Jeff Halper, "Una città", n. 199, marzo 2004
Dove nasce l’identificazione, ormai corrente, fra antisionismo, addirittura antisemitismo e critiche a Israele? Una decisione del partito al governo in Israele e la situazione degli ebrei in diaspora. Risponde Jeff Halper.
Jeff Halper, originario degli Stati Uniti, si è trasferito in Israele nel 1973. Già docente di Antropologia presso l’Università Ben Gurion del Negev, oggi è il coordinatore del Comitato Israeliano contro la demolizione delle case dei palestinesi (Icahd), vive a Gerusalemme.
Qual è il rapporto, se c’è, tra antisionismo e antisemitismo?
Innanzitutto vorrei fare una precisazione: non tutta la critica verso
Israele è antisionista; sicuramente non è necessariamente
antisemitismo, ma non è nemmeno antisionismo.
Bisognerebbe iniziare a guardare a Israele come fosse un paese reale.
Proprio questo, tuttavia, per i più, è molto difficile. Israele
viene visto innanzitutto come compensazione per l’Olocausto; i cristiani
poi lo assumono come un passaggio verso la salvezza divina; molti ebrei,
infine, ne fanno una rappresentazione molto idealistica, i kibbutz, Golda
Meir, l’esodo… Insomma quasi nessuno lo vede per quello che realmente è.
Israele, per tanti versi, è quasi più un’immagine piuttosto
che un paese reale.
Eppure all’interno di Israele, se si guarda ad Haaretz o ad altri giornali,
c’è una visione molto più lucida e spregiudicata rispetto
alla situazione; gli israeliani si riferiscono al proprio paese come a
uno Stato a tutti gli effetti; infatti c’è molta più critica,
anche rispetto ai magazine più radicali e di sinistra presenti in
giro per il mondo. Alcuni articoli pubblicati quotidianamente su Haaretz,
in accordo con questa etichetta di nuovo antisemitismo, verrebbero considerati
appunto antisemiti, se pubblicati in Italia.
Allora, credo che prima di tutto occorrerebbe dire alla gente di fare
ciò che fanno gli israeliani, vale a dire di riferirsi a Israele
come a un paese normale, e quindi sentirsi liberi di criticarlo. Io posso
criticare Berlusconi senza essere anti-italiano. Siamo nell’ovvietà:
non incolperò certo tutti gli italiani per via di un governo che
adotta una politica che non condivido. Ma soprattutto penso che questo
sia un atteggiamento “sano” anche nei confronti di Israele. Israele è
un paese reale.
Tra l’altro, si può porre questa stessa questione in termini
sionisti. Uno degli obiettivi del sionismo era di dar vita a un paese “normale”,
che sarebbe entrato a far parte della comunità internazionale. Gli
ebrei, nel corso della storia, si sono sempre sentiti “fuori”, gli stranieri,
gli alieni. Lo stesso Mazzini ha avuto un ruolo importante sul piano ideologico:
fu infatti Mazzini a dire che un popolo senza Patria, senza bandiera è
il bastardo dell’Umanità. Ebbene, questa divenne una delle direttive
ideologiche del sionismo; l’idea che, se il mondo è organizzato
in Stati nazionali, allora l’unico modo per gli ebrei di rientrare nella
storia umana, trovando un posto nel mondo, è di avere un proprio
paese. Ed è significativo che la parola “normale” sia stata usata
sin dall’origine e ripetutamente proprio dai sionisti. All’inizio del ‘900,
ci fu una rapina a Tel Aviv; ebbene Hayyim Nahman Bialik, uno dei maggiori
poeti in Israele, ne gioì: finalmente anche noi avevamo avuto una
rapina in banca, come tutti gli altri!
Dunque, lo ripeto, è assolutamente preferibile, per tutti, guardare
a Israele come a un paese normale, reale. Questo però significa
anche che Israele deve rispettare gli standard dei diritti umani e la legge
internazionale. Non può pretendere entrambe le cose. Non può
aspirare ad essere un paese normale, a far parte della comunità
internazionale e però chiamarsi fuori quando si tratta di rispettare
le leggi internazionali, in quanto “speciale”. Dei due l’uno: non puoi
essere normale e speciale.
Tu sostieni che questa ambivalenza, tra l’altro, è pericolosa
proprio per gli ebrei della diaspora…
Voler rimanere “speciali” è molto pericoloso in generale, ma
per gli ebrei in particolare. Certo, se essere speciale significa non applicare
la Quarta Convenzione di Ginevra rispetto all’Occupazione, è evidente
che c’è una convenienza politica. Ma sul lungo periodo, questo essere
speciale può avere anche un effetto boomerang.
