Guido Liguori, "il manifesto", 2 marzo 2012
Atto primo. Esce il libro su Antonio Gramsci di un linguista molto noto e già benemerito per gli studi gramsciani, Franco Lo Piparo. Sostiene che Gramsci fu incarcerato, oltre che dai fascisti, dal suo partito. A confronto di Togliatti, Mussolini vi riveste i panni del protettore del povero Gramsci: sembra quasi che quest’ultimo sia rinchiuso in un carcere sovietico e il duce stia facendo di tutto per liberarlo. Interpretazioni paradossali, ma non nuove, già al centro delle campagne storiografiche craxiane e anti-comuniste degli anni Ottanta. Nuova è invece la tesi che Togliatti avrebbe addirittura fatto sparire un quaderno, scoop desunto dalle contraddittorie testimonianze d’epoca, che parlano a volte di trenta, a volte di trentacinque, a volte di trentaquattro quaderni. Strano che prima di Lo Piparo questa geniale osservazione fosse sfuggita a quasi settant’anni di interpretazioni. Non mi soffermo su questo perché ho già parlato del libro sul manifesto del 2 febbraio. Va aggiunto però che la Repubblica – in genere parca nell’occuparsi di Gramsci – ha dedicato al libro (in data 28 gennaio) una recensione a tutta pagina, sposandone più o meno esplicitamente tutte le tesi.
Intolleranti e violenti
Atto secondo. Dario Biocca scrive per una rivista di storia («Nuova
storia contemporanea», alfiere del «revisionismo storiografico»
made in Italy) un saggio in cui sostiene che Gramsci, per ottenere la libertà
condizionale, si sarebbe appellato a un articolo di legge imperniato sul
«ravvedimento» del detenuto. Insomma – questo è quanto
si vuole sostenere – emergerebbe un Gramsci che alla fine si sarebbe piegato
al fascismo, sia pure per sopravvivere, contro la tradizione che vorrebbe
il leader comunista sempre indisponibile a chiedere la grazie per non apparire
un capitolardo. Anche in questo caso, il saggio viene ampiamente «anticipato»,
ovvero parzialmente riprodotto, dal quotidiano di cui sopra (in data 25
febbraio). Non si potrà più dire che non parli di Gramsci!
Atto terzo (e gran finale?). Roberto Saviano, ancora su la Repubblica
(28 febbraio), prendendo spunto da un pamphlet su Gramsci e Turati di Alessandro
Orsini (Rubbettino editore), ovvero su tradizione comunista e tradizione
riformista, riporta alcune affermazioni di Labriola, Gramsci e Togliatti
che, staccate dal loro contesto storico, fanno apparire i tre esponenti
della tradizione marxista e (gli ultimi due) comunista come antesignani
di ogni intolleranza violenta. Antonio Labriola solamente capace di invocare
il «tanto peggio, tanto meglio». Gramsci che inneggia alla
violenza verbale e fisica (sia pure moderata: nella fattispecie «un
cazzotto»). Togliatti che eccede con le parole nel giudicare Turati
(nel 1932, in piena strategia staliniana del socialfascismo, che sarà
ben presto archiviata e trasformata, grazie a Dimitrov e a Togliatti, nella
stagione dei fronti popolari e del patto Pci-Psi). Per Saviano, il Pci
e i comunisti sono i maestri dell’intolleranza, i padri spirituali di quell’estremismo
che oggi – afferma lo scrittore – guarda con simpatia a Cuba e a tutti
i regimi più feroci purché antiamericani.
C’è di che pensare, di fronte a tale concentrazione di fuoco.
Il revisionismo storiografico applicato alla storia del comunismo, dei
comunisti italiani, di Gramsci e di Togliatti è – come ho accennato
– moneta di vecchio conio. Ma una tale virulenza, e in un giornale considerato
vicino al centrosinistra, come si spiega? Certamente non c’è nessun
tipo di complotto, né è il caso di invocare censure. Sarà
stato un caso. Ma un po’ di equilibro, qualche opinione che vada in direzione
opposta, che faccia conoscere al lettore che anche nella comunità
scientifica vi sono ben altre valutazioni e ricostruzioni della storia
dei comunisti italiani, se li concede persino il Corriere della sera: la
concorrenza – vanto del liberalismo – non dovrebbe migliorare il prodotto
e offrire migliori possibilità (conoscitive e interpretative) al
lettore?
