di Michel Lemoine, "Le Monde diplomatique", maggio 2002
È sufficiente che una minoranza si ribattezzi «società
civile» per pretendere di rovesciare un presidente democraticamente
eletto? È quello che in Venezuela hanno creduto di poter fare il
padronato, un sindacato corrotto, la Chiesa, le classi medie e i mass media,
che l'11 aprile, aiutati da generali traditori, hanno compiuto un colpo
di stato contro Hugo Chávez. L'amministrazione di George W. Bush,
i cui alti funzionari avevano ricevuto a Washington le delegazioni dei
futuri golpisti civili e militari, si è immediatamente congratulata
per quella che considerava la definitiva defenestrazione di un dirigente
insopportabile per la sua indipendenza. Il primo gesto del governo spagnolo,
che presiede l'Unione europea , non è stato quello di condannare
l'atto, ma di pubblicare - il 12 aprile - a Washington una dichiarazione
congiunta con il governo americano che richiedeva ai golpisti di creare
«un quadro democratico stabile»! Ma non si era tenuto conto
della reazione del popolo che, insieme a militari rimasti fedeli, ha ristabilito
la legalità a Caracas.
Ben puntate sul presentatore, le telecamere inquadrano anche Caracas,
che si estende ai piedi di El Avila, la montagna sul cui pendio è
stato installato lo studio improvvisato. Il conduttore dello show ha appena
fatto ridere il pubblico ricordando come sia riuscito a far cantare Fidel
Castro - «stonato come una campana!» - in una delle sue precedenti
trasmissioni. Parla in modo poetico del Guatemala, poi del libertador Simón
Bolivar, canticchia, interroga i suoi ospiti - tra i quali un gruppo di
ministri - dialoga con una semplice telespettatrice dalla quale si congeda
con un affettuoso «Hola, tesoro, ti mando un bacio». La sua
disinvoltura farebbe invidia a qualunque star del piccolo schermo. Ma il
presentatore non è un professionista. Si chiama Hugo Chávez
ed è il presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela.
Quel 17 marzo, per la sua centesima trasmissione domenicale di «Aló,
Presidente!» superava se stesso: collegamento via satellite con i
presidenti guatemalteco, domenicano e cubano - «Ciao Fidel, se uno
di questi giorni non ci vediamo, ci sentiamo al telefono. Hasta la victoria,
siempre!». Poi avvertiva la stampa, prima di terminare con un minaccioso:
«E do un consiglio a quelli che vogliono destabilizzarmi: so quanti
sono e quanto pesano dopo aver mangiato!» Dalle file di un pubblico
completamente incantato si alza un'ovazione: «Non torneranno! Viva
il nostro comandante!».
Il «comandante» forse esagera: 6 ore e 35 minuti davanti
alle telecamere, senza interruzioni. Ma è convinto che queste grandi
manifestazioni mediatiche siano necessarie per mantenere un rapporto diretto
con gli emarginati, i poveri e le forze di sinistra che rappresentano la
sua maggioranza.
«La sola cosa che so fare è rubare» Tra gli escuálidos(1)
di La Castellana, di Altamira, di Palos Grandes, di Las Mercedes - i quartieri
residenziali caracegni - la rabbia è grande. «Quest'uomo è
un demagogo, un populista, un pazzo furioso!» Nel migliore dei casi
gli si concede che coloro che lo hanno preceduto non erano molto meglio
di lui. «Ma sta portando il paese alla rovina».
Per poi condannarlo definitivamente: «In ogni modo il suo posto
non è alla testa del paese. Un militare sa fare solo due cose: obbedire
e comandare!» Nella casta rappresentata dall'oligarchia, dalla finanza
e dalle classi medie, questo intruso è detestato. Con la sua pelle
scura e con il suo tono scanzonato assomiglia a un tassista, a un portiere
d'albergo, a un diseredato dei ranchos, a un buhonero(2).
Ma è proprio perché assomiglia alla popolazione più
umile che si trova a Miraflores (il palazzo presidenziale).
Nel febbraio 1992 questo tenente colonnello dei paracadutisti cercò
con un colpo di stato di mettere fine a trent'anni di egemonia del partito
Azione democratica (Ad, socialdemocratico) e del Copei (democristiano).
Erano stati loro ad aver portato, in un paese produttore di petrolio,
l'80% dei venezuelani sotto la soglia di povertà. Imprigionato e
poi liberato, il ribelle è arrivato democraticamente al potere nel
dicembre 1998. Una profonda riforma della costituzione, approvata con referendum
nel dicembre 1999, ha preceduto la sua rielezione, il 30 luglio 2000 (3).
