Max Rivlin-Nadler, "Micromega", 3 Maggio 2012
Dalla Parigi del 1871 alla Praga del 1968 al Cairo nel 2011, per finire
con le vie di New York, le città sono da lungo tempo il terreno
di coltura dei movimenti radicali. Nel corso del tempo le proteste urbane
nascono da una infinità di spunti diversi, dalla disoccupazione
alla fame, alla privatizzazione alla corruzione. Ma c’entra forse anche
la stessa geografia delle città? Una questione particolarmente accesa
questa settimana, mentre il movimento Occupy si prepara a una serie di
grandi manifestazioni in tante città del paese per il Primo Maggio.
Il geografo e sociologo David Harvey, professore di antropologia al
Graduate Center della City University di New York, uno dei venti studiosi
in campo umanistico più citati di tutti i tempi, ha passato un’intera
vita a studiare il modo in cui si organizzano le città, e poi cosa
vi accade. Il suo nuovo libro "Rebel Cities: From the Right to the City
to the Urban Revolution", esamina in profondità gli effetti delle
politiche finanziarie liberiste sulla vita urbana, il paralizzante debito
dei ceti medi e a basso reddito d’America, la devastazione dello spazio
pubblico per tutti i cittadini operata da uno sviluppo sfuggito al controllo.
A partire dalla domanda: Come organizziamo una città? Harvey
esplora l’attuale crisi del credito e le sue radici nella crescita urbana,
e come questo processo abbia di fatto reso praticamente impossibile qualunque
azione politica nelle città per gli ultimi vent’anni. Harvey si
propone come esponente di punta del movimento per il “diritto alla città”,
l’idea secondo la quale il cittadino deve poter intervenire sui modi in
cui le città crescono e sono strutturate. A partire dalla Comune
di Parigi del 1871, quando la cittadinanza rovesciò l’aristocrazia
prendendo il potere, Harvey ricostruisce i modi in cui le città
si sono riorganizzate, e come potrebbero farlo, per diventare più
inclusive e giuste.
Abbiamo incontrato Harvey per parlare di Occupy Wall Street, della
distruzione operata da Bloomberg nelle trasformazioni di New York City,
su come si possa ripensare la città più vicina a come la
vorremmo.
Lei parla del “diritto alla città” come di uno slogan vuoto.
Cosa intende?
Il diritto alla città può rivendicarlo chiunque. Anche
Bloomberg ha diritto alla città. Però ci sono varie fazioni,
con diverse capacità di esercitarlo. Quando parlo del diritto di
ripensare la città più vicina a come la vorremmo, e a cosa
invece abbiamo visto qui a New York City negli ultimi 20-30 anni, si tratta
di come la vorrebbero i ricchi. Negli anni ’70 pesava molto la famiglia
Rockefeller per esempio. Oggi c’è gente come Bloomberg, che sostanzialmente
trasforma la città nel modo che più si adatta a sé
e ai propri affari. Ma la gran massa della popolazione praticamente non
conta nulla in tutto questo. In città c’è quasi un milione
di persone che tenta di farcela con diecimila dollari l’anno. E che influenza
hanno sul modo in cui si trasforma la città? Nessuna.
Il mio interesse principale sulla questione del diritto alla città
non è tanto di affermare che esista una specie di diritto etico,
ma qualcosa per cui lottare. Il diritto di chi? Per che tipo di città?
Penso a quel milione di persone con meno di diecimila dollari l’anno, che
dovrebbero pesare almeno tanto quanto l’1% che sta al vertice. Lo definisco
un significante vuoto, perché ci deve essere qualcuno che arriva
e dice, “È il mio diritto che conta, non il tuo”. Comporta sempre
un conflitto.
Dagli anni ’80 assistiamo in tutto il mondo all’ondata della privatizzazione
di tutto quanto un tempo era pubblico (scuole, ferrovie, acqua). Come ne
è stato influenzato il movimento fra i ceti a basso reddito delle
città?
In un modo che è una delle domande poste dal libro: Perché
non abbiamo fatto nulla? Perché non c’è stato un nostro’68?
Perché non ci sono state più proteste, visto l’immenso accrescersi
delle diseguaglianze in tante città degli Usa, oltre che de resto
del mondo? Oggi stimo cominciando a vederne alcune, di risposte, in Occupy
Wall Street, e anche altrove nel mondo segnali più vistosi. In Cile
gli studenti occupano le università, come avevamo visto negli anni
’60 contro le diseguaglianze di allora.
