“Cenerentola”, n. 49, 10 gennaio 2005
“Ammutolito dall’evidente catastrofe angloamericana in Irak – scrive
John Pilger su New Statesman dell’8 dicembre – il partito della guerra
umanitaria internazionale dovrebbe essere chiamato a render conto della
sua crociata, in gran parte dimenticata, in Kosovo.
Come spiegazioni all’opinione pubblica dei motivi per un attacco illegale
e immotivato a una nazione europea, Clinton e Blair fornirono bugie grandi
quanto quelle di Bush e Blair stesso. La copertura dei media nella primavera
del 1999, come quella che ha portato all’invasione in Irak, era un’insieme
di giustificazioni fraudolente, a cominciare dall’affermazione di William
Cohen, il segretario della difesa degli Stati Uniti, che affermava: “abbiamo
visto quasi centomila uomini (albanesi) in età di leva scomparire…potrebbero
essere stati uccisi”.
David Scheffer, l’ambasciatore generale degli Stati Uniti per i crimini
di guerra, dichiarò che probabilmente erano stati uccisi almeno
“225.000 uomini di etnia albanese di età compresa tra i 14 e i 59
anni”. Blair evocò l’olocausto e “lo spirito della seconda guerra
mondiale”.
Nel giugno del 1999, una volta terminati i bombardamenti, alcuni giudici
internazionali cominciarono a sottoporre il caso del Kosovo a un esame
minuzioso.
Il team di giudici spagnoli fece ritorno in patria e il coordinatore
del gruppo affermò con rabbia che lui e i suoi colleghi erano diventati
parte “della piroetta semantica delle macchinazioni della propaganda bellica,
perché non abbiamo trovato nessuna – non una ! – fossa comune”.
Nel novembre del 1999, il Wall Street Journal pubblicò i risultati
delle proprie ricerche, scartando “l’ossessione della fossa comune”. Invece
di “enormi campi di sterminio che alcuni investigatori si aspettavano…lo
schema è quello di omicidi sparsi (nella maggior parte dei casi)
in aree in cui ha operato l’Esercito separatista per la Liberazione del
Kosovo”.
Un anno dopo, il Tribunale Internazionale per i Crimini di Guerra,
un ente di fatto istituito dalla Nato, affermò che il numero definitivo
di corpi trovati nelle “fosse comuni” in Kosovo era 2.788. questo numero
includeva i combattenti di entrambe le parti e i Serbi e i Rom uccisi dall’Esercito
di Liberazione albanese del Kosovo.
Come le tanto decantate armi di distruzione di massa dell’Irak, le
motivazioni usate dal governo degli Stati Uniti e da quello britannico,
alle quali fecero poi eco i giornalisti, erano invenzioni.
La scintilla che diede inizio ai bombardamenti in Jugoslavia fu, secondo
la Nato, il fallimento della delegazione serba alla conferenza di pace
di Rambouillet. Ciò che non venne riportato, per lo più,
fu che l’accordo di Rambouillet comprendeva un segreto allegato B, che
la delegazione di Madeleine Albright aveva inserito l’ultimo giorno. Esso
conteneva la richiesta di occupazione militare di tutta la Jugoslavia,
un paese segnato dagli amari ricordi dell’occupazione nazista. Così
come il ministro degli affari esteri, lord Gilbert, riconobbe più
tardi a un comitato di difesa della camera dei Comuni, l’allegato B era
stato deliberatamente inserito per ottenere un rifiuto del governo di Belgrado.
Sembra opportuno ricordare che, quando cominciarono i bombardamenti,
l’Unione Sindacale Italiana, che pure aveva più volte manifestato
la propria simpatia per la causa degli albanesi, fu l’unica organizzazione
a proclamare, per il 14 aprile, lo sciopero generale nazionale contro la
guerra. Alla mobilitazione aderirono, con ogni probabilità, non
più di diecimila lavoratori. A questo primo sciopero ne seguì
un altro il 13 maggio, proclamato sempre dall’Usi insieme alla Cub, alla
Confederazione Cobas, allo Slai Cobas e al SdB: questa volta le adesioni
superarono, probabilmente, le centomila unità.
La Cgil fece sapere, attraverso i suoi organi dirigenti che “un sindacato
serio, quando il paese è in guerra, non sciopera”. Al governo c’era
la cosiddetta “sinistra”.