Insomma Chávez ha trionfato e il Venezuela, pacificamente, ha cambiato
di mano.
Da allora il governo conduce una rivoluzione atipica: «Non è
né socialista né comunista, poiché rimane nel quadro
del capitalismo, ma è radicale e provoca profondi cambiamenti delle
struttura economica», spiega il ministro della presidenza Rafael
Vargas. Causando grande preoccupazione a Washington, Caracas vuole anche
promuovere una politica petrolifera che permetta di mantenere il prezzo
del greggio sopra i 22 dollari al barile, attraverso la rivitalizzazione
dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). E moltiplica
le dichiarazioni contro la globalizzazione neoliberale e in favore di un
mondo multipolare, in opposizione alla pretesa egemonica degli Stati uniti.
Ma una cosa è annunciare la nascita di un nuovo paese, un'altra
procedere a veri cambiamenti. «Non c'è lavoro, non c'è
progresso», si lamenta a Valencia un emarginato, osservando che la
disoccupazione non è diminuita. In una bidonville battezzata Marizabel
de Chávez (dal nome della moglie del presidente), uno spilungone
dice malinconicamente: «La sola cosa che so fare è rubare.
Ma qui non saprei proprio che rubare».
Barrio Alicia Pietri de Caldera (dal nome della moglie del presidente
precedente!): i privilegiati guadagnano 84.000 bolivar ogni due settimane
(84 euro) come guardie private, l'unica attività in espansione.
Come dappertutto, lo stipendio minimo rimane a 158 euro, quando per sfamare
una famiglia di cinque persone ne sono necessari 240 (4). E anche le iniziative
più generose del governo sembrano segnare il passo.
«La scuola bolivariana funziona - testimonia una madre di famiglia
- c'è anche una mensa gratuita, come previsto, per i tre pasti dei
bambini. Ma l'hanno chiusa perché non avevano più denaro
per pagare i fornitori».
Spesso il re Chávez è nudo. Creato in tutta fretta per
vincere le elezioni, il Movimento per la quinta repubblica (Mvr) non dispone
di strutture forti. Vi si ritrovano «chavisti» convinti, rivoluzionari,
ma anche - con la speranza di qualche prebenda - membri di vecchie formazioni
politiche e opportunisti di tutte le risme. Lo stesso discorso vale per
i partiti alleati - Movimento verso il socialismo (Mas), Causa R, Movimiento
1° de Mayo, i maoisti di Bandeja Roja o il leader di Patria per tutti
(Ppt) Pablo Medina (5). Un giorno o l'altro presenteranno al presidente
il conto della loro collaborazione.
Da ciò derivano i numerosi rovesciamenti di fronte, le rotture
di alleanze, le dimissioni, i licenziamenti seguiti dal passaggio al nemico,
che danno l'impressione di un potere fondato sull'improvvisazione permanente.
Una corsa a ostacoli analoga si osserva negli apparati di stato e nella
pubblica amministrazione, corrotti da quarant'anni di clientelismo.
Per portare a termine le riforme i ministri o i quattordici governatori
«chavisti» possono contare all'interno delle loro istituzioni
solo su qualche funzionario di grado elevato. «Non abbiamo fatto
una caccia alle streghe, noi garantiamo il cambiamento con la gente del
passato, per lo più militanti di Ad o del Copei». Questo esercito
di quadri intermedi e di dipendenti frena i programmi, blocca i progetti,
paralizza il trasferimento delle risorse nei municipios. «La modifica
di queste strutture richiede tempo e non possiamo cacciare tutti»,
dice nel caldo torrido di Puerto Ayacucho (Amazonas) Diogenes Palau, segretario
generale del governo locale, messo di fronte alle stesse difficoltà.
«Questo processo può essere fatto solo gradualmente».
Sono quindi due i pilastri su cui Chávez deve appoggiarsi per
aggirare le strutture che gli rimangono ostili: l'esercito da cui proviene,
colonna vertebrale dello stato, e la popolazione non organizzata che lo
ha portato al potere. Nell'aprile 2001, quando chiede la formazione di
«un milione di Circoli bolivariani» per sostenerlo, decine
di migliaia di venezuelani, ognuno nella sua via, nel suo quartiere, nella
sua barriada(6), rispondono con entusiasmo. In gruppi di 7-15 persone discutono
sul futuro, sui bisogni più importanti, immediatamente comunicati
alle autorità interessate. «È un mezzo per fare in
modo che arrivino le risorse nei settori interessati», spiegano al
centro di coordinamento dei Circoli bolivariani del municipio di Sucre,
nella parte orientale di Caracas, «prima il destino della comunità
era nelle mani di una minoranza di politici».