E non capisco in realtà perché non ce ne siano state
di più, di proteste. Credo dipenda dall’incredibile potere del denaro
di condizionare gli apparati di repressione.
E credo che ci troviamo in una situazione piuttosto pericolosa, perché
è possibile che qualunque forma di ribellione possa essere considerate
alla stregua del terrorismo, nella scia degli apparati post-11 settembre.
Abbiamo visto in casi come la piazza Tahrir Square e altri, con eco anche
in Wisconsin l’anno scorso,segnali di resistenza che iniziano ad emergere.
C’è qualche parallelo con ciò che avvenne negli anni ‘30.
Col crollo del mercato azionario del 1929, le vere proteste poi sono iniziate
verso il 1933, ed è emerso un movimento di massa. Potremmo essere
ora in quella fase, dato che la depressione, o recessione, chiamiamola
come vogliamo, non è certo finita, continuano ad esserci tantissimi
disoccupati, gente che perde la casa, i diritti, e si comincia a capire
che non si tratta di cosa di un momento. È una situazione permanente.
Quindi credo che vedremo più inquietudini di massa da ora in poi.
Non è più come nel 1987, quando dal crollo se ne è
usciti nel giro di un paio d’anni. In questo paese non è più
così.
C’è una differenza, fra lo scoppio di rabbia spontanea, priva
di obiettivi politici, e la risposta più meditata che vediamo nel
movimento Occupy Wall Street. C’è un messaggio che vuole comunicare,
che introduce programmaticamente la diseguaglianza sociale, credo che si
farà molto. Almeno il Partito Democratico ne sta discutendo, cosa
che un anno fa non succedeva. Non se ne parlava proprio. Adesso invece
sì, ed è una cosa che filtra anche nella campagna di Obama,
una inclusione di questi messaggi.
Perché è tanto importante la Comune di Parigi del
1871 per i movimenti di oggi?
Per due ragioni: la prima è che si tratta di una delle più
grandi ribellioni della storia. E di per sé merita studio e discussione.
L’altra è che appartiene alle idee che stanno nel pantheon del pensiero
di sinistra. Molto interessante che sia Marx e Engels che Lenin o Trotsky
tutti considerassero la Comune di Parigi come esempio da cui imparare e
in qualche misura seguire, come a Pietroburgo nel 1905 o anche nel corso
della Rivoluzione Russa successiva. Si tratta di porsi delle domande e
imparare.
In che modo l’urbanizzazione liberista ha distrutto la città
in quanto spazio pubblico abitabile, luogo di politica e società?
Senza farci un’immagine romantica di ciò che la città
era negli anni ’20 e ’30, si trattava senz’altro di una concentrazione
compatta di popolazione, governata da un apparato politico: potere concentrato
ed efficace. Col tempo ci siamo dispersi nella suburbanizzazione, abbiamo
spalmato la città. Si è disperso anche sempre più
quello che si chiama “ghetto”, le zone a bassi reddito non sono più
concentrate a sufficienza da potersi organizzare in quanto tali. Salvo
in alcune occasioni, per esempio a Los Angeles col caso di Rodney King.
Credo che la dispersione della città, la crescita per sobborghi,
la costruzione delle gated communities, frammenti la possibilità
di un’esistenza politica con qualche coerenza, l’idea di un progetto politico
comune. Ci sono tante politiche del tipo Non nel Mio Cortile. Non si vuole
abitare vicino a che appare diverso, non si vogliono gli immigrati, da
un punto di vista sociale cambiano le cose. Ho sempre ritenuto che il tipo
di soggettività costruito dal suburbio, dalla gated community, sia
una soggettività frammentata in cui nessuno coglie il totale come
nella città, il tema complessivo dei processi a cui rivolgersi.
Si pensa solo al proprio segmento del tutto. Credo che obiettivo della
politica sia di ricostruire un corpo di città sulle rovine del processo
di capitalizzazione.
Un termine ricorrente delle vicende Occupy Wall Street è la
“precarietà” (i lavoratori autonomi o senza contratto regolare).
Perché è così importante per un movimento radicale?
Non mi piace troppo il termine “precario”. Da sempre chi lavora alla
produzione e riproduzione della città considera la propria situazione
non sicura, c’è tanto lavoro temporaneo diverso da quello di fabbrica.
