Colloquio con Eric Hobsbawm di Wlodek Goldkorn, "L'Espresso", 10 maggio 2012
La notizia della morte del capitalismo è per lo meno prematura,
il sistema economico sociale che da alcune centinaia di anni regge il mondo
non è neanche malato, e basta guardare la Cina per convincersene
e per leggere il futuro. In Oriente masse di contadini entrano nell'universo
del lavoro salariato, lasciano il mondo rurale e diventano proletari.
È nato un fenomeno nuovo, inedito nella storia: il capitalismo
di Stato, dove alla vecchia borghesia illuminata, creativa, anche se rapace
- come la descriveva Marx nel "Manifesto comunista" - sono subentrate istituzioni
pubbliche. Insomma, non siamo all'apocalisse e nessuna rivoluzione è
dietro la porta, semplicemente il capitalismo sta cambiando pelle. Eric
Hobsbawm scende con una specie di montacarichi dalla ripida scala della
sua casa di Highgate a Londra, non lontano dal luogo in cui riposa il suo
grande maestro e ispiratore Karl Marx, appunto. Ha subito un'operazione
per cui cammina male. Ha 95 anni, ma mentre il corpo mostra i segni dell'età,
la testa di questo signore considerato il massimo storico contemporaneo,
è quella di un giovane. Sta scrivendo un saggio su Tony Judt, un
intellettuale britannico morto prematuramente, due anni fa. Parla alla
Bbc, è attivo più che mai. E non ha mai smesso di essere
marxista.
E se per questa intervista con "l'Espresso", una delle rarissime che
rilascia, si è fatto mandare le domande via mail, e se comincia
seguendo il canovaccio concordato, dopo pochi minuti passa a un serrato
e spontaneo dialogo con l'interlocutore. "Mi ha chiesto se sia possibile
il capitalismo senza le crisi", inizia: "No. A partire da Marx sappiamo
che il capitalismo opera attraverso crisi appunto, e ristrutturazioni.
Il problema è che non possiamo sapere quanto sia grave quella attuale,
perché ci siamo ancora in mezzo".
La crisi in corso è differente da quelle precedenti?
"Sì. Perché è legata a uno spostamento del centro
di gravità del Pianeta: dai vecchi Paesi capitalisti verso nazioni
emergenti. Dall'Atlantico verso l'Oceano Indiano e il Pacifico. Se negli
anni Trenta tutto il mondo era in crisi, ad eccezione dell'Urss, oggi la
situazione è diversa. L'impatto è differente in Europa rispetto
ai Paesi del Bric: Brasile, Russia, Cina, India. Altra differenza, rispetto
al passato: nonostante la gravità della crisi, l'economia mondiale
continua a crescere. Però solo nelle aree fuori dall'Occidente".
Cambieranno i rapporti di forza, anche militari e politici?
"Intanto stanno cambiando quelli economici. Le grandi accumulazioni
dei capitali da investire sono oggi quelle dello Stato e delle imprese
pubbliche in Cina. E così mentre nei Paesi del vecchio capitalismo
la sfida è mantenere gli standard del benessere esistenti - ma io
credo che queste nazioni siano in un rapido declino - per i nuovi Paesi,
quelli emergenti, il problema è come mantenere il ritmo di crescita
senza creare problemi sociali giganteschi. È chiaro, ad esempio,
che la Cina si è data a una specie di capitalismo in cui l'insistenza
di stampo occidentale sul Welfare è completamente assente: sostituita
invece dall'ingresso velocissimo di masse di contadini nel mondo del lavoro
salariato. È un fenomeno che ha avuto effetti positivi. Rimane la
questione, se questo sia un meccanismo che possa operare a lungo".
Quello che sta dicendo porta alla questione del capitalismo di Stato.
Il capitalismo come l'abbiamo conosciuto significava scommessa personale,
creatività, individualismo, capacità di invenzione da parte
dei borghesi. Può lo Stato essere altrettanto creativo?
"L'"Economist" alcune settimane fa si è occupato del capitalismo
di Stato. La loro tesi è che potrebbe essere ottimo nella creazione
delle infrastrutture e per quanto riguarda gli investimenti massicci, ma
meno buono nella sfera della creatività. Ma c'è dell'altro:
non è scontato che il capitalismo possa funzionare senza istituzioni
come il Welfare. E il Welfare è di regola gestito dallo Stato. Penso
quindi che il capitalismo di Stato ha un grande futuro".