Attraverso la presentazione dei progetti e con gli organismi adeguati
- Banca del popolo, Banca delle donne, Fondo di sviluppo della microimpresa,
Fondo intergovernativo per il decentramento (Fides), - lo stato ha cominciato
a dotare queste strutture di mezzi non trascurabili. Ma l'opposizione si
scatena, accusandole di essere «forza d'urto» al servizio di
un progetto totalitario, covi di «taliban» che bolas (voci)
insistenti dicono armati fino ai denti dal governo. Gli interessati alzano
le spalle: «guardi, qui ci sono solo persone pacifiche che si danno
da fare per la comunità». Anche se alcuni militanti radicali
si mostrano meno accomodanti: «Bisogna essere chiari. Gli uomini
e le donne di questo processo di cambiamento sono decisi a difenderlo.
Pacificamente. Ma se necessario anche in altro modo».
Destabilizzazione economica Concentrati sui loro meschini interessi,
gli escuálidos sono rimasti senza parole quando, il 13 novembre
2001, Chávez ha radicalizzato la rivoluzione firmando la legge delle
terre, la legge sulla pesca e la legge sugli idrocarburi (si legga il box
nella pagina a fianco).
Il 10 dicembre, per protestare contro queste «minacce al libero
mercato», l'organizzazione imprenditoriale Fedecámaras, diretta
da Pedro Carmona, organizza uno sciopero generale sostenuto dai media e
dalla Confederazione dei lavoratori del Venezuela (Ctv). Organizzazione
corrotta, cinghia di trasmissione di Azione democratica, la Ctv ha negoziato
per anni i contratti collettivi con gli imprenditori, vendendo l'anima
e gli iscritti in cambio di qualche compenso per i suoi dirigenti. Il governo
nega ogni rappresentatività al suo segretario generale, il socialdemocratico
Carlos Ortega, che lo scorso 25 ottobre si è proclamato vincitore
delle elezioni destinate a rinnovare la direzione sindacale dopo uno scrutinio
contrassegnato da violenza e da irregolarità.
Il 5 marzo 2002 questo «dirigente operaio» stringe la mano
a Carmona e, alla presenza della chiesa cattolica, firma con lui un Patto
nazionale di governabilità che ha l'obiettivo di ottenere «l'allontanamento
democratico e costituzionale» del presidente.
Senza programma, senza progetto, autoproclamatisi «società
civile» ignorando cinicamente la maggioranza, che continua a sostenere
il capo dello stato, i quattro protagonisti - Fedecámaras, Ctv,
chiesa e classi medie - alle quali si uniscono i media riconvertiti in
partito politico, cercano di creare artificialmente una situazione di ingovernabilità.
Questa intolleranza totalitaria fa esplodere la rabbia di una popolazione
unita nella «propria» rivoluzione Petroléos di Venezuela
Spa: «Ci escludono e pretendono, da soli, di rappresentare la società
civile.
Ma siamo noi il popolo! E se per un qualunque motivo la legalità
costituzionale fosse messa in discussione dalla campagna di destabilizzazione,
noi la difenderemo con la nostra vita, con il nostro sangue!».
Le continue dichiarazioni estremiste, le marce di protesta (seguite
da contromanifestazioni ancora più massicce di sostenitori del governo)
e la comparsa di quattro militari dissidenti che rifiutano pubblicamente
l'autorità del capo dello stato (7) non riescono a far vacillare
il potere. Ma quando si ricorre alla carta della destabilizzazione economica,
la tensione cresce. Il petrolio rappresenta il 70% delle esportazioni e
il 50% dei redditi dello stato. Dopo il crollo del suo prezzo per gli attentati
dell'11 settembre 2001, i viaggi di Chávez in Europa, in Algeria,
in Libia, in Arabia saudita, in Iran, in Russia, in Iraq e l'azione di
Alí Rodríguez, segretario generale venezuelano dell'Opec,
hanno permesso di stabilizzare i corsi del greggio attraverso una riduzione
concertata della produzione (8).