Storicamente la sinistra ha guardato al lavoratore della fabbrica coma
base della sua politica nei momenti di cambiamento. La stessa sinistra
non ha mai pensato che fossero significativi anche coloro che producono
e riproducono la vita urbana. Qui entra in campo la Comune di Parigi, perché
se osserviamo i suoi protagonisti, non si tratta degli operai di fabbrica.
Sono invece artigiani, e i tanti lavoratori precari della Parigi dell’epoca.
Oggi, con la scomparsa di tante fabbriche, non c’è più
la massa di classe lavoratrice industriale che c’era negli anni ’60 o ‘70.
Allora la questione è: che base politica ha la sinistra? Io sostengo
che si tratti appunto di chi produce e riproduce la vita urbana. Molti
di loro sono precari, si spostano spesso, difficili da organizzare, da
sindacalizzare, una popolazione che subisce un continuo ricambio, ma che
possiede comunque un enorme potenziale politico. Uso sempre l’esempio del
movimento per i diritti dei migranti nel 2006. Furono tantissimi di loro
ad astenersi dal lavoro per una giornata, Los Angeles e Chicago restarono
del tutto bloccate, dimostrando questa gigantesca forza. Dovremmo pensare
a questo segmento di popolazione. Il che non esclude il lavoro organizzato,
ma pensiamo che oggi nel settore privato (esclusa la pubblica amministrazione
nel suo complesso) siamo al 9% della popolazione. È enorme il lavoro
precario.
E se troviamo il modo per organizzarlo in qualche modo, di dargli nuovi
strumenti di espressione politica, credo sia possibile mobilitarlo con
grandiosi risultati sulla vita urbana e le sue relazioni, in città
come New York, o Chicago o Los Angeles e tante altre.
Lei afferma che “La rivoluzione del nostri tempi deve essere urbana”.
Perché la sinistra è tanto refrattaria all’idea?
Credo faccia parte del dibattito sull’interpretazione della Comune
di Parigi. Alcuni hanno sostenuto che si trattava di un movimento sociale
urbano, e quindi non di un movimento di classe. Un’interpretazione che
risale alla sinistra marxista, secondo la quale un movimento rivoluzionario
può derivare solo /dagli operai delle fabbriche. Beh, non è
che se non ci sono più fabbriche non c’è più la rivoluzione.
Sarebbe ridicolo.
Io ritengo che si debba guardare al fenomeno della classe urbana. Dopo
tutto, è il capitalismo finanziario a costruire oggi la città,
coi suoi condomini e uffici. Se vogliamo resistere dobbiamo farlo con una
lotta di classe, contro questo potere. E sono molto serio nel porre la
domanda: come si mobilita una intera città? Perché è
nella città che sta il futuro politico della sinistra.
Come è possibile trasformare lo spazio pubblico in qualcosa
di più accessibile?
Vediamola in termini semplici: a New York di spazio pubblico ce n’è
tanto, ma poco in cui si possa sviluppare una attività collettiva.
La democrazia ateniese aveva l’agorà. Ma a New York City dove potremmo
andare a cercare un agorà, dove si discute davvero. Ecco di cosa
stavano parlando davvero le persone che si riunivano a Zuccotti Park. Costruivano
uno spazio per sviluppare dialogo politico. Dobbiamo prendere gli spazi
pubblici, che come si scopre pubblici non sono affatto, e trasformarli
in un luogo politico, dove prendere decisioni, dove stabilire se è
davvero una buona idea costruire ancora, qualche nuovo gruppo di condomini.
Attraversavo l’altro giorno il parco a, Union Square, ad esempio, dove
c’era dello spazio, ma ci hanno messo delle aiuole: i tulipani hanno un
loro luogo, e noi no. Oggi lo spazio pubblico è totalmente controllato
dal potere politico, al punto che non è più un bene comune.
Le scelte amministrative di Bloomberg sono state descritte come “Trasformare
la città come faceva Moses ma pensando sempre a Jane Jacobs”. [Robert
Moses ricostruì spietatamente New York City per mezzo secolo, spesso
devastando quartieri per farci passare arterie veloci verso la periferia.
Jane Jacobs, scrittrice e sua principale oppositrice, contribuì
a salvare il Greenwich Village da una di queste autostrade] Come è
possibile riconciliarli?
La città razionalista e modernizzatrice è stata qualcosa
di spietato. L’amministrazione Bloomberg ha lanciato forse più megaprogetti
di Moses negli anni ‘60, ma cercando di riverniciarli di interesse pubblico,
esteriormente in stile Jane Jacobs. Mascherando la natura dei grandi progetti.
