di Lorenzo Guadagnucci, "A rivista anarchica", N. 280, aprile 2002
Dicono che il crac della Enron abbia scosso fortemente Wall Street e
dintorni: finanzieri, esperti delle società di certificazione, ministri
della più potente democrazia liberista del mondo si sono sentiti
improvvisamente allo scoperto, come se qualcuno avesse detto a tutti gli
altri: guardate, sono nudi. In Argentina stavolta non è fallita
un'azienda, magari grandissima, ma un intero paese: non era mai successo
prima. E soprattutto nessuno sa come risollevare questo paese dalla recessione:
tutte le 'ricette' considerate vincenti sono già state applicate,
coi risultati che si sono visti. Gli 8 Grandi dicono di avvertire l'impellenza
di fare qualcosa per ridurre le disparità sociali del pianeta, ma
intanto Fao e Nazioni Unite ammettono serenamente di avere sbagliato tutte
le previsioni circa la lotta alla fame nel mondo: dovevano dimezzarla entro
il 2015, si sono accorti che la denutrizione, con gli interventi di questi
anni, è stata appena scalfita.
Sono fatti recenti (potremmo citarne molti altri), che vanno nella
stessa direzione: il sistema perde colpi e i 'globalizzatori' sono in difficoltà.
Il Clarin, giornale di Buenos Aires, ha scritto che durante il World
Economic Forum, all'inizio di febbraio, la domanda più comune fra
i leader politici e gli imprenditori riuniti al Waldorf Astoria di New
York fosse questa: "A chi tocca dopo l'Argentina?". Perciò potrebbe
non avere torto chi ha sostenuto che il Wef di Davos/New York, in questo
delicato 2002, fosse il 'controvertice' rispetto al World social forum
di Porto Alegre, e non viceversa.
Crogiolo di identità, lingue e culture
L'anno scorso, alla prima edizione del Forum sociale, fece colpo il
ministro francese del commercio estero, Francois Houwert, piombato improvvisamente
in Brasile mentre i suoi colleghi dell'Europa dei quindici erano diligentemente
saliti nella cittadina svizzera di Davos: "Dopo Seattle" disse Houwert
"non è più possibile ignorare l'opinione pubblica. Sono qui
perché qui è riunita la società civile mondiale".
È passato un anno che sembrano cento. In mezzo ci sono state le
sconvolgenti giornate di Genova, l'attacco alle Due Torri e la 'guerra
al terrorismo' lanciata dalla 'coalizione liberista del Nord'. È
passato un 'secolo' e Porto Alegre anziché perire (o deperire) ha
richiamato non più 15 ma 70 mila persone; il numero di movimenti,
sindacati, associazioni è almeno triplicato; gli workshop sono raddoppiati
(da 400 a oltre 800). Porto Alegre è diventato un laboratorio politico
e culturale che si propone il più ambizioso dei progetti: immaginare
un altro mondo, cominciando a costruire un sistema economico e sociale
che prescinda dal liberismo.
Il Forum è un crogiolo di identità, di lingue, di culture.
Ammette ogni ideologia, senza farne propria alcuna: è come una piazza,
un luogo d'incontro aperto a chi voglia mettere in rete le proprie esperienze,
unire le proprie forze con quelle di soggetti affini che magari lavorano
dall'altra parte del globo. È la più grande palestra dei
'globalizzatori dal basso'.
Ma che cosa propongono, in concreto, quelli di Porto Alegre? Che cosa
hanno concluso nei sei giorni di discussioni a cavallo fra gennaio e febbraio?
E che ci facevano tutti quei parlamentari, ministri, sindaci, candidati
presidenziali? Il Forum si è chiuso anche quest'anno senza un documento
politico finale: 'Questo non è un congresso di partito', spiegano
gli organizzatori. C'è però un testo di riferimento, il documento
conclusivo dei movimenti sociali. È in sedici punti, ma fissa due
principi fondamentali: il ripudio della guerra e del terrorismo; la lotta
al neoliberismo. Sono le pregiudiziali del 'movimento dei movimenti'. Ma
la forza di Porto Alegre, la sua ricchezza più vera, non è
scritta in quel documento e va ricercata altrove: negli 800 workshop, nelle
pieghe delle iniziative ufficiali, negli incontri che hanno messo a fuoco
idee e progetti, contenuti su cui mobilitarsi nei mesi a venire. C'è
la proposta della Tobin Tax, per la quale in Italia è appena partita
la raccolta di firme per una legge d'iniziativa popolare. C'è il
progetto di un contratto internazionale per l'accesso all'acqua, perché
intorno alle risorse idriche si giocheranno i futuri rapporti di potere
fra Stati e fra aree geografiche del pianeta. Ci sono le campagne per la
sovranità alimentare rilanciate da Via Campesina (la rete mondiale
di associazioni contadine), che sostiene il no agli ogm e rigetta i propositi
di liberalizzazione commerciale in agricoltura, destinati a privare i paesi
asiatici e africani della facoltà di indirizzare le proprie economie
verso l'obiettivo minimo della sussistenza.
C'è la campagna contro i brevetti sulla proprietà intellettuale,
sull'onda dei successi ottenuti in Sudafrica contro le multinazionali che
producono farmaci anti Aids. C'è la spinta a democratizzare l'informazione,
sempre più allineata e organica al 'pensiero unico neoliberista':
Ignacio Ramonet (Le Monde Diplomatique) ha proposto la creazione
di comitati di controllo sui media; Jeff Cohen (dell'agenzia statunitense
Fairness) l'introduzione di una tassa per finanziare i media indipendenti.