Non è un caso che proprio gli ebrei abbiano portato apporti
decisivi nella formulazione delle leggi internazionali promulgate negli
ultimi 50 anni. Dopo la tragedia della shoah, nessuno più degli
ebrei poteva sentire l’urgenza di un antidoto contro quello che era accaduto,
che non poteva che essere uno strumento universale, di qui l’impegno per
i diritti umani, per le leggi internazionali…
René Samuel Cassin, un ebreo francese, è stato tra i
relatori della Dichiarazione Universale dei diritti umani. La stessa discussione
sulla Quarta Convenzione di Ginevra è stata portata avanti da un
ebreo…
Allora la domanda è: gli ebrei, gli israeliani, ma anche la
gente che sostiene Israele, vogliono di nuovo stare fuori? Molti di coloro
che appoggiano Israele credono di favorirlo proteggendolo dalle critiche,
dalle leggi internazionali. Io invece resto convinto che la vera sicurezza
per Israele -se lo si vuole davvero proteggere nel lungo periodo- verrà
solo ed esclusivamente dal suo entrare a far parte a tutti gli effetti
della comunità internazionale. E questo avverrà solo se ci
sarà la pace con i palestinesi, e quindi l’integrazione nel Medio
Oriente.
Volendo essere provocatori si potrebbe metterla anche così:
il vero antisemitismo è sostenere lo Stato di Israele mentre viola
le leggi internazionali, perché questo significa tenerlo fuori dalla
comunità.
Vorrei aggiungere un’altra cosa. Io non nego affatto che ci sia l’antisemitismo
nel mondo. Anche se oggi non è paragonabile all’entità del
razzismo contro i neri, gli africani, o anche contro le donne: nel mondo
vengono uccise più donne che ebrei.
E tuttavia rappresenta una potente arma politica nelle mani di Israele.
Perché nessuno oggi vuole essere accusato di antisemitismo.
Nel corso degli ultimi due anni, nel Ministero per gli Affari Esteri,
a Gerusalemme, si è lavorato all’elaborazione di una nuova etichetta,
quella appunto di “nuovo antisemitismo”, in base alla quale qualsiasi critica
a Israele è antisemita.
Ora, ciò che risulta interessante è che ci sono persone,
in Israele e nel mondo ebraico, che sono assolutamente contrarie a questa
idea di un nuovo antisemitismo. Perché ridurre tutta la complessità
dell’antisemitismo già esistente (religioso, razzista, politico)
alla critica contro Israele significa che alla fine ci si focalizzerà
esclusivamente su chi critica Israele, che non è necessariamente
antisemita, e i veri antisemiti verranno ignorati. Anche perché
i veri antisemiti non criticano Israele.
Allora, spostando l’attenzione dal vero antisemitismo a Israele, paradossalmente,
si fa un cattivo servizio proprio agli ebrei delle comunità. Il
vero antisemitismo infatti ha più a che fare con gli ebrei che vivono
in giro per il mondo, che non con quelli che vivono in Israele.
Il voler mantenere Israele in uno stato di eccezionalità sta
portando a una sorta di conflitto di interessi tra Israele, appunto, e
gli ebrei della diaspora.
Il 75% degli ebrei non vive in Israele, né ha intenzione di
farlo. Ha costruito la propria vita in Italia, negli Usa, in America Latina,
ecc. Ecco, io credo che per loro sia molto pericoloso definire la propria
vita, la propria cultura e la propria posizione politica attraverso Israele.
E’ proprio contro i loro interessi. Negli incontri che mi capita di fare
nelle comunità ebraiche, quello che cerco di dire è proprio
questo: state attenti a non mettervi in pericolo difendendo a spada tratta
politiche che sono assolutamente non difendibili.
Allora, tornando alla domanda iniziale, trovo l’idea che l’antisemitismo
coincida con l’antisionismo, e che ogni critica a Israele sia antisemita,
semplicemente disonesta, oltre che, come ho tentato di spiegare, pericolosa
in primo luogo per gli ebrei.
Un collaboratore di Dissent, la rivista americana diretta da Michael
Walzer, ci diceva che il direttore sostiene che Israele rappresenta il
baluardo nel mondo contro il razzismo, un baluardo da difendere quindi
strenuamente…
E’ evidentemente un paradosso. L’atteggiamento degli ebrei nei confronti
di Israele, inclusi i progressisti -Dissent è di estrema sinistra-
è davvero curioso.
