alla presentazione a Vienna del rapporto (ancora «segreto»)
dell'inviato Onu, Martti Ahtisaari, al Gruppo di contatto (Usa, Francia,
Germania, Gran Bretagna, Italia e Russia) che - unilateralmente, senza
il consenso del governo serbo - prefigura l'indipendenza della attuale
provincia serba e che domani presenterà a Belgrado creando scompiglio
mentre si decide il nuovo governo.
Si tratterebbe (al condizionale, perché le conclusioni del rapporto
dovrebbero diventare una risoluzione del Palazzo di Vetro a fine marzo)
del riconoscimento di un nuovo stato su base etnica, che non dà
alcuna garanzia - riconoscono gli stessi paesi occidentali - del rispetto
delle minoranze etniche. La Nato appoggia il rapporto e la Russia si oppone.
D'Alema si barcamena e parla di «delicata situazione» e afferma
che «ci sono dei rischi di destabilizzazione da non sottovalutare».
Rischi che sarebbe stato meglio non sottovalutare anche nel marzo del 1999
quando l'allora premier appoggiò un intervento armato non autorizzato
dall'Onu, fuori dalla legalità internazionale e che ci ha portato
alla delicata situazione attuale.
L'eventuale indipendenza del Kosovo sarà non negoziata e non
consensuale e oltre a scatenare una reazione, dai contorni non prevedibili
della parte serba (sia in Kosovo che in Serbia) aprirebbe un vaso di Pandora
di amare sorprese. Il leader della Republika Srpska, il moderato Milorad
Dodik, è pronto a rivendicare il diritto di separarsi (e magari
di unirsi alla Serbia) dalla Bosnia Erzegovina, gli albanesi di Macedonia
(un quarto della popolazione) sarebbero spinti alla secessione che promettono
da tempo. E la Russia di Putin si sentirebbe autorizzata a sostenere tutte
le secessioni di regioni russofone (Abkhazia e Ossezia del Sud in Georgia,
Transinistria in Moldova, ecc.) di altri paesi, oggi in conflitto con i
governi autoctoni. L'effetto domino dai Balcani al Caucaso è assicurato.
E forse anche all'Unione europea: un caso tra tutti, quello dei baschi,
in Spagna, che sarebbero invogliati a richiedere un eguale trattamento.
In compenso altri paesi che rivendicano il riconoscimento della propria
statualità vengono tenuti in sala d'attesa per decenni: vedi la
Palestina o il popolo Sahrawi. La politica dei «due pesi, due misure»
è un classico di una idealpolitik (tutta, a parole, diritti umani
e democrazia) a geometria variabile, spesso solo ipocrisia e paravento
di una realpolitik fondata sui rapporti di forza.
Stupisce del rapporto di Ahtisaari l'assoluta schizofrenia tra principi
e realtà. Si dichiara di volere una soluzione negoziata (con Pristina
e Belgrado) e poi la si vuole imporre a Belgrado in modo non negoziato
(un po' come andò a Rambouillet, prima della guerra del 1999). Si
pone come condizione, per il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo,
l'esistenza di accettabili standard per il rispetto dei diritti umani e
le minoranze ma - verificato che questi non ci sono - si intende procedere
lo stesso sperando che in futuro le cose possano cambiare. Si invoca il
principio della multietnicità, ma ci si avvia a riconoscere uno
stato monoetnico. E' una storia, già vista dal 1991 quando, invece
di difendere la multietnica della Jugoslavia, l'Europa preferì appoggiarne
lo sgretolamento su base etnica. Ci sono alternative per il Kosovo? Alcuni,
come l'Osservatorio su Balcani, hanno fatto la proposta - importante, su
cui lavorare - della prima «Regione d'Europa» con un suo status
particolare. Ma c'è un nodo di fondo: se si dice che serve il consenso,
allora bisogna negoziare e negoziare senza imposizioni frettolose e senza
ultimatum. Se si affermano i principi della multietnicità e dei
diritti umani, allora nessuno stato può essere riconosciuto finché
non li rispetti. L'Europa e l'Onu sono ancora prigionieri degli errori
fatti nei Balcani negli anni '90. Non bisogna farne altri. Una politica
per Balcani non può essere fondata su nuovi stati etnici e nazionalismi,
ma su politiche di pace, integrazione e cooperazione che riposano sul rispetto
dei diritti umani, delle minoranze e la rinuncia all'uso della forza. Valgono
per tutti. E senza cedere a nuovi ricatti.