E' in corso da due anni una rivoluzione in Europa, ma nessuno ne
parla
Breve resoconto della rivolta anticrisi islandese
dal sito www.controlacrisi.org, 10 marzo 2011
Recentemente la rivolta in Tunisia si è conclusa con la
fuga del tiranno Ben Alì, così democratico per l'occidente
fino all'altroieri e alunno esemplare del Fondo monetario internazionale.
Tuttavia, un’altra "rivoluzione" che ormai è in corso
da due anni è stata completamente taciuta e nascosta dai media mainstream
internazionali ed europei.
È accaduto nella stessa Europa, in un paese con la democrazia
probabilmente più antica del mondo, le cui origini vanno indietro
all'anno 930 e che ha occupato il primo posto nel rapporto del ONU sull'indice
dello sviluppo umano di 2007/2008. Indovinate di quale paese si tratta?
Siamo sicuri che la maggioranza non ne ha idea.
Si tratta dell'Islanda, dove si è fatto dapprima dimettere
il governo in carica al completo, poi si è passato alla nazionalizzazione
delle principali banche, infine si è deciso di non pagare i debiti
che queste avevano contratto con la Gran Bretagna e l'Olanda a causa della
loro ignobile
politica finanziaria; infine si è passati alla costituzione
di un'assemblea popolare per riscrivere la propria costituzione.
Tutto questo avviene attraverso una vera e propria rivoluzione,
seppur senza spargimenti di sangue ma semplicemente a colpi di casseruole,
con le proteste e le urla in piazza e con lanci di uova, una rivoluzione
contro il potere politico-finanziario neoliberista che aveva condotto il
paese nella grave crisi finanziaria.
Non se ne è parlato dalle nostre parti, se non molto superficialmente,
a differenza delle rivolte in altre latitudini discorsive (la Sicilia meridionale
è più a sud di Tripoli, eppure la remota Islanda, più
vicina al polo nord che all'Italia è percepita come parte della
"Moderna" Europa).
Il motivo è semplicemente il terrore, per lor signori, democratici
o conservatori che siano, della riproducibilità e l'estensione di
quelle lotte.
Che cosa accadrebbe se il resto dei cittadini europei seguisse l'esempio
islandese?
Brevemente, la storia dei fatti:
Alla fine di 2008, gli effetti della crisi nell'economia islandese
sono devastanti.
A ottobre Landsbanki, la banca principale del paese, è nazionalizzata.
Il governo britannico congela tutti i beni della sua filiale IceSave,
con 300.000 clienti britannici e 910 milione euro investiti dagli enti
locali e dalle organizzazioni pubbliche del Regno Unito. Alla Landsbanki
seguiranno le altre due banche principali, la Kaupthing e il Glitnir. I
loro clienti principali sono in quei paesi e in Olanda, clienti ai quali
i loro rispettivi stati devono rimborsare i depositi bancari, all'incirca
3.700 milioni di euro di soldi pubblici.
L'insieme dei debiti per le attività bancarie dell'Islanda è
equivalente a varie volte il suo PIL. Da un lato, la valuta sprofonda ed
il mercato azionario sospende la relativa attività dopo un crollo
del 76%. Il paese è alla bancarotta.
Il governo chiede ufficialmente aiuto al Fondo monetario internazionale
che approva un prestito di 2.100 milioni dollari, accompagnato da altri
2.500 milioni da parte di alcuni paesi nordici. Le proteste dei cittadini
davanti al Parlamento a Reykjavik aumentano.
Il 23 gennaio 2009 si convocano le elezioni anticipate e tre giorni
dopo, i cacerolados sono di nuovo in piazza in migliaia e impongono le
dimissioni del primo ministro, il conservatore Haarden e di tutto il suo
governo in blocco.
È il primo governo vittima della crisi finanziaria mondiale.
Il 25 aprile ci sono le elezioni generali vinte da una coalizione socialdemocratica
e dal movimento della sinistra-verde guidate dalla nuova prima ministra
Jóhanna Sigurðardóttir.
Nel 2009 la situazione economica resta devastata con il crollo del
PIL del 7%.
Sulla base di una legge ampiamente discussa nel Parlamento, viene stabilito
il pagamento dei debiti in Gran Bretagna e in Olanda attraverso 3.500 milioni
di euro che tutte le famiglie islandesi avrebbero dovuto pagare attraverso
una tassazione del 5,5% per i prossimi 15 anni. Gli islandesi tornano a
manifestare nelle strade per rivendicare un referendum popolare per la
promulgazione della legge.
