Makoto Itoh, "La rivista del manifesto", n. 19, luglio-agosto 2001
Sui giornali dell'11 aprile si poteva leggere che la Banca mondiale ha largamente ridimensionato le sue previsioni sul tasso di crescita dell'economia giapponese per il 2001 dal 2,1% (previsto nel dicembre scorso) allo 0,6%. Il decennio perduto negli anni '90 dall'economia giapponese, con una persistente crisi economica e il più basso tasso di crescita (meno dell'1,2% annuo) fra tutti i paesi più industrializzati, non si è quindi ancora concluso, nonostante le previsioni di ripresa, sia all'interno che all'estero.
Interdipendenze complesse nella spirale di recessione
Le ragioni per cui il Giappone non è stato ancora in grado di
trovare una soluzione alla sua crisi persistente non sono semplici. La
spirale della recessione nasce da una serie complessa di motivi collegati
tra loro.
Secondo una convinzione generale, le sofferenze (si definiscono sofferenze
quei prestiti il cui rimborso è impossibile o assai improbabile)
bancarie e di altre istituzioni finanziarie tormentano ancora l'economia
giapponese e costituiscono una pesante eredità dello scoppio della
gigantesca bolla alla fine degli anni '80. Si ritiene che il declino complessivo
dell'attivo di bilancio giapponese – dovuto principalmente al tracollo
del valore delle azioni e dei suoli – ammonti a un milione di miliardi
di yen (circa il doppio del Pil annuo, la metà del quale consiste
in beni finanziari e l'altra metà in beni immobiliari). Questa deflazione
dell'attivo ha provocato un costante rischio finanziario, con varie banche
e altre istituzioni finanziarie che hanno fatto bancarotta. Dopo vari anni
in cui si è cercato di ridurre l'ammontare di queste sofferenze,
ancora nel gennaio 1998 il ministro delle Finanze rendeva noto che esse
erano ancora pari al 12% dei prestiti complessivi di varie banche, in complesso
76.000 miliardi di yen. Se continuasse la deflazione delle attività
questa somma potrebbe facilmente aumentare.
Inoltre, l'accordo (Basilea, 1988) della Banca dei regolamenti internazionali
(Bis) – che imponeva alle banche impegnate in affari internazionali di
mantenere, alla fine dell'anno fiscale 1992, il proprio capitale a una
dimensione pari a più dell'8% dell'attivo totale – ha contribuito
ad aggravare la crisi bancaria. Anche perché, permettendo alle banche
giapponesi di includere nel proprio capitale il 45% dei loro capital gains
potenziali (gli utili presunti derivanti dalla differenza tra i prezzi
correnti e i valori di acquisto) sui pacchetti azionari, questo accordo
ha sollecitato gli investimenti nel mercato azionario durante la bolla,
e ha poi ridotto la loro capacità di prestito quando è intervenuto
il processo di svalutazione delle attività. La conseguente stretta
creditizia ha assestato un duro colpo alle piccole e medie imprese e alle
aziende del settore immobiliare, le cui operazioni erano strettamente dipendenti
dai prestiti bancari, e ha contribuito alla deflazione dell'attivo, generando
un vero e proprio circolo vizioso. L'accordo di Basilea rappresenta, nella
lunga storia del capitalismo, un altro esempio paradossale degli effetti
destabilizzanti e incontrollati di un meccanismo di regolamentazione del
mercato del denaro e delle finanze. Inoltre mal si adatta al sistema delle
banche giapponesi, che tradizionalmente possono operare anche disponendo
di una bassa percentuale di capitalizzazione basandosi sull'alta quota
di risparmi delle famiglie.