Gli ebrei, in realtà, non hanno mai accettato il sionismo. Davvero.
La maggior parte di loro non è mai andata in Israele.
Uno dei principi del sionismo era la negazione dell’Esilio. Nell’ideologia
sionista gli ebrei all’estero vivono in esilio, sono in una fase del processo
che li riporterà a casa, quindi in una condizione precaria e comunque
temporanea; l’unico significato di una vera vita ebraica si dà nell’appartenenza
nazionale a Israele. Gli ebrei però non la vedono così: si
sentono in diaspora. E la differenza è che la diapora è volontaria.
Certo, riconoscono una centralità a Israele nella propria vita,
ma essendo in diapora conducono comunque una vita propria, senza pensare
di dover necessariamente “tornare a casa”. Il fatto è che gli ebrei,
da un lato non hanno accettato di sentirsi in esilio, e tuttavia in qualche
modo hanno introiettato l’idea che sia l’esistenza di Israele a conferire
un senso alla loro vita.
C’è anche da dire che questo sentimento non è così
stravagante: dopo la seconda guerra mondiale, in Europa qualsiasi forma
di cultura ebraica era stata distrutta. Quando è nato Israele c’era
una sorta di vacuum: gli ebrei erano orfani della ricca cultura ebraica
sviluppatasi in Europa. L’unico centro vibrante di una vera vita ebraica
era davvero Israele.
E’ per questo che anche gli intellettuali -il caso di Dissent è
emblematico- hanno questo atteggiamento ambivalente: non hanno alcuna intenzione
di andare a vivere in Israele; razionalmente sanno che la politica portata
avanti da questo governo è sbagliata, e tuttavia assumono posizioni
difensive. Ma perché non hanno nient’altro alle spalle. Le comunità
ebraiche non hanno sviluppato una propria cultura, sono state cooptate,
per così dire, da Israele. Che, a sua volta, ha sempre cercato di
delegittimare qualsiasi forma di cultura ebraica sviluppatasi fuori da
Israele. Ogni volta che si è avviata una forma di promozione della
propria cultura da parte delle comunità ebraiche, Israele ha detto
no perché considerava tutto questo antisionista, una riproposizione
del ghetto, quindi qualcosa di negativo, di sospetto.
Non vorrei suonare blasfemo, ma si potrebbe anche andare oltre, azzardare
e dire che il maggiore nemico della cultura ebraica, in certi casi, è
proprio Israele. Per dire, se negli Usa o in Europa, uno voleva studiare
l’yiddish, Israele diceva: no, non farlo, l’yiddish è la lingua
del ghetto... Ora le cose stanno cambiando, almeno negli Usa c’è
un revival della cultura ebraica, la musica klezmer vive una stagione di
grande vitalità, c’è anche un festival annuale a Pittsburg;
ci sono i festival del cinema ebraico…
Tornando a Dissent: l’impressione è che queste persone non abbiano
altro, nella propria vita ebraica, se non l’esistenza di Israele. Oggi
un giovane ebreo che non voglia, o non possa, appoggiare la politica di
Israele, che viene avvertito come un paese lontano, si trova senza un “centro”,
per così dire. Io non conosco abbastanza bene le comunità
ebraiche italiane, ma negli Usa molti ebrei si stanno convertendo al protestantesimo.
Del resto, oggi per un ragazzo cosa vuol dire essere ebreo, cos’è
l’ebraicità? Certo, io sono felice di essere nato ebreo, ma cosa
significa questo oggi per le nuove generazioni? Mio fratello è sposato
con una giapponese; le mie due sorelle sono sposate con non-ebrei. Lo stesso
Dissent allora, che pure è un magazine ebraico, sembra pensare che
non ci sia una vita ebraica al di là di Israele.
Credo sia un ulteriore segnale della crisi che stanno attraversando
le comunità ebraiche.
In Italia, ormai, l’accusa di antisemitismo è passata contro
la sinistra; intanto Fini va in Israele…
Fini ha un’alleanza con un partito di estrema destra del governo israeliano.
C’è questo movimento, l’Unione Nazionale, guidato da Liebermann,
un immigrato russo che si fa fatica a non definire fascista, che credo
abbia partecipato addirittura a una convention di partiti fascisti tenutasi
in Austria, se non ricordo male. Ecco, Alleanza nazionale ha stretto un’alleanza
politica con questi personaggi.
La situazione in effetti è assai complessa, oltre che delicata.
