"Carmilla", febbraio 2003
Cosa si può ancora dire, che già non sia stato detto,
contro l’omicidio di massa che George W. Bush e i suoi complici Blair,
Berlusconi, Aznar ecc. stanno preparando? Le parole servono a poco, le
analisi sono state fatte tutte. Dopo, ognuno ha scelto il suo campo tra
quelli possibili, che poi si riducono a quattro soli:
1) Gli assassini;
2) Gli assassini a determinate condizioni;
3) Gli assassini ipocriti;
4) Chi rifiuta di farsi partecipe, direttamente o indirettamente, di
un delitto.
Termini forti? Non direi proprio. Qui non sto parlando dell’uccisione
di Saddam Hussein (parafrasando il Mussolini socialista, dirò che
la morte di un tiranno è una forma di incidente sul lavoro), bensì
della strage prevedibile e inevitabile di migliaia di cittadini iracheni,
presumibilmente i più poveri, i più deboli e quelli che più
soffrono sotto la dittatura del rais. Moriranno gli stessi che sono morti
durante la guerra del 1991 o in conseguenza del successivo embargo. Moriranno
bambini, gente delle bidonvilles, curdi, sciiti, sunniti, venditori di
merci miserabili nei bazar, donne, intellettuali, ragazzi, malati, poveracci
arruolati a forza in milizie da operetta. Tutti coloro che, intrappolati
nei loro tuguri, non potranno né rifugiarsi in un bunker né
espatriare. I troppo giovani, i troppo poveri o i troppo vecchi. Insomma,
quelli che muoiono sempre. Bruceranno, saranno squarciati dalle esplosioni,
periranno nel crollo delle loro bicocche, soffocheranno sulla sabbia dentro
un carro armato in fiamme. Ma moriranno. A grappoli.
E’ forse questo il punto di vista che manca nei commenti degli editorialisti
e dei timidi intellettuali di casa nostra: il punto di vista delle vittime.
Sembra passato il tempo in cui le sofferenze altrui causavano un qualche
soprassalto. Oggi si fa a gara a superarsi in cinismo, si catalogano i
morti in degni di compassione o in “perdite collaterali” a seconda della
loro collocazione geografica o del tipo di “civiltà” in cui sono
inseriti, si valuta l’utile (politico, economico, strategico, ecc.) corrispondente
al loro strazio prima di decidere se meritino pietà. E’ tempo di
assassini, e la differenza tra loro è questione di sfumature.
A questo punto, il tipico editorialista italiano, dalla testata del
suo giornale o dallo scranno di uno studio televisivo, lancia un grido
indignato, in due tempi cronometrabili: 1) Nessuno vuole la guerra, se
proprio non è necessaria, ad esempio per fare cadere una dittatura;
2) Qui si dimenticano le vittime dell’11 settembre e il trauma che gli
Stati Uniti hanno subito.
Argomentazioni ridicole. Nessuno si sogna di chiedere a chi è
oppresso da quella dittatura se vuole essere liberato a prezzo di un massacro
e della distruzione della società in cui vive. Le risposte deluderebbero.
Quanto all’11 settembre, non solo non è emerso alcun argomento che
veda l’Iraq quale ispiratore, ma c’è da chiedersi in che misura
sia morale, dopo avere pareggiato il conto dei morti con qualche migliaio
di “effetti collaterali” in Afghanistan, che il governo statunitense continui
a uccidere, quasi che solo uno spargimento di sangue apocalittico possa
lavare l’onta e rassicurare l’americano di provincia che, chiuso nella
propria linda casetta, teme nell’ordine l’antrace, il fumo, gli acari della
polvere e il troppo grasso nei panini McDonald.
Lasciamo perdere queste sciocchezze e torniamo al tema saliente, che
è l’uccidere. Il che significa, per chi non lo ricordasse, spegnere
nella sofferenza un cervello pensante, con tutto il suo patrimonio, grande
o piccolo, di emozioni, di ricordi, di piccole aspirazioni, di dubbi o
magari di miserie. Bush, Blair, Berlusconi, Aznar, Havel e i loro compari
sono intenzionati a schiacciare decine o centinaia di migliaia di cervelli
così: piccoli frammenti di umanità di cui a loro non importa
nulla (anche se certo giudicherebbero “terrorista” chi attentasse alla
loro augusta persona). Lo fanno in nome del mandato ricevuto dal “popolo”,
e poco importa che quel popolo, nella sua larga maggioranza, non voglia
macchiarsi di sangue. Il mandato c’è, e fino all’elezione successiva
consente al governante di commettere qualsiasi porcheria. Da cui una concezione
della democrazia che, nei tratti salienti (tipo decidere se ammazzare degli
innocenti o no) non si differenzia dalla dittatura se non per la durata
limitata, e per la turnazione tra autocrati. Ma lascio ai politologi risolvere
questo antico rovello.
Passiamo dagli assassini dichiarati agli assassini a determinate condizioni.