Non appena i capital gains potenziali sul valore delle azioni e dei
suoli crollarono, diverse aziende ebbero difficoltà a espandere
le proprie attività sulla base di capitale proprio o contraendo
prestiti su ipoteca, e tendevano a perdere la loro capacità di resistere
alla pressione deflazionistica della stretta creditizia. I fallimenti di
imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni, sono aumentati, e continuano
incessantemente ad aumentare. Nel momento in cui le aziende ridimensionavano
le proprie attività, le condizioni dei lavoratori hanno cominciato
a subire forti peggioramenti e i salari reali a ristagnare. Nel 1993 i
salari reali sono scesi, e sono anche state ridotte le retribuzioni degli
straordinari. Come risultato, il reddito reale a disposizione delle famiglie
(ossia, il reddito effettivo delle famiglie meno le tasse e le spese di
previdenza sociale) ha cominciato a diminuire. La domanda di consumi interni
ha quindi subito un tracollo, e la recessione si è aggravata.
Contemporaneamente, nella prima metà degli anni '90, l'industria
giapponese – di cui è nota l'enorme capacità produttiva –
ne ha ridotto di circa il 20% l'utilizzo con la conseguenza che le aziende
hanno inasprito la loro pressione competitiva sui mercati. Anche in questo
senso, l'economia giapponese è entrata in un circolo vizioso che
ha portato a una spirale di recessione, con la caduta del valore delle
azioni e del prezzo dei suoli, alla diminuzione del reddito dei lavoratori,
e alla caduta dei prezzi di mercato per prodotti e servizi.
Per reazione alla depressione del mercato interno, le aziende giapponesi
hanno cercato nuovamente di aumentare le esportazioni. Ma non appena aumentava
l'attivo della bilancia commerciale, lo yen si rivalutava pesantemente,
creando di conseguenza non poche difficoltà alle stesse industrie
esportatrici. Il tasso di cambio dello yen rispetto al dollaro (media annuale)
è aumentato dai 145 del 1990 ai 127 del 1992, fino a circa 100 alla
fine del 1994. Successivamente, nel 1995, quando la fiducia nel dollaro
ha subito il colpo della crisi monetaria e finanziaria del Nafta (Accordo
di libero scambio del Nord America), iniziata con la crisi messicana, lo
yen si è ulteriormente rivalutato rispetto al dollaro, raggiungendo
in aprile un tasso di cambio di 79,75. Questa rivalutazione dello yen ha
creato serie difficoltà alle industrie esportatrici e le ha incoraggiate
a delocalizzare all'estero i propri impianti, provocando all'interno un
processo di desertificazione industriale. Pro mente per la prima volta
dalla Re razione Meiji del 1868 – quando ebbe inizio la modernizzazione
giapponese – il numero assoluto di lavoratori giapponesi impiegati nell'industria
manifatturiera in tempo di pace ha cominciato a diminuire, un segnale evidente
della tendenza di deindustrializzazione.
Inoltre, il rapido declino delle nascite e l'invecchiamento della società
hanno costituito un altro importante fattore di blocco per la crescita
economica giapponese. Nell'ambito del duro processo di ristrutturazione
competitiva cominciato alla metà degli anni '70, le industrie giapponesi
hanno impiegato sempre più donne lavoratrici a basso costo (soprattutto
casalinghe part-time), grazie anche alla diffusione delle tecnologie informatiche
sia nelle industrie che negli uffici. In mancanza di adeguati sostegni
sociali per la cura dei figli dei lavoratori, il rapido aumento dell'impiego
femminile ha provocato un netto calo del tasso di natalità media,
che è sceso da 2,05 nel 1974 a 1,34 nel 1999. La popolazione giapponese
comincerà a diminuire e, entro la fine del XXI secolo, potrebbe
ritrovarsi dimezzata. Questa trasformazione demografica produrrà
necessariamente il ridimensionamento del lungo trend di crescita dell'economia
giapponese. E tenderà anche a deprimere la domanda di consumi diretti
e indiretti (a favore soprattutto dei fondi pensione) per le incertezze
legate al futuro.
