Ripudio del debito o rilancio di una prospettiva libertaria?

Toni Iero, "Cenerentola", n. 141, dicembre 2011


Da più parti si propone, come via d’uscita dalla situazione di prostrazione economica e finanziaria in cui è caduta l’Italia, la cancellazione del debito pubblico o, con un termine più raffinato, il “ripudio” del debito. In effetti, l’onere di quasi duemila miliardi di euro sui conti pubblici risulta sempre più difficile da sostenere in un quadro dove la raccolta di fondi sui mercati finanziari, da parte dello Stato italiano, avviene a condizioni sempre più gravose, ossia con tassi di interesse via via più elevati.
Ma cosa implicherebbe il ripudio del debito? Un primo passo in avanti per capire le conseguenze di questa opzione consiste nel chiamare le cose con il loro nome: stiamo parlando del fallimento finanziario dello Stato. Proviamo ad esaminare, in prima approssimazione, cosa potrebbe accadere se, prospettiva ormai non più impossibile, un giorno il governo italiano, sotto il peso crescente del debito pubblico e in un contesto economico di scarsa crescita, dovesse dichiarare default.
La prima ovvia conseguenza sarebbe il mancato pagamento delle cedole e il mancato rimborso dei titoli pubblici in circolazione. Banca d’Italia stima in circa 190 miliardi di euro l’ammontare di titoli pubblici detenuti direttamente dalle famiglie italiane. Centonovanta miliardi che se ne andrebbero allegramente in fumo. Un altro macigno destinato a cadere sulla testa degli italiani sarebbe l’evaporarsi del risparmio postale, più di 310 miliardi di euro in possesso, per lo più, di persone con basso reddito (tra cui tanti anziani). La prima botta, quindi, sarebbe di 500 miliardi di euro di risparmio distrutto, frutto, in molti casi, di decenni di sacrifici e di rinunce da parte di una discreta fetta della popolazione.
Naturalmente, uno Stato inadempiente incontrerebbe serie difficoltà nel pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, stiamo parlando di milioni di lavoratori. Sarebbe quindi messo in discussione ciò che rimane, per esempio, di sanità pubblica, scuola, vigili del fuoco, etc. Questo non aiuterebbe certo a migliorare le condizioni di vita dei restanti cittadini.
Poi vi sarebbe un’ulteriore conseguenza che a molti sembrerebbe assai gradita: fallirebbero tutte le banche nazionali, che investono una discreta parte dei loro attivi proprio in titoli pubblici italiani. Festeggiamo? Il nemico pubblico numero uno è stato, finalmente, sconfitto? Dopo aver stappato la bottiglia di italico spumante ci renderemmo conto che, in un attimo, ciò che avevamo sui depositi presso gli istituti di credito (circa 549 miliardi di euro) si trasformerebbe in uno sbiadito ricordo di un’epoca definitivamente finita: sarebbero soldi finiti in niente! Così come nulla resterebbe dei 384 miliardi di obbligazioni bancarie acquistate dalle famiglie del Belpaese. Altri 933 miliardi scomparsi, sacrificati sull’altare del ripudio del debito.
Però, anche le compagnie di assicurazione investono abitualmente la maggior parte dei loro attivi in titoli di Stato italiani. Avevate una polizza vita? Beh, la coniugazione al passato del verbo avere è opportuna, poiché il fallimento degli assicuratori italiani comporterebbe anche la cancellazione delle riserve tecniche che garantiscono il pagamento delle prestazioni agli assicurati. Via altri 384 miliardi. Qualcuno ha avuto la pessima idea di sottoscrivere un fondo pensione? Scordatevi di avere una pensione integrativa: i 213 miliardi depositati in questi strumenti di risparmio si convertirebbero in un amaro rimpianto.
Se ciò è ancora insufficiente per far capire il disastro verso cui si andrebbe, occorre specificare che la maggior parte dei lavoratori italiani lavora in aziende di piccola o piccolissima dimensione. Cosa c’entra? C’entra, c’entra. Si tratta di imprese, nella maggior parte dei casi, fragili, che si sostengono finanziariamente grazie al credito bancario. Già, ma le banche sono fallite. Nel giro di un paio di mesi, la maggior parte di queste aziende chiuderebbe i battenti. Migliaia di odiati padroni, finalmente, in ginocchio? Forse, ma sicuramente milioni di lavoratori disoccupati.
Nel frattempo, i ricchi avrebbero tutto il tempo per ritirarsi nelle loro ville nei Caraibi o, più sobriamente, in Costa Azzurra. Che magari potrebbero raggiungere a bordo dei loro yacth. Il denaro per condurre un’agiata esistenza lo preleverebbero dai loro conti in Svizzera o, per gli amanti dell’esotismo, dai depositi presso le isole Cayman.
Qualcuno potrebbe credere che il disastro descritto sopra rappresenti un passaggio inevitabile per poter ricominciare da capo. Annulliamo il debito così non abbiamo più l’onere degli interessi da pagare e si riparte con un bilancio pubblico risanato. Bella prospettiva. Bella e impossibile. Lo sterminio sociale innescato dal fallimento finanziario dello Stato, distruggendo un’importante fetta della base produttiva del Paese, farebbe diminuire drasticamente le entrate pubbliche (tasse e imposte). Servirebbero nuovi prestiti per pagare gli stipendi dei dipendenti, per acquistare i beni e i servizi necessari per far ripartire la macchina pubblica. Solo che lo Stato è fallito e non può certo presentarsi sui mercati finanziari per chiedere nuovo denaro a prestito. Così come non lo
potrebbe chiedere ai propri  cittadini,  dato  che  la maggior parte di loro sarebbe in miseria e senza un’occupazione e relativo reddito. Stampiamo moneta che, nel giro di pochi mesi, diventerebbe carta straccia svilita da un’iper-inflazione modello sudamericano anni ’80?
Non credo serva altro per capire che la strada del ripudio del debito conviene a pochissime persone, precisamente a quello strato della popolazione più ricca che, proprio in virtù dei propri privilegi, ormai può disgiungere la propria sorte personale dal destino collettivo della nazione.
Annullare il debito può sembrare uno slogan rivoluzionario, ma non lo è. Rappresenta, al contrario, la rinuncia a lottare per chiedere che siano i ceti più abbienti a dare il maggior contributo a rimettere in piedi, finanziariamente parlando, questo povero e derelitto Paese. Gli strumenti per realizzare questo passaggio non mancano e se ne è parlato diverse volte in più sedi.
Ritengo che, per un movimento seriamente intenzionato a realizzare, progressivamente, una società più equa, sia giunto il momento di ragionare sulle strade da intraprendere e assumersi la responsabilità di delineare e proporre convincenti prospettive di sviluppo futuro ad una società impaurita e disorientata. Prospettive che, con tutta evidenza, il potere oggi non è più in grado di dare.