E l'innovazione?
"L'innovazione è orientata verso il consumatore. Ma il capitalismo
del Ventunesimo secolo non deve pensare necessariamente al consumatore.
E poi: lo Stato funziona bene quando si tratta dell'innovazione nell'ambito
militare. Infine: il capitalismo di Stato non è legato al dovere
di una crescita senza limiti, e questo è un vantaggio. Detto questo,
il capitalismo di Stato significa la fine dell'economia liberale come l'abbiamo
conosciuta negli ultimi quattro decenni. Ma è la conseguenza della
sconfitta storica di quello che io chiamo "la teologia del libero mercato",
la credenza, davvero religiosa, per cui il mercato appunto si regola da
sé e non ha bisogno di alcun intervento esterno".
Per generazioni la parola capitalismo faceva rima con libertà,
democrazia, con l'idea che le persone forgiano il proprio destino.
"Ne siamo sicuri? Secondo me non è affatto evidente associare
i valori che lei ha menzionato con determinate politiche. Il capitalismo
di mercato puro non è obbligatoriamente legato alla democrazia.
Il mercato non funziona nel modo in cui lo teorizzavano i liberisti: da
Hayek a Friedmann. Abbiamo semplificato troppo".
Cosa vuol dire?
"Ho scritto tempo fa che abbiamo vissuto con l'idea di due vie alternative:
il capitalismo di qua il socialismo di là. Ma è un'idea stramba.
Marx non l'ha mai avuta. Spiegava invece che questo sistema, il capitalismo,
un giorno sarebbe stato superato. Se guardiamo la realtà: gli Usa,
l'Olanda, la Gran Bretagna, la Svizzera, il Giappone, possiamo arrivare
alla conclusione che non si tratta di un sistema unico e coerente. Ci sono
tante varianti del capitalismo".
Intanto la finanza prevale. C'è chi dice che il capitalismo
potrebbe fare a meno della borghesia. È un'intuizione giusta?
"È emersa con forza un'élite globale composta di persone
che decidono tutto nel campo dell'economia, e che si conoscono tra di loro
e lavorano insieme. Ma la borghesia non è scomparsa: esiste in Germania,
forse in Italia, meno negli Usa e in Gran Bretagna. È cambiato invece
il modo in cui si accede a farne parte".
Vale a dire?
"L'informazione è oggi un fattore di produzione".
Non è una novità. Già i Rothschild diventarono
ricchi perché per primi seppero della sconfitta di Napoleone a Waterloo,
cosa che ha permesso loro di sbancare la Borsa...
"Intendo una cosa diversa. Oggi fai soldi perché controlli l'informazione.
E questo è un argomento forte nelle mani dei reazionari che dicono
di combattere le élites colte. Sono le persone che leggono i libri
e che hanno vari gradi di istruzone universitaria, a trovare gli impieghi
redditizi. Gli istruiti sono identificati ormai con i ricchi, con gli sfruttatori,
e questo è un problema politico vero".
Oggi si fanno soldi senza produrre beni materiali, con derivati,
con speculazioni in Borsa.
"Però si continua a fare denaro anche, e soprattutto, producendo
beni materiali. È cambiato solo il modo con cui viene prodotto quello
che Marx chiamava il valore aggiunto (la parte del lavoro dell'operaio
di cui si appropria il padrone, ndr.) Oggi lo producono non più
gli operai ma i consumatori. Quando lei compra un biglietto aereo on line,
lei con il suo lavoro gratuito paga per l'automazione del servizio. È
quindi lei a creare il plusvalore che fa il profitto dei padroni. È
uno sviluppo caratteristico della società digitalizzata".
Chi è oggi il padrone? Una volta c'era la lotta di classe.
"Il vecchio proletariato ha subito un processo di outsourcing; dagli
antichi Paesi verso i nuovi. È là che dovrebbe esserci la
lotta di classe. Però i cinesi non sanno cosa sia. Seriamente: forse
invece ce l'hanno la lotta di classe, ma non la vediamo ancora. Aggiungo:
la finanza è una condizione necessaria perché il capitalismo
vada avanti, ma non è indispensabile. Non si può dire che
il motore che muove la Cina sia solo la voglia di profitto".