Tutto considerato, l'economia giapponese ha al momento un trend di
crescita estremamente basso rispetto a quello degli anni '70 e '80, e tanto
più rispetto al periodo di elevata crescita economica prima del
1973. La depressione ha colpito l'economia giapponese per ragioni sia interne
che esterne, e il paese non ha preso parte alla ripresa economica guidata
dagli Stati Uniti e da altre economie avanzate dopo il 1993.
Il fallimento del neoliberismo
Il fatto che l'economia giapponese sia finita, per diversi motivi concomitanti,
in una spirale di recessione è, per molti versi, una chiara prova
del fallimento del `neoliberismo'.
Diversamente da quel che tuttora molti credono, il neoliberismo è
diventato la linea guida delle politiche economiche anche giapponesi all'inizio
degli anni '80, sulla scia di quanto avveniva negli Stati Uniti e nel Regno
Unito. A differenza del keynesismo dominante fino agli anni '70, il neoliberismo
prevede una riduzione del ruolo economico dello Stato, e giura sulla capacità
del libero mercato di determinare un ordine economico razionale ed efficiente.
Non si tratta semplicemente di una reazione al fallimento pratico del keynesismo
nel far fronte alla crisi economica degli anni '70, ma di una dottrina
economica che ben si sposa con il processo di ristrutturazione industriale
in atto. Con l'introduzione delle nuove tecnologie informatiche, le aziende
capitalistiche hanno ulteriormente intensificato la competizione di flessibilità
nel mercato, moltiplicando i modelli di prodotti, delocalizzando impianti
e uffici sia all'interno del paese che all'estero, sviluppando un'organizzazione
del lavoro che prevede un aumento di lavoratori flessibili part-time e
di attività globalizzate in vari settori.
Conformemente alla tendenza delle politiche neoliberiste di rafforzare
i princìpi del libero mercato, le grandi industrie giapponesi introdussero
le nuove tecnologie informatiche, `razionalizzarono' la gestione della
forza lavoro, ridussero i salari reali, e intensificarono vieppiù
la propria competitività internazionale. Gli sforzi delle aziende
per aumentare la propria redditività ottennero la cooperazione dei
lavoratori, produssero un attivo della bilancia commerciale e una rivalutazione
dello yen. Il modello di management giapponese fu guardato con attenzione
dal mondo intero come un modello adatto a far fronte alla crisi economica,
soprattutto negli anni '80. In realtà, le grandi aziende giapponesi
migliorarono la loro posizione finanziaria e accumularono grandi quantità
di liquido sia grazie ai profitti accumulati che agli investimenti azionari
sul mercato nazionale e su quello estero. Gli investimenti all'estero furono
incrementati, e crebbero i beni giapponesi all'estero, con una conseguente
espansione della capitalizzazione delle borse estere. Con la rivalutazione
dello yen, il reddito pro-capite del Giappone superò, nel 1987,
quello degli Stati Uniti, e la ristrutturazione neoliberista giapponese,
concentrata sulle aziende, sembrava una straordinaria storia di successo.
Ma il credo neoliberista nei princìpi del libero mercato non
genera affatto un ordine economico razionale, efficiente e giusto. Vaste
e anarchiche fluttuazioni nei tassi di cambio esteri, insieme a enormi
flussi internazionali nei fondi speculativi, hanno provocato notevoli danni
economici a un gran numero di società e di lavoratori. Allo stesso
tempo, la politica del profitto a ogni costo propria della ristrutturazione
promossa dalle aziende in base ai princìpi del libero mercato ha
provveduto a gonfiare una bolla gigantesca che, nel momento in cui è
scoppiata, ha provocato seri danni. Questi episodi sono la prova della
fondamentale instabilità di uno sviluppo di tipo speculativo governato
dall'economia capitalista del libero mercato. Le politiche economiche di
stampo neoliberista non possono evitare questi gravi effetti economici
irrazionali e iniqui. Promuovono anzi un clima politico e sociale in cui
la ricerca del massimo profitto speculativo delle imprese viene universalmente
accettata nel nome dei princìpi del libero mercato. In questo modo
si va addirittura a incoraggiare l'arricchimento privato dei politici e
dei burocrati, considerato un diritto naturale connesso a ogni attività
economica. Sono venuti a galla numerosi scandali di corruzione e di tangenti.