Se si adotta il punto di vista delle vittime innocenti, diventa del tutto
indifferente se il loro olocausto avviene sotto l’egida dell’Onu oppure
no. Chi se ne frega se un pugno non di paesi, ma di governanti, valuta
a colpi di bilancino tra le proprie componenti se Saddam Hussein sta collaborando
oppure no alla distruzione di “armi di distruzione di massa” di cui gli
Stati Uniti ipotizzano a fini loro l’esistenza (detta en passant, l’attacco
all’Iraq era nei programmi di Bush fin dal momento della sua pseudo-elezione,
a prescindere dalle armi del rais e ben prima dell’11 settembre). Non stiamo
parlando dell’assassinio di Saddam Hussein o di un colpo di Stato che rovesci
la sua cricca. Il tema è (comincio ad annoiarmi a ripeterlo) un’ecatombe
di gente innocente. L’Onu la ritiene giusta? Che si fotta. Rappresenta
i popoli del mondo quanto la Banca Mondiale rappresenta il ragioniere che
compera CCT e buoni postali.
Eppure l’assassinio sub condicione trova in Italia sostenitori tra
coloro che, in teoria, costituiscono l’opposizione a Berlusconi. Non è
un caso. In un passato molto recente, questi signori teorizzarono l’opportunità
di “guerre umanitarie”, necessarie a salvare altre vite. Contribuirono
a fare saltare ogni accordo per una soluzione negoziata in Kossovo e appoggiarono
i bombardamenti sulla Serbia. Pretesto: far cessare le persecuzioni contro
gli albanesi. I quali albanesi cominciarono a essere deportati in massa
il giorno dopo l’inizio dei bombardamenti. Il bel risultato è che
oggi il Kossovo è una specie di colonia, di cui truppe Onu e malavita
si spartiscono il governo; la Serbia non si è ancora ripresa; e
l’Afghanistan, altro oggetto di una “guerra umanitaria”, è una parodia
di Stato in cui il controllo governativo non arriva alla periferia della
capitale. Come la Somalia, da tutti rimossa e che tra breve magari non
figurerà nemmeno più sulle carte geografiche.
Ma che conta. Se si è tutti d’accordo, si va ad ammazzare allegramente
un po’ di disgraziati, così li si libera. Con una variante, molto
meno idealistica e anch’essa, da noi, appannaggio della sedicente opposizione
a Berlusconi. In questi maîtres à penser, raggruppati attorno
alla sedicente “sinistra riformista” e ad alcuni dei più autorevoli
commentatori di Repubblica, il discorso è molto più franco
e diretto, e lascia i motivi ideali in secondo piano. Eugenio Scalfari
lo va ripetendo da un anno, in varie salse. Se guerra ha da essere, se
c’è gente da uccidere, l’Italia vi partecipi con l’Onu e con l’Europa.
Per un motivo elementare: ci sarà un grosso bottino da dividere.
Non è concepibile che gli Stati Uniti se lo intaschino tutto (in
questo senso, ma solo in questo, la loro guerra è sbagliata). Risorse
energetiche, influenze benefiche sulla produzione, risalita dei titoli
devono interessare anche la nostra penisola. Fanno eco Ezio Mauro (pronto,
in un incredibile editoriale, a giudicare “inoppugnabili” le prove di Colin
Powell contro Saddam Hussein, accolte ovunque da un coro di pernacchie),
Ilvo Diamanti (che irride ai pacifisti chiamandoli mammoni), Lucio Caracciolo
e altri.
Dopo l’imponente manifestazione contro la guerra del 15 febbraio, costoro
si sono fatti più cauti. La parola è piuttosto passata agli
ipocriti, ma qui mi farò cauto anch’io, visto che il maggiore esponente
della tendenza è in galera (e spero che lo liberino presto, così
forse la smetterà con la sua insopportabile logorrea). Chiamo “assassini
ipocriti” quelli che chiedono a Saddam Hussein di andarsene, per impedire
che il suo popolo rimanga vittima di una strage. In realtà, gli
ipocriti sanno benissimo che il dittatore non se ne andrà, ma il
loro calcolo è un altro: spostare, nell’opinione pubblica, l’attribuzione
di responsabilità da Bush a Saddam Hussein, senza riguardo per chi,
materialmente, si prepara a uccidere. Così la “guerra preventiva”
viene preceduta da un’ “assoluzione preventiva”: tutto il sangue che scorrerà
è colpa del demonio che non si è tolto di mezzo dall’Iraq,
e ha pertanto costretto il “liberatore” a lavorare di coltellaccio (o di
missili). Confesso che, di tutte le posizioni che ho elencato, questa è
quella che più mi ripugna.
Dev’essere stata una bella sorpresa, per chi pensava di avere in pugno
l’opinione pubblica, trovarsi a Roma e in giro per il mondo folle intere
che dicevano no alla guerra senza se e senza ma. Non è contata la
televisione a senso unico, non è contato l’ergersi a “padri della
patria” di certi fondatori o direttori di giornali, non sono contate le
grida sguaiate degli opinionisti di professione. Una larghissima maggioranza
dei popoli della terra non vuole uccidere né direttamente né
indirettamente. Punto e basta. Solo un cretino può attribuire connotati
ideologici (“comunisti”, “servi di Saddam Hussein”, “traditori della patria”
ecc.) a questa gente, tenuta unita solo da un saldo senso morale. E capace
di riconoscere, in un’epoca di divisioni artificiali in cui è tanto
difficile manifestare sentimenti comuni, che negli occhi di un cittadino
iracheno possono brillare i suoi stessi sogni e la sua stessa voglia di
vivere. Che poi è un diritto.