Un mondo di buoni e cattivi
Sul piano dei contenuti, è difficile in poco spazio replicare
a tutta questa serie di osservazioni superficiali e tendenziose oltre ogni
dire. Il «ravvedimento» di Gramsci, ad esempio, è una
forzatura senza giustificazioni. Come dimostra la documentazione già
pubblicata da Paolo Spriano negli anni Settanta, Gramsci – nel fare domanda
di libertà condizionale – si appella a una legge esistente (nel
Codice Rocco, art. 176) e non dichiara alcun ravvedimento. La valutazione
della «condotta» del carcerato – che è altra cosa –
è tutta a carico del giudice, come è giusto che sia.
Diverso è invece il modo in cui Saviano guarda a Gramsci (anche
questo «doppio metodo» è in uso da decenni): per lo
scrittore Gramsci non è un «buono» di contro al «cattivo»
Togliatti, entrambi sono pessimi per il solo fatto di essere comunisti.
Ciò che sconcerta nell’articolo di Saviano è un metodo segnato
da incultura storica. Si prendono poche citazioni isolate e vi si costruisce
una narrazione di comodo. Labriola, il filosofo napoletano primo maestro
di Croce, è dunque alla stregua di un brigatista rosso? Il Gramsci
che è oggi il pensatore italiano più studiato nel mondo sta
tutto in quel giovane polemista che eserciterebbe la violenza della penna
nel 1916, in piena lotta pro o contro la guerra? Non erano un po’ più
violenti quei guerrafondai contro cui quel Gramsci si batteva? E a proposito
di guerra, interventismo e mussolinismo, consiglierei anche a Giorgio Fabre,
e ad Alias che lo ha ospitato (19 febbraio), più cautela, nel delineare
i tratti di un Gramsci mussoliniano ben oltre il 1914: tutti gli articoli
su cui la ricostruzione di Fabre si fonda son frutto delle polemiche tra
comunisti e socialisti dell’inizio degli anni Venti. Le ricostruzioni degli
anni precedenti, fatte nei mesi e negli anni intorno alla scissione di
Livorno, difficilmente potevano avvenire con l’animo distaccato dello storico.
Untorelli a Cuba
Tornando a Saviano, Togliatti, uno dei padri della democrazia e della
Costituzione italiane, da molti dipinto alla stregua di un prudente Cavour
del Novecento, è davvero tutto in quel giudizio eccessivo e sbagliato
su Turati, che va contestualizzato in quegli anni «di ferro e di
fuoco»? E il Pci, il partito di Berlinguer, era in combutta da sempre
con gli «untorelli»? Finanziava le Brigate Rosse, magari con
l’«oro di Mosca»? E Cuba è solo illibertà (e
dunque, per converso, il potente vicino stelle e strisce è davvero
il campione della libertà)?
Insomma, la storia del Pci sembra ancora oggi oggetto di attacchi politici
e giornalistici a dir poco sorprendenti. Viene il dubbio che il ricordo
e la memoria di quel grande partito di massa, artefice tra i principali
della nascita di una Repubblica democratica fondata sul lavoro e veicolo
senza eguali di partecipazione politica e allargamento dei diritti per
i subalterni, diano ancora fastidio. A chi? Evidentemente, credo, a chi
legge la politica, come va di moda oggi, sub specie elitaria, leaderistica,
delegata, apartitica. Chi non si colloca sotto questi stendardi, però,
dovrebbe prestare più attenzione a non infangare senza motivi legittimi
quelle che Pasolini chiamava, non a torto, «le belle bandiere».
E chi ne ha il ricordo deve reagire.