I burocrati giapponesi, pur considerati i promotori per buona parte del
successo dell'economia giapponese, hanno dovuto registrare, negli anni
'90, un notevole ridimensionamento della propria credibilità, del
proprio prestigio e delle proprie funzioni.
Il neoliberismo non è riuscito a mantenere le sue promesse e
neanche a creare un contesto di politica economica coerente. Gli interventi
sulle economie di mercato attraverso strumenti di politica fiscale e monetaria
non sono stati eliminati. Questo conferma l'evidenza storica secondo cui
anche nello stadio classico del liberismo l'economia capitalistica non
riuscì a fare a meno di un certo grado di regolamentazione politica,
di interventi legislativi come il Peel's Act 1 e della sua revoca discrezionale
nelle fasi di crisi finanziaria. Gli interventi del governo giapponese
e della Banca del Giappone sono stati più incisivi, più contraddittori,
e volti anche a correggere i princìpi del libero mercato.
Per esempio, il governo giapponese e le autorità monetarie hanno
promosso attivamente una politica di bassi tassi d'interesse dalla fine
del 1986 in poi, e hanno aumentato ampiamente la spesa pubblica nella primavera
del 1987. Questa politica è stata perseguita in parte per rispondere
alla pressione del governo Usa, soprattutto dopo gli accordi del Plaza
2, in modo di favorire la domanda interna in Giappone e attenuare la concorrenza
commerciale. Naturalmente in questo modo quegli accordi hanno anche contribuito
a creare la bolla e a farla gonfiare. La Banca del Giappone, e il governo,
hanno trascurato il pericolo di questa enorme bolla che si andava gonfiando,
e hanno considerato la relativa stabilità del livello dei prezzi
come una prova della validità della politica monetaria di quel periodo.
Inevitabilmente, le politica monetaria restrittiva del biennio 1989-90,
che premeva per lo scoppio della bolla speculativa, produsse la battuta
d'arresto. Questi interventi di politica economica, contraddittoria con
il credo neoliberista, hanno nel periodo che stiamo esaminando influenzato
pesantemente il funzionamento del sistema dei mercati in Giappone. E, a
conti fatti, la politica non solo non è riuscita a controllare efficacemente
l'instabilità distruttiva dei mercati, ma ha anche contribuito a
produrla e ad amplificarla.
Nella conseguente fase di recessione degli anni '90, nonostante la
pratica delle politiche neoliberiste di deregolamentazione dei rapporti
di lavoro, o di riduzione del sostegno pubblico per il Welfare e per l'educazione,
il governo giapponese ha continuato a intervenire in modo incisivo sui
meccanismi dell'economia di mercato. Ha promosso concretamente politiche
monetarie e finanziarie. In questo senso, non si può fare a meno
del keynesismo, anche se è vero che le politiche keynesiane non
sono sufficientemente efficaci. Dobbiamo allora chiederci perché.
Perché le politiche keynesiane non funzionano?
Nell'aggravarsi della crisi economica e finanziaria del Giappone, sono
stati riproposti interventi di politica economica keynesiana di tipo emergenziale,
soprattutto nella forma di un aumento della spesa pubblica. Come risultato,
rispetto al Pil, la quota del capitale fisso pubblico (totale degli investimenti
nei servizi pubblici, compresi gli incentivi e le infrastrutture realizzate
dai governi locali, meno i costi per acquisire i suoli indispensabili)
è arrivata nel 1996 al 6,9% dal 4% prima del 1970. Nel complesso,
questi investimenti pubblici sono ammontati a più di 30.000 miliardi
di yen nel 1996. L'incidenza sul Pil è quattro volte superiore a
quella degli Stati Uniti, e tre volte a quella della Germania. Se aggiungiamo
a questa quota i costi delle aziende pubbliche per acquisire i suoli necessari
e realizzare la costruzione delle autostrade, gli investimenti totali nelle
infrastrutture pubbliche sono aumentati fino a 50.000 miliardi di yen.