C’è anche una patina ambientalista. Bloomberg è, in parte
in buona fede, amico dell’ambiente. Contentissimo se si realizzano trasformazioni
verdi. Trasforma tutte le strade per farle diventare spazi “amichevoli”
per ciclisti: salvo che quei ciclisti poi non ci si radunino in massa.
Questo non gli piacerebbe affatto.
Crede che sia in crescita il movimento contro gli aspetti della
città liberista?
La cosa che colpisce di più è che se guardiamo a una
ipotetica carta mondiale di chi è contro alcuni aspetti di ciò
che fa il capitalismo, vediamo una massa di proteste enorme. Ma si tratta
di una cosa molto frammentata. Ad esempio, oggi parliamo del debito contratto
dagli studenti. Domani potrebbe essere il turno dei pignoramenti, o una
protesta perché si chiudono ospedali, o su cosa succede nell’istruzione
pubblica. La difficoltà è trovare un modo per collegare il
tutto. Ci sono dei tentativi, come The Right to the City Alliance, o Excluded
Workers Congress, ciò vuol dire che si riflette su come unirsi,
ma siamo ancora alle fasi iniziali. Se funziona, avermo una enorme massa
di persone interessate a cambiare il sistema, sin dalle radici, perché
oggi non risponde ai bisogni e ai desideri di nessuno.
Occupy Wall Street appare come una convergenza su alcune delle cose
di cui ci ha parlato, ma manca ancora qualcuno in grado di unire. Perché
la sinistra resiste così tanto all’idea di leadership, di gerarchia?
Credo che a sinistra ci sia sempre stato un problema, un feticismo
dell’organizzazione, l’idea che basti a un certo progetto un certo tipo
di struttura. Ha funzionato nel progetto comunista, dove si è seguito
il modello del centralismo democratico, da cui non ci si allontanava. Aveva
dei punti di forza, e altri di debolezza. Oggi vediamo molte componenti
della sinistra resistere a qualunque forma di gerarchia. Si ribadisce che
tutto debba restare orizzontale, democratico, aperto. Ma in realtà
non lo è.
Occupy Wall Street funziona come un’avanguardia [un partito politico
alla testa di un movimento]. Dicono di no, ma lo sono. Parlano del 99%
ma non sono il 99%: si rivolgono al 99%. Ci deve essere molta più
flessibilità a sinistra nel costruire vari tipi di organizzazione.
Mi ha molto colpito il modello usato a El Alto in Bolivia, in cui si mescolavano
strutture orizzontali e verticali, a costruire una forte organizzazione
politica. Credo che sia meglio allontanarsi al più presto da certe
forme di discussione. Quelle in voga oggi andranno benissimo per piccoli
gruppi, che si riuniscono in assemblea. Ma non si può certo riunire
in assemblea tutta la popolazione di New York City. E poi pensare alle
strutture regionali ecc.. In realtà Occupy Wall Street un comitato
di coordinamento ce l’ha. Ma esitano a prendere la testa dell’organizzazione.
Credo che per riuscire i movimenti debbano mescolare struttura orizzontale
e verticale e gerarchia. Quella migliore l’ho vista negli studenti cileni,
con una giovane comunista [Camila Vallejo], molto aperta alla struttura
orizzontale anziché al comitato centrale che decide le cose. Però
quando ci vuole la leadership la si deve usare. Iniziando a ragionare in
questi termini avremo una sinistra più flessibile ma organizzata.
Dentro a Occupy ci sono gruppi che cercano di trascinare gente del Partito
Democratico a sostenere i propri temi, minacciando di candidarsi al loro
posto se non lo fanno. Non è la maggioranza, a fare queste cose,
ma esistono.
Alla fine del libro non si hanno molte risposte, ma si indica la necessità
di aprire un dialogo per uscire da vistose diseguaglianze e dalle continue
crisi del capitalismo. Vede segnali del genere in Occupy?
È possibile. Se il movimento sindacale si sposta verso forme
di organizzazione più territoriali, non solo basate sui luoghi di
lavoro, allora l’alleanza coi movimenti sociali urbani sarà molto
più forte. La cosa interessante è che questo genere di collaborazioni
ha una storia di successi. Credo sia possibile piantare un seme, e innescare
una grande trasformazione. Se Occupy Wall Street vede questa possibilità
si aprono molte prospettive. Il mio libro è anche la base per esaminare
queste possibilità, non ne va esclusa nessuna perché non
sappiamo quale sia la migliore. Però esiste un enorme spazio per
l’attività politica...