Società per azioni che ha come solo azionista lo stato, la Petroleós
de Venezuela Sa (Pdvsa) è controllata da un gruppo di una quarantina
di dirigenti. Questi «generali del petrolio» dettano legge,
applicano la «loro» politica, privilegiano gli interessi stranieri,
violano le norme dell'Opec aumentando la produzione, vendono in perdita,
indeboliscono l'impresa e ne preparano attivamente la privatizzazione.
Desideroso di rimettere la Pdvsa al servizio di un progetto collettivo,
l'esecutivo vuole riprendere il controllo di questo settore strategico
caratterizzato da un sistema fiscale alla deriva: rispetto a vent'anni
fa, quando il 75% dei profitti era riversato allo stato (il 25% rimaneva
all'impresa), si è passati oggi al 70% per la società (e
il 30% al fisco). Così il capo dello stato nomina un nuovo presidente,
Gastón Parra, e un'équipe dirigente. In nome della promettenti
carriere per i migliori, di una gestione più efficiente, della produttività,
della redditività, dell'indipendenza di fronte alla «politicizzazione»
imposta dal governo, i tecnocrati parlano di una «meritocrazia»
che hanno escogitato per rifiutare queste nomine e invitano alla rivolta.
In qualunque paese del mondo lo stato azionista nomina la direzione
delle imprese nazionali e comunica loro i suoi orientamenti - cosa che
del resto tutti i governi venezuelani precedenti avevano fatto.
D'altra parte i contestatori, tutti dirigenti di alto livello che occupano
posti di fiducia, non possono per la natura del loro incarico invocare
lo sciopero. Ma la «società civile» si schiera con loro.
Istigata dai giornali, dalla televisione e dalla radio, spinge alla
paralisi del cuore economico del paese. Che partecipa, anche se in modo
parziale (una parte importante degli operai rifiuta infatti di interrompere
il lavoro).
Sullo sfondo gli stretti rapporti tra Caracas e Washington. Dalla capitale
Usa l'amministrazione di George W. Bush moltiplica gli attacchi verbali
nei confronti del presidente «bolivariano». La sua freddezza
nell'accettare la «lotta al terrorismo», in particolare contro
la guerriglia colombiana, i suoi accordi militari con la Cina e la Russia,
il discorso antiglobalizzazione e la sua rivoluzione irritano sempre di
più. Il 6 febbraio 2002 il segretario di Stato americano Colin Powell,
in un discorso al Senato, mette in dubbio «che Chávez creda
realmente alla democrazia» e critica le sue visite «a governanti
ostili agli Stati uniti e sospettati di sostenere il terrorismo, come Saddam
Hussein o Muammar Gheddafi» (9).
Preoccupati dai disordini che scuotono il loro terzo fornitore di petrolio,
gli Stati uniti temono un'interruzione delle esportazioni se il paese dovesse
diventare ingovernabile. Ufficialmente quindi si cerca di non gettare olio
sul fuoco. Ma il 25 marzo Alfredo Peña, sindaco di Caracas e oppositore
forsennato del presidente, incontra di nascosto le autorità americane
e Otto Reich, contestatissimo sottosegretario per gli Affari interamericani
(10). Qualche giorno dopo nel suo ufficio passano il presidente di Fedecámaras
Pedro Carmona e il vicesegretario generale della Ctv Manuel Cova, che a
sua volta incontra i rappresentanti dell'Istituto repubblicano internazionale,
tutti interlocutori ben noti per la difesa degli interessi dei lavoratori!
L'ombra del Cile sembra calare sul Venezuela, se non fosse per un elemento
principale: l'esercito, che il presidente Chávez dice di conoscere
come le sue tasche. Tuttavia varie voci mettono ne fanno dubitare. Il generale
responsabile del comando sud dell'esercito degli Stati uniti (il Southcom)
ha affermato di recente: «Il Venezuela è il paese con il più
alto numero di ufficiali che hanno studiato da noi, per questo motivo siamo
sicuri di questo paese». Quando il 14 marzo chiediamo conto dei quattro
ufficiali che, poco prima, si erano schierati contro il presidente, Francisco
Ameliach, presidente della Commissione di difesa del parlamento, ci risponde:
«Quando un ufficiale si pronuncia pubblicamente vuol dire che non
ha l'appoggio dell'esercito. Noi abbiamo cospirato [Ameliach ha partecipato
al golpe del tenente colonnello Chávez] e sappiamo che un colonnello
impegnato in un'operazione del genere non lo va a dire pubblicamente».