Questi assorbono il 10% del Pil, una cifra vicina al totale del gettito
fiscale che ammonta a 55.000 miliardi di yen l'anno. Non è un'esagerazione
considerare il Giappone come una nazione dedita all'ingegneria civile e
alle costruzioni.
Per queste ragioni, il governo giapponese, in contraddizione con una
posizione di formale neoliberismo, ha intrapreso una politica di interventismo
pubblico su larga scala. Questo intervento non ha avuto l'obiettivo macroeconomico
di ispirazione keynesiana di rilanciare la domanda. Poiché una larga
parte delle esposizioni delle istituzioni finanziarie è collegata
al mercato immobiliare, al business delle costruzioni, ovviamente la spesa
pubblica nello stesso periodo è stata dominata dalla volontà
politica di aiutare le imprese finanziarie alle prese con il pesante fardello
delle sovraesposizioni. Si attendevano quindi gli effetti di una politica
di espansione per risolvere le difficoltà finanziarie e limitare
con la generale ripresa dell'economia il peggioramento dei valori ipotecari
dei suoli e del patrimonio immobiliare.
Ad ogni modo, la crescita degli investimenti pubblici non ha funzionato
né come un'efficace spinta d'avviamento né come misura politica
per risolvere la difficoltà delle banche e delle altre istituzioni
finanziarie. Perché? Le ragioni dovrebbero essere queste. In primo
luogo, la pressione della deflazione delle attività dovuta allo
sgonfiarsi dell'enorme bolla è stata decisamente forte. Mentre un
milione di miliardi di yen si stava dileguando, anche un'incentivazione
della spesa pubblica su larga scala non poteva essere abbastanza efficace
per superare la pressione verso il basso esercitata sia sull'intera economia
sia, in particolare, sui settori finanziari. In secondo luogo, la domanda
per consumi, che occupa circa il 60 % della domanda totale, ha registrato
una caduta di grandi dimensioni a causa delle preoccupazioni generali della
popolazione circa il futuro. La maggior parte della spesa pubblica non
riguardava i reali bisogni della gente, quali, per esempio, i servizi di
assistenza sociale per bambini e anziani. Mentre la crisi fiscale dello
Stato si aggravava nella forma di una crescita del debito pubblico e dell'emissione
di titoli obbligazionari da parte del governo, nel 1997 aumentavano sia
le tasse sui consumi sia i costi per l'assistenza medica, il che anticipava
per il futuro una tendenza contraria a uno Stato sociale attento ai bisogni
di tutti. In terzo luogo, i lavori di costruzione e manutenzione stradale
oggi hanno, rispetto agli anni passati, un impatto decisamente inferiore
sulle vendite interne di automobili. Gli effetti degli investimenti pubblici
sull'occupazione si sono sempre più ridotti poiché i settori
dell'edilizia e dell'ingegneria civile hanno introdotto macchinari sempre
più tecnologicamente progrediti proprio per ridurre i costi del
lavoro. Così l'effetto moltiplicatore dei pubblici investimenti
sull'industria edilizia è nel complesso notevolmente diminuito.
A questo riguardo, e ammesso che la politica della spesa pubblica sia realmente
efficace, i suoi contenuti reali contano.
Oltre alla politica della spesa pubblica, è stato applicato
anche un altro strumento del keynesismo: l'intervento sulla moneta. La
Banca del Giappone ha ridotto il tasso di sconto ufficiale dal 6% del 1990
all'1,75 del 1993 fino allo 0,5 % del settembre 1995. Ha poi mantenuto
questo tasso d'interesse senza precedenti per più di cinque anni
per poi ridurlo ulteriormente allo 0,35 % nel febbraio di quest'anno, e
allo 0,25 % nel marzo. Questa politica monetaria è stata sicuramente
orientata a generare uno stimolo che incentivasse in generale gli investimenti
di capitale reale in modo da superare la fase di depressione economica.