Gente allegra e motivata
Porto Alegre 2 è stata una kermesse forse caotica, sicuramente
creativa. Potevi entrare in un'aula della Pontificia università
cattolica e ascoltare Martin Khor, malaysiano direttore del Third World
Network, che spiegava i devastanti e poco noti effetti sull'Africa
dei progetti definiti dalla Wto al vertice di Doha; o magari scoprire che
la rete Lilliput italiana ha messo a punto un 'misuratore del benessere'
alternativo al Pil, uno strumento di lavoro a suo modo rivoluzionario;
o ancora potevi seguire l'intervento accorato di Wolfgang Sachs sul consumo
dei beni comuni non riproducibili.
Da Porto Alegre è tornata gente allegra, motivata, che porta
con sé nuove conoscenze, nuovi progetti, un mucchio di indirizzi
nell'agenda. Il Forum è cresciuto, ha messo in piedi una propria
agenda con un calendario d'incontri continentali destinati a rafforzare
i movimenti e la loro capacità di mobilitazione. Forse il Forum
non ha convinto fino in fondo proprio sul 'caso Argentina', che poteva
diventare il tema chiave di questa edizione e invece è stato trattato
alla pari di altri.
Resta aperta anche la questione del radicamento geografico: il numero
di delegati asiatici e africani è molto cresciuto rispetto alla
prima edizione, ma resta la sensazione di un evento guidato da un asse
franco-italo-brasiliano.Indubbiamente Porto Alegre non ha definito, neanche
stavolta, un progetto definito di società, ma almeno ha indicato
un metodo, fatto di condivisione, messa in rete dei progetti, sperimentazione.
Il Forum vuole evitare il rischio di creare un "pensiero unico antiliberista",
perciò l'onere dell'iniziativa ora passa ai Forum locali, ai movimenti
sociali, alle reti d'economia informale. Tocca a loro indicare le strade
che possono portare all'altro mondo possibile, nel pluralismo delle idee
e soprattutto dei progetti. Porto Alegre, intesa come città, in
questo senso ha qualcosa da insegnare, in virtù dei suoi esperimenti,
ormai consolidati, sul bilancio partecipativo. Nel Rio Grande do Sul, al
Forum delle amministrazioni locali, sono arrivati centinaia di assessori,
sindaci e consiglieri del Nord del mondo, con gli italiani in prima fila.
Segno, quanto meno, di una forte curiosità, che ora attende espressioni
concrete. Il modello Porto Alegre, che pure ha i suoi difetti, ha dimostrato
di funzionare, ma non è qualcosa d'esportabile: la democrazia partecipata
si costruisce dal basso, sotto la spinta dei movimenti sociali più
che per volontà degli amministratori. I quali, però, possono
assecondare i progetti che germogliano nella società civile.
A Porto Alegre è stato firmato un patto per il "nuovo municipio".
Lo hanno sottoscritto anche sindaci e assessori italiani. E' stato solo
un gesto per catturare simpatie o alle firme seguiranno i fatti? I movimenti,
dopo avere contestato e 'smontato' l'inutile Forum dei parlamentari, hanno
promesso di tenere sotto controllo gli amministratori che si sono impegnati
a Porto Alegre. I più ottimisti sperano in una nuova stagione di
partecipazione popolare, contano di costruire nuove reti associative e
d'indebolire piano piano il consenso attorno alle traballanti 'leggi' dell'economia
neoliberista.
Percorso accidentato
I Forum sociali sono considerati la migliore palestra per questi esperimenti.
I segnali che arrivano dai Forum locali italiani sono però contraddittori.
Alcuni convincono per capacità di coinvolgimento, apertura ideale,
progettualità; altri stentano a decollare e si arenano di fronte
alle troppe diversità. La strategia d'azione non dovrebbe cambiare:
piccoli passi, attenzione alle cose concrete, comunicazione diretta. Qualcuno
chiede uno sforzo più esplicito nell'indicare le rinunce che il
Nord del mondo deve compiere per incamminarsi lungo la strada che allontana
dal neoliberismo. La costruzione di un 'nuovo mondo' ha un prezzo anche
a livello di scelte personali, di qualità e quantità dei
consumi, di 'impronta ecologica', come dicono gli ambientalisti.
Il percorso è sicuramente accidentato, ma 'quelli di Porto Alegre'
sono tornati dal Brasile con una carica d'entusiasmo a prima vista contagiosa.
È un entusiasmo forse rischioso, perché la disillusione è
dietro l'angolo, ma rispetto alle esperienze del passato e alle parabole
di altri movimenti, c'è un elemento in più: la sensazione
diffusa che qualcosa stia davvero cambiando nelle nostre società.
Sta crescendo l'attenzione al nuovo, si sta formando una credibile cultura
antiliberista. Come ha scritto il giornale spagnolo El Pais alla
fine di un editoriale dedicato alla prevalenza di Porto Alegre su Davos/New
York: "La cosa più positiva è questa: si sta diffondendo
la convinzione generalizzata che un mondo più sicuro dev'essere
anche un mondo più giusto".
Lorenzo Guadagnucci