Ma è proprio per questo che la voce di noi israeliani è
così importante, come pure la voce dei vari gruppi di Ebrei contro
l’Occupazione. Perché siamo noi quelli che possono dire: “Trattate
Israele come un paese normale”. La critica verso Israele, davvero, è
positiva. Io critico i miei figli. Essere critici è una cosa buona:
significa voler qualcosa di meglio, di più, da parte dell’altro.
Essere critici non significa essere contro. Per questo dicevo che un vero
antisemita non critica Israele: vuole semplicemente la sua sparizione.
Essere critici invece significa che tu accetti l’esistenza dell’altro,
ma auspichi e pretendi un cambiamento, in meglio.
Allora, quello che credo, in realtà, è che la destra,
i vari Fini, non critichino Israele perché non sono minimamente
interessati alla sua sopravvivenza. Per non parlare dei fondamentalisti
cristiani, che vogliono proprio la sua distruzione, la fine di Israele,
in vista dell’Armageddon. Ecco, loro di sicuro non criticheranno mai Israele.
Invece chi critica Israele, anche se casomai non è interessato al
destino di questo paese, ma a quello dei palestinesi, avendo comunque come
obiettivo la pace in Medio Oriente, indirettamente e, di nuovo, paradossalmente,
appoggia Israele.
Insomma il ragionamento per cui criticare Israele coinciderebbe con
una forma di antisemitismo non ha proprio alcun senso logico.
Resta il fatto che oggi un giovane, che casomai della Shoah sa poco,
tratta Israele come il Sudafrica, quindi lo detesta…
Le persone che odiavano l’apartheid sudafricano, che volevano la fine
di quel regime odioso, non necessariamente volevano la fine del Sudafrica.
Lo so, ci sono persone che sostengono la totale illegittimità di
Israele, che odiano Israele; non la sua politica, odiano proprio questo
paese.
Ma, ancora una volta, si tratta di antisemitismo? In realtà,
si può appoggiare la rivendicazione dei palestinesi senza essere
contro Israele. E comunque l’esistenza di Israele non è così
direttamente connessa all’esistenza degli ebrei. C’è poi un aspetto
ulteriore: in qualche modo Israele si fonda sull’idea di dare uno Stato
al popolo ebraico. Ma già questo, per gli stessi ebrei, è
un concetto problematico. Gli ebrei sono un popolo? Gli ebrei italiani
non si sentono membri della nazione ebraica. Gli ebrei non si sentono esattamente
una nazione nel senso di uno Stato.
Fino al 1948 la maggior parte degli ebrei era antisionista. Theodor
Herzl, il fondatore del sionismo, tenne la prima conferenza a Basilea perché
a Zurigo, il luogo in origine prescelto, la comunità ebraica si
oppose. Il giudaismo riformato è stato sempre antisionista; come
pure gli ortodossi.
Oggi il sionismo viene visto come una posizione normale, naturale da
parte degli ebrei, ma non è così. Fino a 50 anni fa non era
affatto una posizione “normale”. In Russia, il Bund, che poi si trasferì
negli Usa, era radicalmente antisionista; e, sul piano quantitativo, il
Bund era un movimento molto più forte del sionismo.
Tra il 1880 e la prima guerra mondiale, circa 6 milioni di ebrei si
trasferirono dalla Russia in Occidente. Di questi 6 milioni, circa 70 mila
andarono in Palestina, i sionisti appunto. La metà di loro lasciò
il paese nel giro di due anni. Insomma stiamo parlando del 5% degli ebrei;
solo il 5% degli ebrei, in tempi in cui c’era ancora piena libertà
di movimento, decisero di andare in Palestina.
Allora, di nuovo, bisogna far capire alle comunità ebraiche
che non possono avere entrambe le cose. Non puoi stabilirti in Italia,
diventare cittadino europeo, costruire la vita -tua e dei tuoi figli- qui
e poi aspettarti che Israele sia lo Stato degli ebrei. Lo so qui tocchiamo
nervi molto sensibili, ma io davvero non vedo altre vie d’uscita: Israele
deve lasciare andare le comunità ebraiche per la propria strada,
legittimandole, permettendo loro di sviluppare la propria cultura; allo
stesso tempo le comunità ebraiche devono lasciare andare Israele;
devono riconoscere che Israele ormai è un paese reale, e che non
è il “loro” Stato. Perché -e credo che questo sia davvero
qualcosa che non possiamo più permetterci di non vedere- fino a
che gli ebrei continuano a identificarsi con Israele e Israele a usare
gli ebrei per i propri obiettivi politici, rimarremo tutti intrappolati
in una condizione che non giova a nessuno.