È una tesi sorprendente, la può spiegare?
"Il meccanismo che sta dietro all'economia cinese è il desiderio
di restaurare l'importanza di una cultura e di una civiltà. È
l'opposto di ciò che succede in Francia. Il più grande successo
francese degli ultimi decenni è stato Asterix. E non è un
caso. Asterix è il ritorno al villaggio celtico isolato che resiste
all'urto del resto del mondo, un villaggio che perde ma sopravvive. I francesi
stanno perdendo, e lo sanno".
Intanto in Occidente abbiamo i banchieri centrali che ci dicono cosa
fare. Si parla di conti, numeri, ma non dei desideri degli umani e del
loro futuro. Si può andare avanti così?
"A lungo termine, no. Ma sono convinto che il vero problema sia un
altro: l'asimmetria della globalizzazione. Certe cose sono globalizzate,
altre super-globalizzate, altre non sono state globalizzate. E una delle
cose che non lo sono state è la politica. Le istituzioni che decidono
di politica sono gli Stati territoriali. Rimane quindi aperta la questione
come trattare problemi globali, senza uno Stato globale, senza un'unità
globale. E questo riguarda non solo l'economia, ma anche la più
grande sfida dell'esistente, quella ambientale. Uno degli aspetti della
nostra vita che Marx non ha visto è l'esaurimento delle risorse
naturali. E non intendo l'oro o il petrolio. Prendiamo l'acqua. Se i cinesi
dovessero usare la metà dell'acqua pro capite utilizzata dagli americani
non ce ne sarebbe abbastanza nel mondo. Sono sfide dove le soluzioni locali
sono inutili, se non a livello simbolico".
C'è un rimedio?
"Sì, a patto che si capisca che l'economia non è fine
a se stessa, ma riguarda gli esseri umani. Lo si vede osservando l'andamento
della crisi in atto. Secondo le antiquate credenze della sinistra la crisi
dovrebbe produrre rivoluzioni. Che non si vedono (se non qualche protesta
degli indignati). E siccome non sappiamo neanche quali sono i problemi
che stanno per sorgere, non possiamo nemmeno sapere quali saranno le soluzioni".
Può fare qualche previsione comunque?
"È estremamente poco probabile che la Cina diventi una democrazia
parlamentare. È poco probabile che i militari perdano tutto il loro
potere nella maggior parte degli Stati islamici".
Lei ha sostenuto la necessità di arrivare a una specie di
economia mista, tra pubblico e privato.
"Guardi la storia. L'Urss ha tentato di eliminare il settore privato:
ed è stata una sonora sconfitta. Dall'altro lato, il tentativo ultraliberista
è pure miseramente fallito. La questione non è quindi come
sarà il mix del pubblico con il privato, ma quale è l'oggetto
di questo mix. O meglio qual è lo scopo di tutto ciò. E lo
scopo non può essere la crescita dell'economia e basta. Non è
vero che il benessere è legato all'aumento del prodotto totale mondiale".
Lo scopo dell'economia è la felicità?
"Certo".
Intanto crescono le diseguaglianze.
"E sono destinate ad aumentare ancora: sicuramente all'interno dei
singoli Stati, probabilmente tra alcuni Paesi e altri. Noi abbiamo un obbligo
morale nel cercare di costruire una società con più uguaglianza.
Un Paese dove c'è più equità è probabilmente
un Paese migliore, ma quale sia il grado di uguaglianza che una nazione
può reggere non è affatto chiaro".
Cosa rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai
parlato né di socialismo né di comunismo...
"Il fatto è che neanche Marx ha parlato molto né di socialismo
né di comunismo, ma neanche di capitalismo. Scriveva della società
borghese. Rimane la visione, la sua analisi della società. Resta
la comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi.
E poi, Marx ha fatto alcune previsioni giuste a medio termine. La principale:
che i lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di classe".
In Occidente si parla sempre meno di politica e sempre più
di tecnica. Perché?
"Perché la sinistra non ha più niente da dire, non ha
un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi
della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società".