Ma nello stesso tempo aveva anche l'obiettivo specifico di risolvere la
crisi delle banche e delle altre istituzioni finanziarie. Con la semplice
operazione di investire in obbligazioni statali, con l'interesse del 2%,
il denaro che la Banca del Giappone rendeva disponibile a un così
basso tasso, le banche hanno potuto realizzare in tutta sicurezza enormi
profitti per compensare parte delle perdite dovute alla cancellazione dei
prestiti in sofferenza. È interessante scoprire quanto questi interventi
sulla moneta e quelli sulla spesa pubblica siano stati inefficaci nel risolvere
la crisi economica giapponese. E dovremmo ancora esaminarne le ragioni.
Innanzitutto, la difficoltà basilare di dar luogo a un'accumulazione
di capitale reale in presenza di un eccesso di capacità produttive,
lo stallo della domanda dei consumi dovuta a un diffuso clima d'incertezza
sul futuro, e la svalutazione patrimoniale hanno creato un circolo vizioso
molto duro da spezzare. La crescita delle importazioni a basso prezzo dai
vicini paesi asiatici, compresi quelle dei beni prodotti da marche giapponesi,
ha aggiunto un'ulteriore sfida di competitività spingendo tendenzialmente
verso il basso il prezzo dei prodotti. Inoltre, tassi d'interesse sempre
più bassi non potevano stimolare i fornitori interni di credito.
Il capitale monetario inattivo è stato congelato senza trovare una
via di sbocco redditizia all'interno dell'economia. Dai keynesiani questa
sarebbe chiamata una crisi con una «trappola di liquidità».
D'altra parte, una politica monetaria di questo genere, tesa a mantenere
un tasso d'interesse estremamente basso, ha avuto in realtà l'effetto
di spingere costantemente un'enorme massa di moneta giapponese verso l'estero
– specialmente verso l'Asia e gli Stati Uniti – in cerca di rendimenti
più alti o di impieghi più redditizi. Essa ha contribuito
così ai boom drogati dei vicini paesi asiatici, poi alla bolla borsistica
di New York e più in generale degli Stati Uniti. In una prospettiva
di economia nazionale, quest'aspetto della globalizzazione dell'economia,
con i suoi effetti dispersivi, rende apparentemente nulla una politica
monetaria di stampo keynesiano. Da ultimo, mentre Keynes metteva in conto
l'eutanasia della classe dei rentiers attraverso gli strumenti di una politica
monetaria e fiscale reflazionistica, nella realtà del Giappone un
tipo di classe del genere non esiste; c'è piuttosto una massa di
lavoratori, e soprattutto di persone anziane, pensionati, che sono stati
duramente colpiti da una caduta così drastica dei tassi d'interesse.
Dato che la maggiore fonte di risparmi sono le famiglie e i maggiori creditori
sono le grandi aziende, la riduzione dei tassi d'interesse ha un'effettiva
funzione di redistribuzione del reddito tra questi due settori, provocando
così un effetto di crisi sulla domanda per consumi.
L'aumento dell'ineguaglianza sociale
Visto che le politiche fiscali e monetarie keynesiane non hanno ottenuto
risultati sufficienti nel compensare la tendenza depressiva dell'economia
e la conseguente crisi del settore finanziario, è stato attuato
un nuovo intervento politico: l'immissione di denaro pubblico nelle banche
e nelle altre istituzioni finanziarie. Questa misura è stata, all'inizio,
introdotta nel 1996 per il caso del fallimento di sette società
finanziarie immobiliari specializzate (jusen). L'operazione fu considerata
una pratica scorretta messa in atto per proteggere politicamente le Cooperative
agricole e i loro manager a danno dei loro clienti. Perciò, quando
si verificò il fallimento della Hokkaido Takushoku Bank (Hokutaku),
della Yamaichi Securities e di altre due banche, non venne utilizzato denaro
pubblico. Dato che la Hokutaku era la decima banca della città e
di gran lunga la banca principale della regione di Hokkaido, il suo fallimento
provocò a catena una serie di situazioni di difficoltà economiche,
compreso il fallimento di molte attività in quella regione, e diffuse
un'inquietudine finanziaria in tutto il sistema economico. Nel 1998 fu
perciò stanziato denaro pubblico per 30.000 miliardi di yen sia
per proteggere i risparmiatori sia per fornire un'iniezione di capitale
alle banche `sane' in crisi di liquidità. La somma venne poi aumentata
fino a 60 e poi fino a 70.000 miliardi di yen.