Per «difendere» la Pdvsa, dove 7 dirigenti sono stati licenziati
e altri 12 messi in pensione, è indetto uno sciopero dalla Ctv e
dalla Fedecámaras, con un successo modesto su scala nazionale. Lanciata
in una folle corsa in avanti (o in un piano premeditato che è ormai
impossibile fermare), l'opposizione rincara la dose e, con il pretesto
che il governo potrebbe decretare lo stato di emergenza (anche se non ne
ha alcuna intenzione) fa appello a partire dall'11 aprile allo sciopero
generale a tempo indeterminato. Segnale preoccupante, i militari dissidenti
si fanno rivedere attraverso il generale Nestor González (destituito
nel dicembre 2001) che, alla televisione, accusa il presidente Chávez
di tradimento e chiede all'alto comando di agire.
L'11 aprile più di 300.000 oppositori marciano pacificamente
verso la sede della Pdvsa-Chuao, situata nella parte orientale della capitale.
È qui che si compirà il misfatto, in un clima di crescente
eccitazione che facilita il progetto. E per accreditare l'idea di una «società
civile» che affronta una dittatura si fa ricorso ai «martiri».
Alle ore 13, a ovest della capitale, nel palazzo presidenziale il ministro
della presidenza Rafael Vargas, pallido, irrompe nell'ufficio dei suoi
collaboratori. «Il resto del paese è calmo, ma Carlos Ortega,
ripreso dalla televisione ha chiesto di marciare su Miraflores. È
una cospirazione». Alle 13,40 alcuni funzionari di secondo piano
anticipano, senza conoscerlo, il seguito degli eventi: «Avanzano
sull'autostrada. Bisogna lasciarli manifestare, ma fermarli prima che arrivino
qui. Altrimenti i Circoli bolivariani si mobiliteranno e sarà un
disastro».
Gli uomini in uniforme sanno essere machiavellici. L'alto comando della
Guardia nazionale non ordina alcuna manovra per prevenire l'inevitabile.
L'opposizione arriva a meno di 100 metri da Miraflores e da decine
di migliaia di «chavisti», alcuni armati di bastoni e di pietre,
scesi in piazza per proteggere con il loro corpo il presidente. Quindici
guardie nazionali, non una di più, si interpongono per impedire
lo scontro. Scena surreale, il più alto in grado si volta verso
i fotografi e chiede angosciato: «Qualcuno mi può prestare
un cellulare per chiamare rinforzi?» Usando gas lacrimogeni i suoi
uomini riescono comunque a stabilizzare la situazione.
I 15 morti e 350 feriti (di cui 157 per ferite da arma da fuoco) di
questi giorni saranno attribuiti ai Circoli bolivariani, i cui membri avrebbero
freddamente sparato su una manifestazione pacifica.
È falso. Misteriosi cecchini appostati sui tetti di alcuni edifici
di una decina di piani hanno fatto le prime quattro vittime tra gli stessi
poliziotti. In seguito, dopo aver fatto salire la tensione, si sono accaniti
sull'opposizione con mortale precisione. La confusione è totale.
Vicino alla stazione della metropolitana El Silencio, una squadra della
Guardia nazionale risponde al lancio di sassi della «società
civile» con una serie di candelotti lacrimogeni e con armi da guerra
ad altezza d'uomo. Piccoli gruppi della polizia metropolitana del sindaco
di opposizione Alfredo Peña sparano su tutto ciò che si muove
(anche se altri poliziotti si comportano correttamente).
La Guardia d'onore del presidente «avrebbe arrestato tre cecchini,
tra cui due agenti della polizia di Chacao [quartiere a est della capitale]
e uno della polizia metropolitana» (11). Nella concitazione degli
scontri un ragazzo, disorientato, testimonia: «Ne ho visti due, erano
in uniforme». Il giorno dopo sugli schermi di Venevisión il
viceammiraglio ribelle Vicente Ramírez Pérez confida: «Avevamo
il controllo di tutte le telefonate del presidente ai comandanti di unità.
Ci siamo riuniti alle 10 del mattino per pianificare l'operazione».
Ma quale operazione? A quell'ora ufficialmente la grande massa dei
manifestanti non era ancora stata dirottata su Miraflores.
Lo scopo voluto è raggiunto. Alle 18 «sconvolto dal numero
di vittime», il generale Efraín Vasquez Velasco annuncia che
l'esercito non obbedirà più al presidente Chávez.
