L’Istat falsifica i dati e il governo blocca i salari

da "Battaglia comunista", N. 8/9, settembre 2002


Gli ultimi dati ufficiali diffusi lo scorso mese dall’Istat confermano che l’inflazione in Italia è in lieve, ma costante crescita. Secondo l’Istituto centrale di statistica nel mese di agosto i prezzi al consumo nelle città campione sono cresciuti dello 0,1%, mentre su base annua il tasso d’inflazione s’assesta al 2,3%. L’Istat segnala che gli aumenti dei prezzi sono avvenuti in quasi tutti i settori del fronte dei consumi; in particolare è stato il settore della ristorazione, dei pubblici esercizi e degli alberghi a far registrare un incremento annuo dei prezzi che supera il quattro per cento, mentre importanti capitoli di spesa come l’alimentazione, l’acqua, l’elettricità, servizi sanitari, spese per la salute e combustibili sono aumentati a un tasso inferiore all’inflazione.
Alla diffusione dei dati da parte dell’Istat, sventolati dal governo Berlusconi come un dato che conferma tutto sommato il trend positivo dell’economia italiana, gli individui dotati di un grammo di cervello e non in malafede hanno avuto il legittimo sospetto che un’altra grossa truffa si sta consumando sulle spalle dei lavoratori. A dispetto delle statistiche ufficiali, l’aumento del costo della vita nel corso dell’ultimo anno è sicuramente a doppia cifra, tanto che secondo le stime di alcune associazioni di categoria supera addirittura il 20%. Al coro di disappunto nei confronti della veridicità dei dati Istat si sono uniti gli stessi sindacati che nel cavalcare e nello stesso tempo reprimere qualsiasi forma di dissenso hanno minacciato di rompere il patto per il lavoro siglato nel mese di luglio (Cisl e Uil) o di proclamare per il prossimo mese di ottobre una giornata di sciopero generale (Cgil) se il governo non adotterà misure concrete per contenere il tasso d’inflazione reale entro i limiti di quello programmato fissato al 1,4%. La risposta del governo non si è fatta attendere e con un provvedimento burla ha "bloccato" l’aumento delle tariffe, quando in realtà le stesse erano aumentate già nei mesi di luglio ed agosto. Come dire, si fa finta di bloccare l’aumento dei prezzi quando questo si è già verificato.
Che le statistiche siano sempre state funzionali agli interessi della classe dominante per giustificare provvedimenti che mirano a colpire la classe lavoratrice è un dato inoppugnabile della realtà del capitalismo. Nel caso specifico dei dati sull’inflazione per comprendere la truffa bisogna conoscere i meccanismi di calcolo utilizzati dall’Istat (lo stesso discorso vale anche per gli altri istituti nei diversi paesi del mondo). Il calcolo viene fatto attraverso l’utilizzo di un paniere che contiene tutta una serie di prodotti di consumi che incidono in una certa percentuale sulla spesa di ciascuno. Ora se osserviamo la composizione di questo paniere ci accorgiamo subito che qualcosa non va; infatti, secondo l’Istat la spesa per abitazione, casa ed energia incide sul reddito medio solo per il 9,3%. Un esempio per chiarire come funziona (o meglio come truffa) il paniere: se una famiglia italiana guadagna mensilmente 2000 euro al mese significa che spende mediamente per le suddette voci 215 euro al mese. Ora è evidente che una famiglia spende per l’affitto della propria casa e per l’energia molto di più del 9,3% del proprio reddito, ma in base al paniere dell’Istat gli aumenti su queste voci incidono solo per il 9,3%. E le distorsioni prodotte dalla composizione del paniere non finiscono qui; infatti, sono esclusi dal calcolo tutta una serie di merci di largo consumo mentre sono inserite merci che da anni sono ormai fuori produzione, con la conseguenza che gli aumenti dei prezzi delle merci escluse non si riflette sul tasso d’inflazione ufficiale e nello stesso tempo mantenendo nel paniere merci fuori produzione si abbassa la media inflazionistica. Se il metodo di calcolo utilizzato dall’Istat fosse più vicino alla reale dinamica dei prezzi, in Italia il costo della vita aumenterebbe anche ufficialmente ad un tasso tra il 15 e il 20%. Ma abbassare il tasso ufficiale dell’inflazione ha la funzione di svalutare i salari ed ancorare la loro crescita nominale ad un livello d’inflazione dieci volte più basso rispetto a quello reale.