La politica di fornire un'iniezione di capitale alle banche è
definita «Troppo grande per fallire o per essere liquidata».
È difficile rintracciare un suo fondamento teorico sia nel keynesismo
tradizionale che nelle teorie economiche neoliberiste. È chiaro
che gli Stati Uniti e gli altri paesi hanno fortemente premuto per questo
strumento d'intervento allo scopo di evitare che una crisi finanziaria
mondiale si scatenasse sulla scia della recessione giapponese. È
anche difficile che l'adozione di questa misura possa essere considerata
un esempio di politica coerente ed equanime, tranne che per l'eventuale
funzione di parziale protezione dei risparmiatori. Per esempio, alla fine
del 1998, 7.000 miliardi di yen di denaro pubblico furono riversati nell'Istituto
di credito a lungo termine del Giappone, già fallito e nazionalizzato.
E poco tempo dopo questo istituto di credito fu generosamente venduto con
tutto il suo patrimonio di 10.000 miliardi di yen a una banca americana,
la Lipplewood Investment Bank, per un miliardo di yen.
Dal punto di vista della maggior parte della gente che subisce l'aumento
delle tasse e la manomissione del sistema previdenziale, questo modo di
spendere il denaro pubblico sembra uno spreco che va a proteggere soltanto
i settori finanziari, le grandi attività economiche e le persone
più ricche come creditori e debitori. In effetti, attraverso tutti
questi interventi sull'economia poco coerenti fra di loro, appare una certa
tendenza che favorisce chi è dalla parte del capitale e gli strati
più ricchi, poiché distribuisce il peso della ricostruzione
dell'economia sempre più tra la popolazione. L'orientamento neoliberista
è stato applicato non ai problemi delle banche e delle società
operanti nel settore immobiliare, ma alla riduzione del Welfare, insistendo
esclusivamente sull'autotutela individuale nell'economia di mercato. Nel
1989 l'attacco neoliberista al combattivo movimento sindacale è
riuscito, attraverso il processo di privatizzazione di tre società
pubbliche, a smantellare il Sohyo (il Consiglio generale dei sindacati),
centro nazionale dei sindacati di sinistra. Il colpo ha indebolito il tradizionale
retroterra sociale del Partito socialista giapponese (Psg). Dopo aver occupato
a lungo circa un terzo del Parlamento, il Psg ha continuato a perdere seggi.
Nel 1996 ha cambiato il suo nome in Partito socialdemocratico giapponese
(Psdg), e nel 1998 ha ottenuto soltanto 14 seggi sui 500 della Camera dei
rappresentanti. La trasformazione della distribuzione dei collegi, da aree
di media grandezza a aree più piccole, è stato un altro elemento
che ha giocato a sfavore del Psdg. Anche se nello stesso anno il Partito
comunista giapponese è arrivato a conquistare 26 seggi nella Camera
dei rappresentanti, la verità è che tutto lo scenario politico
giapponese si è chiaramente spostato verso una posizione conservatrice,
subalterna alle imprese.
Nonostante questi fenomeni, è giusto riconoscere che l'economia
giapponese non ha dato luogo a una catastrofica crisi economica e finanziaria.