Nel gennaio 2010 il presidente, Ólafur Ragnar Grímsson,
rifiuta di ratificare la legge e indice la consultazione popolare: in marzo
il referendum si pronuncia con il 93% di NO al pagamento del debito. La
rivoluzione islandese vince.
Il fondo monetario internazionale congela l'aiuto economico all'Islanda
nella speranza di imporre in questo modo il pagamento dei debiti.
A questo punto il governo apre un'inchiesta per individuare e perseguire
penalmente i responsabili della crisi. Arrivano i primi mandati di cattura
e gli arresti per banchieri e top-manager. L'Interpool spicca un ordine
internazionale di arresto contro l'ex presidente della Kaupthing, Sigurdur
Einarsson.
Nel pieno della crisi, a novembre, si elegge un'assemblea costituente
per preparare una nuova costituzione che, sulla base della lezione della
crisi, sostituisce quella in vigore.
Si decreta il potere popolare.
Vengono eletti 25 cittadini, senza alcun collegamento politico, tra
le 522 candidature popolari, per le quali era necessario soltanto la maggiore
età e il supporto sottoscritto di 30 cittadini.
L'assemblea costituzionale avvierà i suoi lavori nel febbraio
del 2011 e presenterà a breve un progetto costituzionale sulla base
delle raccomandazioni deliberate dalle diverse assemblee che si stanno
svolgendo in tutto il paese. Tale progetto costituzionale dovrà
poi essere approvato dall'attuale parlamento e da quello che sarà
eletto alle prossime elezioni legislative. Inoltre, l'altro strumento "rivoluzionario"
sul quale si stà lavorando è lo “Icelandic Modern Media Iniziative”,
un progetto finalizzato alla costruzione di una cornice legale per la protezione
della libertà di informazione e dell'espressione.
L'obiettivo è fare del paese un rifugio sicuro per il giornalismo
investigativo e la libertà di informazione, un "paradiso legale"
per le fonti, i giornalisti e gli internet provider che divulgano informazioni
giornalistiche: un inferno per gli Stati Uniti ed un paradiso per Wikileaks.
Questa in breve la storia della rivoluzione islandese: dimissioni in
blocco del governo, nazionalizzazione delle banche, referendum e consultazione
popolare, arresto e persecuzione dei responsabili della crisi, riscrittura
della costituzione, esaltazione della libertà di informazione e
di espressione.
Ne hanno parlato i mass media europei? Ne hanno
parlato i vari talk-show televisivi, i giornali di destra o di sinistra?
Nel nostro paese, come in tanti altri paesi occidentali, si cerca di
superare la crisi attraverso un processo di socializzazione delle perdite
con i tagli sociali e la precarizzazione dilagante. Quando si inizia a
parlare della rivolta islandese si tende a decostruire la potenza costituente
della rivolta , minimizzando e relativizzando la sua portata, per il timore
del contagio: e dunque l'Islanda è una piccola isola di soltanto
300.000 abitanti, con un complesso economico ed amministrativo molto meno
complesso di quello dei grandi paesi europei, ragione per la quale è
più facile da organizzare in se cambiamenti così radicali.
Insomma, in questo caso e da questa prospettiva è difficile
impiantare l'ordine discorsivo "orientalistico" del sottosviluppo con il
quale vengono liquidate le cosiddette "rivoluzioni modernizzatrici" del
maghreb.
Parliamo comunque della "civile Europa". La stessa "civile Europa"
alla quale tentano di aggrapparsi i tecnocrati islandesi più realisti
del re: la soluzione ai mali dell'Islanda, la crisi islandese, è
a loro dire il prodotto dell'isolazionismo economico e da mesi continuano
a parlare e accelerare sull'adesione all'Unione Europea come antidoto contro
la devastazione neoliberista.
Confondono ancora una volta la cura con la malattia.
E quindi vogliono stringere su questo tema, così come allo stesso
modo l'Europa vuole riprendere sotto le sue ali protettive la ribelle Islanda,
per strangolarla dolcemente e senza traumi attraverso i suoi diktat, i
suoi vincoli e i suoi patti di stabilità. Ma il popolo islandese
ha già dimostrato di non lasciarsi facilmente abbindolare.