Toni Iero, "Cenerentola", giugno 2011
All’inizio di maggio, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha rivisto
ulteriormente al ribasso il giudizio sulla solvibilità finanziaria
dello Stato greco. In contemporanea, esponenti del governo tedesco hanno
più volte sottolineato l’inevitabilità di una ristrutturazione
del debito del governo di Atene, ossia: la Grecia non ce la può
fare a rimborsare i suoi titoli pubblici in scadenza.
La reazione dei mercati non si è fatta attendere, il valore
delle obbligazioni emesse dal Paese ellenico è crollato vistosamente
cosicché la differenza tra il rendimento di un titolo di Stato greco
e di uno tedesco è aumentata ancora.
Tutto ciò in barba ai sacrifici che il governo del socialista
Papandreu ha imposto al suo popolo. Naturalmente, nelle dichiarazioni ufficiali
tanto di Atene, quanto delle autorità dell’Unione Europea si continua
ad assicurare che non è prevista alcuna ipotesi di default della
Grecia. Si parla di ulteriori 60 miliardi di euro di stanziamenti a favore
del Paese mediterraneo per consentirgli di stare in piedi anche nel 2011
e nel 2012. Ma ormai sembra molto improbabile che tali misure siano sufficienti
a rimettere i conti pubblici in carreggiata.
Fin dall’inizio, su questa rivista, non avevamo nascosto la nostra
perplessità di fronte ad un piano di salvataggio costruito essenzialmente
sulla contrazione del livello di vita della popolazione. Le origini dei
problemi che affliggono Grecia, Portogallo e Spagna risiedono nel pesante
deficit nei conti con l’estero. Sono tutte nazioni che importano molto
più di quanto esportano. Perciò ci sembrava poco credibile
che bastasse un giro di vite nelle spese statali per far recuperare alla
Grecia una competitività che non ha mai avuto. L’economia ellenica
è sempre stata molto debole. Le principali attività del Paese
sono i noli marittimi (la Grecia ha una notevole flotta commerciale, ricordate
gli armatori Onassis o Niarchos?) e il turismo. Poche attività industriali,
presenza nulla nel settore della finanza e una agricoltura marginale rendono
tale nazione del tutto inadatta a reggere il peso di una moneta forte come
l’euro. Si stanno ripetendo gli stessi errori fatti dall’Argentina negli
anni ’90, quando la pretesa di allineare il peso al dollaro statunitense
ha portato al tracollo della nazione sudamericana. Ebbene, le nostre previsioni
si sono, purtroppo, rivelate corrette. Ad un anno esatto di distanza dalla
prima crisi greca ci ritroviamo nelle stesse condizioni di dodici mesi
fa.
Oggi, le condizioni dell’economia ellenica sono tragiche. In febbraio
l’indice della produzione industriale greco è sceso del 4,6% rispetto
a dodici mesi prima (in Italia è cresciuto del 2,3%); il tasso di
disoccupazione ellenico è pari al 14,1% (8,3% quello italiano a
marzo); l’inflazione in Grecia cresce al ritmo annuo del 5% a marzo (1,9%
in Italia); le vendite al dettaglio del paese egeo sono calate del 10,6%
a febbraio (in Italia -0,1%). È il quadro di un Paese prostrato,
dove il relativo risanamento dei conti pubblici non sta avviando un processo
virtuoso, bensì sta soffocando l’economia. A sua volta, un’economia
debilitata non può che ridurre le entrate fiscali dello Stato, vanificando
il taglio delle spese pubbliche ottenuto riducendo gli stipendi dei dipendenti
pubblici e i servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni. Continuare
così non avrebbe alcun senso.
Si può continuare la recita portata avanti fino ad oggi. I governi
europei stanziano qualche altra decina di miliardi di euro e l’esecutivo
di Atene vara una nuova serie di misure per ridurre le spese e aumentare
le entrate pubbliche. Dietro questo fragile paravento, ancora per qualche
trimestre, tutti possono fingere che le cose si rimetteranno a posto motu
proprio. È una commedia che si trasformerà ben presto in
tragedia: lo Stato ellenico non riuscirà a far fronte ai propri
obblighi finanziari. Più si ritarda tale presa di coscienza maggiori
saranno i danni che saranno provocati.
Sarebbe necessario prendere atto che la rappresentazione teatrale è
finita e che bisogna fare qualcosa di concreto. Banche e speculatori dovrebbero
essere i primi a pagare attraverso il ripudio del debito sovrano: il governo
di Atene dovrebbe rimborsare solo una parte dei titoli pubblici nelle mani
delle istituzioni finanziarie o spostare il rimborso molto avanti nel tempo
e, inoltre, potrebbe ridurre d’imperio gli interessi pagati a tali soggetti.
Ai piccoli risparmiatori, identificabili in quanto persone fisiche e sulla
base della detenzione di importi limitati di capitale investito, dovrebbe,
invece, essere garantito il pagamento di cedole ragionevoli e la certezza
del rimborso finale alla scadenza. Inoltre, in maniera ordinata ma il prima
possibile, sarebbe opportuno che la Grecia si liberasse dell’euro e tornasse
a gestire la propria sovranità monetaria reintroducendo la dracma.
Quest’ultimo provvedimento e l’uso intelligente delle risorse liberate
dal rigetto del debito migliorerebbero la competitività della struttura
produttiva greca, portando anche al riequilibrio dello sbilancio commerciale
nei confronti dell’estero.
Evidentemente, l’Unione Europea e i governi di Berlino e di Parigi
stanno lavorando per ottenere esattamente il risultato opposto: non danneggiare
gli istituti di credito che hanno speculato sui titoli greci (soprattutto
banche francesi e tedesche) e far pagare il conto al popolo greco. È
sempre per difendere le proprie banche che la signora Merkel sta imponendo
a tutti i paesi europei più deboli drastiche manovre volte a risanare
i bilanci pubblici. I governi dei paesi in difficoltà “debbono”
rimborsare quanto hanno ricevuto in prestito dalla finanza germanica: da
qui il taglio delle spese pubbliche in Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia.
La cornice europea è ormai soltanto uno specchietto per le allodole.
Nel vecchio continente sono tornati a dettare legge i vecchi Stati nazionali
e il più forte (la Germania) sta facendo la voce grossa con gli
altri. Sta saltando un ulteriore tassello del quadro democratico: governi
eletti dal popolo, di fatto, si trovano a rispondere ad un interlocutore
diverso, camuffato da Unione Europea. I sacrifici già imposti e
quelli che verranno ulteriormente chiesti ai greci, per fare un esempio,
non servono per assicurare un miglior futuro a quel popolo, bensì
soltanto a tenere in piedi le istituzioni finanziarie di altri Stati più
forti e più arroganti. È poi così sorprendente se
la popolarità dell’Unione Europea è in costante calo?