Di chi è la responsabilità dell’aumento dei prezzi registrato in questi ultimi anni? La stragrande maggioranza di politici e sindacalisti scarica le maggiori responsabilità sui bottegai, i quali approfittando dell’introduzione dell’euro hanno aumentato ingiustificatamente i prezzi delle merci vendute. Soprattutto nel piccolo commercio al minuto gli arrotondamenti della conversione si sono trasformati in veri e propri raddoppi dei prezzi. In molti settori di consumo i prezzi espressi in euro sono più alti rispetto a quelli espressi precedentemente in lire di un buon 30%. A tale accusa le associazioni di categoria dei commercianti restituiscono l’offesa ed attribuiscono gli aumenti dell’inflazione alla crescita delle tariffe e soprattutto all’aumento esponenziale della RCA. Le associazioni dei bottegai accusano i grandi gruppi assicurativi di aver approfittato della liberalizzazione dei premi della RCA per aumentarli in maniera indiscriminata; in molte compagnie assicurative gli incrementi dei premi hanno superato addirittura il 100% negli ultimi tempi.
Lo scambio d’accuse reciproche tra i diversi settori della borghesia si trasforma in un patto d’acciaio quando individuano nel costo del lavoro la vera minaccia che può far esplodere il fenomeno inflativo. Il dominio ideologico, oltre che materiale, della borghesia è così forte che sta passando la tesi che l’aumento dell’inflazione è dovuta principalmente agli aumenti contrattuali degli stipendi e dei salari dei lavoratori. Come dire, se l’inflazione aumenta la responsabilità va attribuita esclusivamente al costo del lavoro troppo alto e quindi ad un eccesso di domanda rispetto all’offerta.
Ora se andiamo ad analizzare più nel dettaglio il fenomeno inflazionistico possiamo osservare che l’introduzione dell’euro, se da un lato ha costituito uno scudo all’importazione di inflazione dall’estero, dall’altro ha permesso alla borghesia commerciale di sfruttare a proprio vantaggio la conversione delle unità monetarie. Infatti, se in passato in Italia un aumento del dollaro a 2200 lire e il prezzo del petrolio a 35 dollari al barile significava automaticamente un’inflazione ufficiale del 30%, grazie all’euro e alla stabilità monetaria in tutta l’Unione europea, la borghesia italiana ha potuto contenere moltissimo l’inflazione d’importazione. Nello stesso tempo la creazione di un moneta comune non può non determinare delle conseguenze sul livello dei prezzi. Solo la propaganda della borghesia può negare che la costituzione di un’unica area monetaria e quindi di un unico spazio economico in cui prevale l’oligopolio e il monopolio abbia come conseguenza che il livello dei prezzi tenda ad essere flessibile solo verso l’alto. In altre parole la tendenza è quella di assistere ad una realtà economica in cui i prezzi di Atene tenderanno a livellarsi su quelli di Berlino. Se da un lato i prezzi tenderanno ad uniformarsi verso l’alto, alimentando i profitti della borghesia e nello stesso tempo l’inflazione, l’unione monetaria ed economica dell’Europa avrà come conseguenza anche quella di uniformare i salari, ma questi al livello più basso visto che il mercato della forza-lavoro è l’unico in cui vige un regime di libera concorrenza. Se Atene avrà gli stessi prezzi di Berlino, anche l’operaio di Berlino avrà lo stesso salario dell’operaio di Atene. Le differenze salariali presenti sul mercato europeo, grazie all’Unione Europea, tenderanno sempre di più ad appiattirsi verso il basso. Così come un unico mercato non può avere notevoli differenze nei prezzi, anche i salari dei lavoratori saranno destinati ad uniformarsi questa volta al livello più basso.
Per tornare in Italia e smentire che l’inflazione sia alimentata dall’aumento del costo del lavoro diamo un ultimo dato proveniente da una fonte non sospetta di essere filo comunista. Secondo una recentissima indagine di Mediobanca in 2000 imprese scelte come campione dell’indagine il costo del lavoro nel 1992 incideva per il 19% del fatturato, mentre nel 2001 nelle stesse imprese l’incidenza è passata al 12%. Come dire, gli aumenti salariali non sono all’origine dell’inflazione ma sono i lavoratori a subire gli effetti nefasti dell’inflazione.