La recessione giapponese degli anni '90 è stata prolungata e resa
relativamente stabile almeno in parte grazie agli effetti delle politiche
economiche. Tuttavia, la relativa stabilità dell'economia giapponese
non è stata affatto assicurata soltanto dalle politiche economiche.
Queste politiche di emergenza, comprese le iniezioni di denaro pubblico,
sono state rese possibili perché si è potuto far pesare una
gran parte dei costi, direttamente o indirettamente, sulla popolazione
lavoratrice attraverso gli aumenti delle imposte sui consumi o i tagli
alla spesa sociale. L'indice costantemente alto del risparmio della popolazione
giapponese, insieme alla regolarità dei rientri per la maggior parte
dei prestiti ai consumi e dei mutui immobiliari, sono stati altri fattori
che hanno contribuito alla relativa stabilità del sistema finanziario.
In ogni modo, attraverso questo processo di riforma economica e di
ristrutturazione politica che ha l'obiettivo di creare un mercato sempre
più competitivo all'interno di un sistema neoliberista, la società
giapponese sta rafforzando la sua natura capitalistica di paese dipendente
dalla grande impresa: una nazione che, per realizzare questi obiettivi,
tende a opprimere le masse di lavoratori, combinando un mercato del lavoro
sempre più competitivo a un sindacato sempre più debole.
E se è vero che nei periodi di grande crescita il Giappone ha mostrato
una tendenza a realizzare un sistema di eguaglianza sociale economica,
è anche vero che la tendenza si è invertita spostandosi verso
un modello sempre più sperequato a vantaggio della popolazione ricca,
della grande impresa, delle grandi banche più importanti e delle
altre istituzioni finanziarie. In una ricerca statistica del 1998 Tachibanaki
rivelava che l'indice di diseguaglianza nella distribuzione del reddito
in Giappone era cresciuto rapidamente tra gli anni '80 e '90, e aveva superato
sorprendentemente quello degli Stati Uniti. Questa trasformazione sociale
del Giappone verso una crescita delle diseguaglianze sarà controproducente
per la ripresa economica, anche se può essere considerato in un
certo senso il risultato paradossale della riuscita ristrutturazione di
un'economia capitalistica di mercato competitiva.
Sebbene la globalizzazione sia per diversi aspetti inevitabile, nel
mondo attuale le possibilità fondamentali che gli interventi politici
siano all'altezza di questa sfida possono essere e sono diverse. Per il
futuro del Giappone, le scelte politiche desiderabili per le masse popolari
al fine di garantire un'economia più sana dovrebbero essere proposte
molto più energicamente, anche se la tendenza a una crescita economica
rallentata continuasse per lungo tempo prima di invertirsi. Il compito
attuale più importante, ma anche più difficile da perseguire
per il futuro, è quello di ricreare nella politica giapponese, sulla
base dei movimenti di lavoratori e di cittadini, un tipo di legame sociale
generale per le masse della popolazione.
Riferimenti bibliografici
Itoh, Makoto, The Japanese Economy Reconsidered, Houndmills and New
York, Palgrave 2000.
Itoh, Makoto, The World Economic Crisis and Japanese Capitalism, Macmillan,
London & St. Martin, New York 2000.
Toshiaki, Tachibanaki, Japanese Economic Inequality (in giapponese),
Iwanami-shoten, Tokyo, 1998.
Makoto Itoh è professore alla Università Kokugakuin,
Tokyo.
(Traduzione di Stefano Liberti e Christian Raimo)
note:
1 Robert Peel (1788-1850), primo ministro britannico, conosciuto
per l'abolizione della tassa sul grano (Corn Laws) e per la successiva
attenuazione dello stesso provvedimento (NdR).
2 Il Plaza Agreement (febbraio 1985), che dette luogo alla creazione
del G5 (Usa, Giappone, Repubblica Federale Tedesca, Regno Unito, Francia),
ebbe, fra gli altri, come oggetto un'azione concertata per abbassare il
valore del dollaro (NdR).