Qualche ora prima la quasi totalità del comando della Guardia nazionale
ha fatto altrettanto. Alle 3,15 del mattino il generale Lucas Rincón
legge un ultimo comunicato: «Di fronte a tali avvenimenti sono state
sollecitate le dimissioni del presidente della repubblica. Che ha accettato».
Nel corso delle trentasei ore successive questo messaggio passerà
ogni venti minuti alla televisione.
Nominato il 12 aprile alla presidenza, il capo degli imprenditori Carmona
scioglie l'Assemblea nazionale, tutti i corpi costituiti, destituisce i
governatori e i sindaci provenienti dalle urne. Assunti tutti i poteri
ha modo di ascoltare il portavoce della Casa bianca Ari Fleisher congratularsi
con l'esercito e con la polizia venezuelana «per aver rifiutato di
sparare contro manifestanti pacifici» e concludere: «Alcuni
simpatizzanti di Chávez hanno sparato contro queste persone e ciò
ha rapidamente portato a una situazione che ha provocato le sue dimissioni».
Mentre l'Organizzazione degli stati americani (Oea) si prepara a condannare
il colpo di stato, gli ambasciatori degli Stati uniti e della Spagna a
Caracas si affrettano a salutare il nuovo presidente.
Nel frattempo in questo paese che per tre anni non ha conosciuto né
assassini né rapimenti né incarcerazioni politiche, la repressione
si abbatte sui ministri, sui deputati, sui militanti; decine di locali
e di abitazioni sono perquisiti, centoventi «chavisti» imprigionati.
Alla Venevisión, dove è intervistato dalla giornalista
Ibeyssa Pacheco, il colonnello Julio Rodriguez Salas, conclude con un grande
sorriso il suo intervento: «Abbiamo avuto una grande arma: i media!
E poiché se ne presenta l'occasione, vorrei congratularmi con voi».
Così, in nome della democrazia, la «società civile»
instaura una dittatura.
Toccherà al popolo restaurare la democrazia.
Il seguito è noto. Arrendendosi senza opporre resistenza per
evitare un bagno di sangue, Chávez non si era affatto dimesso. Il
13 aprile i suoi sostenitori, centinaia di migliaia, occupano le strade
e le piazze di tutto il paese. Nel pomeriggio la sua Guardia d'onore torna
a Miraflores e aiuta alcuni ministri a rioccupare l'ufficio presidenziale.
Seguendo l'esempio del generale Raúl Baduel, capo della 42°
brigata dei paracadutisti di Maracay, alcuni comandanti fedeli alla costituzione
riprendono il controllo di tutte le guarnigioni. Diviso, senza prospettive
chiare, temendo una reazione incontrollabile della popolazione e scontri
tra militari, l'alto comando è in difficoltà. Nella notte
il presidente legittimo della repubblica bolivariana del Venezuela è
restituito al suo popolo.
Qualche giorno dopo l'opposizione, dimostrando di non aver imparato
nulla da questi tragici avvenimenti, si appresta a far risalire la tensione.
Tuttavia un militante, parlando dell'aria nuova che da tre anni spira sul
paese, avverte: «Che non si facciano illusioni. Con o senza Chávez
il Venezuela non sarà mai più come prima».
note:
(1) Nome dispregiativo dato dal presidente ai suoi oppositori (e di
cui essi si sono impadroniti con orgoglio), corrispondente al nostro: squallidi,
macilenti.
(2) Venditore ambulante.
(3) Si legga Ignacio Ramonet, «Chávez», e Pablo
Aiquel, «Per il Venezuela, «neobolivarismo» alla Chávez»,
Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente dell'ottobre 1999 e
del novembre 2000.
(4) Datanálisis, in El Universal, Caracas, 14 marzo 2002.
(5) Dopo aver rotto i legami, ma senza mai stringere alleanza con l'opposizione,
il Ppt si è riunito a Chávez. Anche una parte del Mas gli
è rimasta fedele.
(6) Bidonville.
(7) Il colonnello Pedro Soto, il contrammiraglio Carlos Molina, il
capitano Pedro Flores e il comandante Hugo Sanchéz.
(8) Anche la crisi in Medioriente ha avuto un ruolo in questa stabilizzazione.
(9) Miami Herald, 7 febbraio 2002.
(10) Coinvolto nell'Iran-gate negli anni '80, strettamente legato alla
lobby cubano-americana, la sua nomina è stata a lungo bloccata dal
Congresso.
(11) El Nacional, Caracas, 13 aprile.
(Traduzione di A.D.R.)